Freud scrisse questo importante saggio all’inizio del 1937 e lo pubblicò in giugno con il titolo Die endliche und die unendliche Analyse nella “Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse”, vol. 23, pp. 209-40 (1937). Esso fu poi riprodotto in Gesammelte Werke, vol. 16 (1950), pp. 59-99.
Freud ritorna qui sui problemi di tecnica della psicoanalisi che erano stati oggetto di trattazione specifica in sei saggi composti tra il 1911 e il 1914. Si era nuovamente occupato di questi temi, ma in forma più divulgativa, nelle lezioni 27 e 28 dell’Introduzione alla psicoanalisi (1915-17), in OSF, vol. 8 e nel saggio su Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926). Qualche cenno a problemi di tecnica della terapia psicoanalitica si ritrova inoltre qui nella lezione 34 dell’Introduzione alla psicoanalisi (1932).
Il tono generale dell’opera può apparire in qualche modo pessimistico. Manca qui la sicurezza con cui, nella lezione 27 dell’Introduzione alla psicoanalisi cit., rifacendosi all’analisi della traslazione verso il medico, Freud aveva affermato: “Colui che nei rapporti col medico è ormai divenuto normale e non è più soggetto a spinte pulsionali rimosse, tale resterà anche nella vita privata, quando il medico sarà uscito di scena”; e nella lezione 28: “Con il superamento di queste resistenze, la vita psichica del malato viene mutata permanentemente, elevata a un grado superiore di sviluppo e preservata da nuove possibilità di malattia.” Anzi, egli afferma qui (vedi Analisi terminabile e interminabile, par. 3): “Non avremmo il diritto di meravigliarci se alla fin fine risultasse che la differenza di comportamento fra una persona non analizzata e colui che si è sottoposto a un’analisi non è poi così radicale come vorremmo, come ci attenderemmo, e come affermiamo che in effetti sia.”
Freud si sofferma sulle condizioni che rendono possibile un esito favorevole dell’analisi. Egli non abbandona esplicitamente la vecchia concezione per cui l’analisi avrebbe carattere di terapia sintomatica: “Noi curiamo dunque non l’isteria, ma alcuni suoi sintomi aiutando il paziente a portare a termine una reazione che era rimasta incompleta”, aveva detto nella conferenza sul Meccanismo psichico dei fenomeni isterici (1893), in OSF, vol. 2; e anche nel presente scritto (ibid., par. 1) ripete che la terapia analitica è “l’opera di liberazione di un essere umano dai suoi sintomi nevrotici, inibizioni e anomalie del carattere”, e, poco oltre (ibid., par. 2), che l’analisi può dirsi conclusa quando il paziente non soffre più dei suoi sintomi e ha superate le sue angosce e le sue inibizioni.
Ma nella presente opera viene affermandosi altresì un altro concetto, quello di un rafforzamento dell’Io, di una trasformazione in profondità della persona che l’analisi, se correttamente eseguita e senza far ricorso a indebite scorciatoie, riesce a ottenere.
Questo concetto di un rafforzamento dell’Io diventa anzi nella presente opera un fattore dominante, che dà luogo addirittura a una sorta di circolo vizioso, come quando Freud afferma (ibid., par. 5) che nella situazione analitica noi ci alleiamo con l’Io del paziente per sottomettere ad esso porzioni incontrollate del suo Es. Ma l’Io col quale concludiamo questo patto deve essere un Io sufficientemente robusto e normale. Per cui sembrerebbe che la guarigione sia possibile soltanto se l’Io non è malato.
Freud attenua tuttavia questa conclusione pessimistica introducendo il concetto di “alterazione dell’Io” e sottolineando l’importanza del fattore quantitativo sia per la produzione della malattia che per il risultato della terapia analitica. Egli accenna inoltre a una certa tipologia differenziale riguardante i pazienti in relazione alla maggiore fluidità o viscosità con cui la loro libido attua gli investimenti energetici sugli oggetti. E prende in esame tre casi clinici da lui stesso trattati, la cui analisi pur avendo avuto a suo tempo un esito apparentemente positivo, non è riuscita a preservare i pazienti da un ritorno di malattia.
Il primo caso è quello dell’“uomo dei lupi”, che apparentemente guarito nel 1914, ebbe in seguito numerose ricadute. Il secondo caso riguarda un personaggio di primo piano nella storia della psicoanalisi, Sándor Ferenczi, che fece nel 1915-16 con lo stesso Freud una breve analisi, apparentemente riuscita (si veda l’Introduzione al vol. 8 di questa edizione), ma che poi si lamentò con lo stesso Freud per disturbi attribuiti al mancato approfondimento della traslazione negativa. Il terzo caso riguarda una persona che è rimasta ignota, una giovane donna.
Importanti sono in questo scritto le pagine che Freud dedica alle norme della professionalità analitica, alle regole severe cui deve attenersi l’aspirante analista e l’analista già formato che, al pari del paziente, dovrà trasformare la sua analisi da compito “terminabile” in “compito interminabile”.
La presente traduzione italiana è di Renata Colorni.