Le resistenze alla psicoanalisi

Se il neonato in braccio alla bambinaia si distoglie strillando da ogni volto che non conosce, se l’uomo devoto inaugura la nuova stagione con una preghiera e saluta però con un motto benedicente ogni primizia che l’anno gli reca, se il contadino si rifiuta di comperare una falce che non porti il marchio di fabbrica ben noto ai suoi genitori, ebbene la disparità di queste situazioni è talmente evidente che appare giustificato il tentativo di riportare ciascuna di esse a un motivo differente.

Tuttavia sarebbe un errore non riconoscere l’elemento che le accomuna tutte: si tratta in effetti del medesimo dispiacere che nel bambino si esprime in forma elementare, nell’uomo devoto riesce ad essere placato da un artificio, e nel contadino diventa il motivo di una decisione. La fonte di questo dispiacere è però sempre la pretesa che alla vita psichica è posta da tutto ciò che è nuovo, il dispendio psichico che il nuovo esige, l’insicurezza che reca in sé e che può trasformarsi in aspettativa angosciosa. Sarebbe molto interessante studiare più da presso e in modo specifico la reazione psichica al nuovo, giacché in determinate circostanze, di natura non più primaria, si può riscontrare anche il comportamento opposto, ossia una veemente attrazione per tutto ciò che è nuovo, motivata precisamente dal fatto che è così. Nelle cose della scienza non dovrebbe esserci spazio per il timore del nuovo. Nella sua perenne incompiutezza e inadeguatezza la scienza sa di poter sperare di salvarsi soltanto mediante nuove scoperte e nuove prospettive. Per non correre il rischio di troppo facili inganni fa bene a portare avanti la sua battaglia avvalendosi dello scetticismo, e fa bene a non accettare niente di nuovo che prima non sia stato sottoposto a severa verifica. Tuttavia questo scetticismo rivela talvolta due caratteristiche insospettate. Si dirige con asprezza contro ciò che è nuovo, e risparmia invece rispettosamente le cose note e accettate da tempo, accontentandosi di rifiutare la novità senza averne indagato la natura. In questo caso lo scetticismo è manifestamente la prosecuzione della reazione primitiva contro il nuovo di cui abbiamo già parlato, è il modo con cui si camuffa quella reazione per sopravvivere. È universalmente noto che spessissimo nella storia della ricerca scientifica le innovazioni sono state accolte con la più forte e accanita resistenza, anche quando poi è risultato dal corso ulteriore degli eventi che tale resistenza non era giustificata e che la novità in questione era davvero preziosa e importante. Normalmente a provocare la resistenza erano stati taluni elementi caratteristici attinenti al contenuto della novità stessa, mentre, dall’altra parte, per far esplodere la reazione primitiva era stato necessario il concorso di fattori molteplici.

Un’accoglienza particolarmente sfavorevole è stata riservata alla psicoanalisi, che l’autore di questo scritto incominciò a sviluppare quasi trent’anni fa partendo dalle scoperte che aveva fatto il viennese Josef Breuer sulla genesi dei sintomi nevrotici. Il carattere innovativo della psicoanalisi non può essere contestato anche se, oltre alle scoperte di Breuer, essa ha elaborato una ricca messe di materiale proveniente da altre fonti, come ad esempio le dottrine del grande neuropatologo Charcot e le impressioni tratte dall’ambito dei fenomeni ipnotici. In origine la psicoanalisi ebbe un significato meramente terapeutico: si propose la fondazione di un nuovo efficace trattamento per le malattie nevrotiche. Ma accadde poi che determinate connessioni, di cui all’inizio non si poteva neppure sospettare l’esistenza, le consentissero di spaziare molto al di là di quelli che erano stati i suoi primitivi intenti. Alla fin fine la psicoanalisi rivendicò il merito di aver dato un nuovo fondamento alle nostre conoscenze della vita psichica in genere, e di aver dunque acquistato importanza per tutti quegli ambiti del sapere che sono fondati sulla psicologia. Dopo esser stata completamente ignorata per ben dieci anni, la psicoanalisi divenne d’un tratto oggetto del massimo interesse provocando un coro di indignate proteste.

Non mi occuperò in questa sede delle forme in cui si è espressa la resistenza contro la psicoanalisi. Mi basti ricordare che la lotta intorno a questa novità non è ancora giunta a conclusione, anche se è possibile intuire quale sarà il suo esito. Gli avversari non sono riusciti a reprimere il movimento. La psicoanalisi, di cui fino a venti anni fa io ero l’unico esponente, si è ormai conquistata molti importanti e fervidissimi seguaci, medici e non medici, che la esercitano nella sua veste di procedimento terapeutico per le malattie nervose, di metodo della ricerca psicologica, e di strumento ausiliario per un lavoro scientifico applicabile agli ambiti più svariati della vita spirituale. Nelle pagine che seguono il nostro interesse sarà rivolto esclusivamente alle motivazioni della resistenza contro la psicoanalisi, con particolare riferimento al fatto che si tratta di una resistenza dovuta a ragioni molteplici, ciascuna delle quali con un peso differente.

Sotto il profilo clinico le nevrosi andrebbero collocate accanto alle intossicazioni o alle malattie analoghe al morbo di Basedow. Sono malattie che insorgono a causa dell’eccesso o della relativa carenza di sostanze iperattive, ora prodotte all’interno dell’organismo stesso ora introdottevi dall’esterno, e dunque disturbi del chimismo, chiamate anche tossicosi. Se qualcuno riuscisse a isolare e a individuare la sostanza o le sostanze ipotetiche aventi a che fare con la nevrosi, tale scoperta non avrebbe da temere obiezione alcuna da parte dei medici. Tuttavia una strada che porti fin lì non è stata ancora trovata. Non possiamo far altro, per il momento, che partire dal quadro dei sintomi nevrotici che, per esempio nell’isteria, è formato da un insieme di disturbi somatici e psichici. Ebbene, gli esperimenti di Charcot, come pure le osservazioni cliniche di Breuer ci hanno insegnato che anche i sintomi somatici dell’isteria sono psicogeni, sono cioè sedimenti di processi psichici ormai trascorsi. Infatti, trasponendo il soggetto in stato ipnotico, si era riusciti a far sì che insorgessero in lui artificialmente e a piacimento dell’ipnotizzatore i sintomi somatici dell’isteria.

Di questa nuova conoscenza si appropriò la psicoanalisi, la quale incominciò a porsi il problema della natura di un processo psichico come l’ipnosi, che ha conseguenze così inconsuete. Ma la direzione che assunse questa ricerca non andò in un senso che potesse essere bene accetto ai medici della nostra generazione, che erano stati educati a considerare con il massimo rispetto esclusivamente i fattori anatomici, fisici e chimici. Non essendo preparati in alcun modo ad apprezzare i fatti psichici, i medici si atteggiarono verso questi fatti con indifferenza o antipatia. Palesemente dubitavano che le faccende della psiche fossero comunque suscettibili di una trattazione scientifica rigorosa. Per iperreazione a una fase storica ormai superata, durante la quale la medicina era stata dominata dalle concezioni della cosiddetta “filosofia della natura”,56 le astrazioni con le quali la psicologia deve per forza operare apparirono loro nebulose, fantasiose e misticheggianti; nel contempo però dovettero rifiutarsi di dar credito a fenomeni di importanza notevole ai quali le loro indagini avrebbero potuto utilmente riallacciarsi. I sintomi della nevrosi isterica furono considerati effetto della simulazione, le manifestazioni dell’ipnotismo altrettante frodi. Neppure gli psichiatri, alla cui osservazione si imponevano pur sempre i fenomeni psichici più inconsueti e stupefacenti, mostrarono la benché minima voglia di occuparsene dettagliatamente o di approfondirne i reciproci nessi. Si accontentarono di classificare, nella misura del possibile, la molteplicità e la varietà di queste manifestazioni morbose riportando l’ecologia dei vari disturbi a cause somatiche, anatomiche o chimiche. In questo periodo materialistico, o meglio meccanicistico, la medicina fece progressi formidabili, ma si dimostrò corta di vedute e incapace di intendere rettamente quello che a mio parere è il più importante e difficile problema della nostra esistenza.

Si può certo comprendere che dato questo loro atteggiamento verso le faccende della psiche, i medici non gradissero la psicoanalisi e si rifiutassero di rispondere positivamente alle sue pretese che la medicina sovvertisse per molti aspetti i propri insegnamenti e cominciasse a guardare molte cose da un diverso punto di vista. In compenso, però, si poteva pensare che la nuova disciplina avrebbe trovato buona accoglienza presso i filosofi. Costoro erano in effetti avvezzi a mettere in cima alle loro spiegazioni dell’universo concetti astratti (o, come dicevano le malelingue, parole dal significato imprecisato) e non potevano certo esser contrari all’ampliamento dell’ambito della psicologia preparato e proposto dalla psicoanalisi. Ma un altro ostacolo si fece innanzi: lo psichico dei filosofi non era quello della psicoanalisi. Nella loro stragrande maggioranza i filosofi chiamano psichici soltanto i fenomeni della coscienza. Il mondo di ciò che è cosciente coincide per essi con l’ambito di ciò che è psichico. E tutte le altre cose che accadono in quell’entità così difficile da afferrare che è l’“anima”, i filosofi le ascrivono alle determinanti organiche della psiche, ovvero a processi che si svolgono in parallelo ai processi psichici. Per esprimerci in termini più rigorosi, l’anima non ha altri contenuti se non i fenomeni della coscienza, e dunque la scienza dell’anima, la psicologia, non può avere che quest’unico oggetto. I profani, del resto, non la pensano diversamente.

Cosa dirà dunque il filosofo di una dottrina come la psicoanalisi la quale asserisce al contrario che ciò che è psichico è in sé inconscio, essendo la consapevolezza soltanto una qualità che può aggiungersi o non aggiungersi al singolo atto psichico, e che, quand’anche manchi, nulla di quell’atto viene peraltro mutato? Dirà naturalmente che un tale inconscio psichico è un non senso, una contradictio in adjecto, e non vorrà rendersi conto che con questa valutazione non fa altro che ripetere la propria definizione – forse troppo limitata – dello psichico. Al filosofo questa certezza è resa più facile dal fatto che non conosce il materiale da cui lo psicoanalista ha tratto l’irrevocabile convincimento di dover credere negli atti psichici inconsci. Il filosofo non ha posto mente all’ipnosi, non si è sforzato di interpretare i sogni – reputandoli invero, al pari del medico, prodotti insensati di un’attività intellettuale che durante il sonno è degradata – e non sospetta neppure che esistano fenomeni come le rappresentazioni ossessive e le idee deliranti; in effetti sarebbe in grave imbarazzo se qualcuno gli chiedesse di spiegare questi fenomeni basandosi sui suoi presupposti psicologici. Anche l’analista si rifiuta di dire che cosa sia l’inconscio, egli può però far riferimento a quell’ambito di fenomeni osservando i quali è stato indotto a formulare l’ipotesi dell’inconscio. Il filosofo, che non conosce nessun altro tipo di osservazione al di fuori dell’autosservazione, non riesce a seguirlo su questa strada.

Come si vede, dunque, dalla propria posizione intermedia tra medicina e filosofia la psicoanalisi deriva soltanto svantaggi. Il medico la reputa un sistema speculativo e non vuol credere che essa, al pari di ogni altra scienza naturale, sia fondata sull’elaborazione paziente e faticosa di dati di fatto derivanti dal mondo delle percezioni; il filosofo, che la commisura sul metro delle proprie artificiose formazioni sistematiche, reputa impossibili le sue ipotesi di partenza e le rimprovera la mancanza di chiarezza e precisione dei concetti generalissimi cui è pervenuta (i quali sono comunque ancora in via di formazione).

Le circostanze or ora illustrate sono più che sufficienti a spiegare la riluttanza e l’esitazione con cui l’analisi è stata accolta nei circoli scientifici. Ma non bastano a spiegare invece come e perché nella polemica si sia giunti a una simile esplosione di sdegno, ironia e sarcasmo, in spregio a tutte le normali regole della logica e del buon gusto. Tale reazione fa supporre che siano state stimolate non solo resistenze di natura intellettuale e che si siano destate altresì forti potenze affettive; invero nel contenuto della dottrina psicoanalitica sono parecchie le cose destinate a provocare un effetto simile sulle passioni non solo degli scienziati ma degli uomini in generale. Innanzitutto va menzionata la grande importanza che la psicoanalisi attribuisce alle cosiddette pulsioni sessuali nella vita psichica umana: secondo la teoria psicoanalitica i sintomi delle nevrosi non sono altro che soddisfacimenti sostitutivi e deformati di forze pulsionali sessuali alle quali, a causa di una resistenza interna, è stato impedito un soddisfacimento diretto. Poi, quando la psicoanalisi allargò il proprio campo d’indagine al di là dei limiti che si era originariamente prefissa e cominciò a essere applicata alla vita psichica normale, essa cercò di dimostrare che proprio le componenti sessuali che possono essere stornate dalle loro mete più prossime per indirizzarsi verso altre mete sono quelle che recano i contributi più significativi alle conquiste civili dell’individuo e della collettività. Non erano affermazioni completamente nuove. Il filosofo Schopenhauer aveva già sottolineato con enfasi indimenticabile l’importanza incomparabile della vita sessuale.57 Tuttavia ciò che la psicoanalisi chiama sessualità non coincide certo con la spinta irresistibile all’unione dei due sessi o alla produzione di piacere genitale, e assomiglia casomai molto di più all’Eros del Simposio platonico che tutto comprende in sé e tutto preserva.

Purtroppo però gli avversari dimenticarono questi illustri predecessori; si scagliarono contro la psicoanalisi come se essa avesse attentato alla dignità del genere umano; le rimproverarono il suo “pansessualismo”, sebbene la dottrina psicoanalitica delle pulsioni fosse sempre stata rigorosamente dualistica58 e non avesse mai dimenticato di riconoscere che accanto alle pulsioni sessuali esistono altre pulsioni, alle quali aveva perfino attribuito la forza di reprimere le pulsioni sessuali stesse (per definire questa antitesi da principio erano stati usati i termini pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io mentre in base agli ultimi sviluppi della teoria i nomi erano stati mutati in Eros e pulsione di morte o pulsione di distruzione). Il fatto che l’arte, la religione e l’ordinamento sociale fossero parzialmente fatti derivare dall’apporto di forze pulsionali sessuali fu considerato un affronto che degradava i valori più alti della nostra civiltà, e con enfasi fu sottolineato che gli uomini avevano ben altri interessi oltre a quelli meramente sessuali. Per eccesso di zelo si dimenticava che anche l’animale ha altri interessi (essendo in effetti soggetto alla sessualità non permanentemente come l’uomo, ma solo a tratti e in periodi ben determinati), che questi altri interessi dell’uomo nessuno li ha mai contestati e che infine il mostrare come un’acquisizione della nostra civiltà tragga origine da fonti pulsionali elementari e animali non diminuisce per nulla il suo valore.

Una simile ingiustizia e mancanza di senso logico reclama una spiegazione. E in effetti scoprire l’origine di tutto ciò non è difficile. La civiltà umana poggia su due pilastri, di cui uno è il controllo delle forze della natura, l’altro è la limitazione delle nostre pulsioni. Il trono della regina è retto da schiave in catene. Fortissime e selvagge, le pulsioni sessuali in senso stretto rimangono pur sempre in agguato dietro le componenti pulsionali che sono diventate così servizievoli. Guai a liberarle! Il trono verrebbe rovesciato e la regina calpestata. Questo la società lo sa e non vuole che se ne parli.

Ma perché? Qual è il danno che può derivarle da una simile discussione? La psicoanalisi non ha mai speso una sola parola in favore della liberazione delle pulsioni che potrebbero danneggiare la nostra comunità; proprio al contrario, ci ha messo in guardia al fine di migliorarne il controllo. Tuttavia la società, avendo per più di un verso la coscienza sporca, non vuole assolutamente che si svelino queste circostanze. Essa ha stabilito un alto ideale di moralità – moralità equivale a limitazione delle pulsioni – il cui adempimento pretende da tutti i suoi membri, senza preoccuparsi di quanto tale obbedienza possa risultare difficile da sopportare per i singoli. Eppure la società non è né così ricca né così bene organizzata da poter risarcire adeguatamente il singolo per quel tanto di rinuncia pulsionale che gli impone. Resta dunque affidata all’individuo la scelta dei modi di compensarsi del sacrificio richiestogli al fine di preservare il proprio equilibrio psichico. Nel complesso, comunque, l’individuo è costretto a vivere psicologicamente al di sopra dei propri mezzi, mentre le esigenze pulsionali insoddisfatte fanno sì che egli avverta con un senso di oppressione costante le pretese della civiltà. In tal modo la società alimenta una stato di ipocrisia civile, cui si affiancano inevitabilmente un senso di insicurezza e un bisogno di proteggersi da questo inequivocabile stato di precarietà mediante il divieto di discussione e di critica. Questa considerazione vale per tutti i moti pulsionali, e dunque anche per quelli egoistici; non indagherò invece in questa sede se essa possa essere applicata a tutte le possibili civiltà e non solo a quelle che sono state fin qui prodotte. A ciò si aggiunga che per quel che concerne le pulsioni sessuali in senso stretto, nella maggior parte delle persone esse vengono imbrigliate in modo insufficiente e psicologicamente scorretto, talché sono le prime a volersi svincolare.

La psicoanalisi svela i punti deboli di questo sistema e dà alcuni consigli per modificarlo. Propone di diminuire la severità con cui viene effettuata la rimozione delle pulsioni e di dare più spazio alla sincerità. Ad alcuni moti pulsionali, che la società ha represso in misura eccessiva, dev’essere consentito un più ampio soddisfacimento, per altri il metodo repressivo mediante rimozione dev’essere sostituito con un procedimento migliore e più sicuro. A causa di queste critiche la psicoanalisi è stata considerata “nemica della civiltà” e messa al bando in quanto “socialmente pericolosa”. Questa resistenza non potrà durare in eterno; alla lunga non c’è istituzione umana che possa sottrarsi all’influenza di una visione critica ben fondata; fino a questo momento, tuttavia, l’atteggiamento degli uomini verso la psicoanalisi continua a esser dominato da questo timore, che libera le loro passioni e riduce la loro capacità di ragionare correttamente.

Per la sua dottrina delle pulsioni la psicoanalisi ha offeso l’individuo in quanto membro della comunità sociale; un’altra parte della teoria psicoanalitica lo ha ferito nel punto più sensibile del suo sviluppo. La psicoanalisi ha messo la parola fine alla bella favola dell’asessualità dell’infanzia, ha dimostrato come fin dall’inizio della vita esistano nei bambini piccolissimi interessi e attività sessuali, ne ha illustrato le trasformazioni, precisando che intorno ai cinque anni esse subiscono un’inibizione e che poi, a partire dall’epoca della pubertà, entrano al servizio della funzione riproduttiva. La psicoanalisi ha asserito che la vita sessuale della piccola infanzia culmina nel cosiddetto complesso edipico (l’attaccamento emotivo per il genitore di sesso opposto accompagnato da un atteggiamento di rivalità per quello dello stesso sesso) e ha aggiunto che in questo periodo della vita tale impulso si esprime ancora in forma disinibita come appetito sessuale diretto. L’esistenza di questo complesso è talmente facile da verificare che ci vuole anzi un notevole sforzo per trascurarlo. In effetti ogni singolo individuo ha attraversato questa fase, ma poi, con grande sforzo l’ha rimossa e portata all’oblio. Da questa preistoria individuale è derivato come residuo il timore dell’incesto e un possente senso di colpa. Forse la preistoria generale della specie umana è stata molto simile, e gli esordi della moralità, della religione e dell’ordinamento sociale furono intimamente connessi con il superamento di quell’epoca antichissima. A questa sua preistoria, che in seguito apparve ai suoi occhi così indecorosa, l’adulto non volle che si facesse cenno; e cominciò ad adirarsi allorché la psicoanalisi si propose di sollevare il velo dell’amnesia che ricopriva i suoi anni infantili. Non gli rimase dunque che un’unica via d’uscita: le asserzioni della psicoanalisi erano false e questa presunta nuova scienza era un misto di fantasticherie e di deformazioni.

Le forti resistenze alla psicoanalisi non erano dunque di natura intellettuale, ma traevano piuttosto origine da fonti affettive. Ciò spiegava il loro carattere passionale e la loro povertà logica. La situazione poteva essere compendiata in una formula semplicissima: gli uomini, in quanto massa, si comportavano verso la psicoanalisi esattamente come il semplice nevrotico che avevamo preso in cura a causa delle sue sofferenze; a costui, tuttavia, purché ci mettessimo al lavoro con pazienza, riuscivamo a dimostrare che i fatti si erano svolti come noi li avevamo ipotizzati: in ogni caso non si trattava di nostre invenzioni, ma di esperienze tratte da una faticosa ricerca che durava da vari decenni.

Questa situazione era allarmante e consolante al tempo stesso: allarmante perché non era certo cosa da poco avere per paziente l’intero genere umano, consolante perché in definitiva tutto si svolgeva in perfetta conformità con le ipotesi della psicoanalisi.

Se passiamo in rassegna ancora una volta le resistenze testé illustrate contro la psicoanalisi, dobbiamo ammettere che solo una minima parte di esse appartiene al tipo di resistenza che perlopiù si leva contro le innovazioni scientifiche di qualche momento. La maggior parte di queste resistenze deriva invece dal fatto che intensi sentimenti umani sono stati feriti dal contenuto della dottrina psicoanalitica. La stessa cosa è capitata alla teoria darwiniana della discendenza, la quale ha abbattuto il muro divisorio fra uomini e animali eretto dalla presunzione umana. Ho già richiamato l’attenzione su questa analogia in un breve saggio scritto in passato,59 nel quale ho messo in rilievo che la concezione psicoanalitica del rapporto fra Io cosciente e inconscio ultrapotente rappresenta una grave umiliazione inferta all’amor proprio umano. Questa umiliazione l’ho chiamata psicologica e l’ho accostata all’umiliazione biologica dovuta alla teoria della discendenza, e alla precedente umiliazione cosmologica provocata dalla scoperta di Copernico.

Difficoltà meramente estrinseche hanno inoltre contribuito a rafforzare la resistenza contro la psicoanalisi. Non è facile farsi un giudizio indipendente sulle faccende dell’analisi se non la si è sperimentata su sé medesimi o esercitata su qualcun altro; quest’ultima cosa non è possibile a meno di non aver appreso una ben precisa tecnica; ma fino a poco tempo fa non era facile procurarsi l’opportunità di imparare la psicoanalisi e la sua tecnica. Le cose sono migliorate da che è stato fondato a Berlino (nel 1920) il policlinico psicoanalitico con l’annesso dipartimento didattico, e poco dopo (nel 1922) un istituto del tutto analogo a Vienna.

Sia concesso infine all’autore di sollevare in tutta modestia la questione se per caso la sua personalità di ebreo che non ha mai voluto nascondere le proprie origini ebraiche non abbia anch’essa contribuito a determinare l’antipatia del mondo che lo circonda per la psicoanalisi. Raramente un argomento come questo viene reso esplicito, ma noi siamo purtroppo diventati talmente sospettosi da non poterci esimere dalla supposizione che una circostanza come questa non sia rimasta completamente priva di conseguenze. E forse non è stato un fatto puramente casuale che il primo esponente della psicoanalisi fosse un ebreo. Per aderire alla teoria psicoanalitica bisognava avere una notevole disponibilità ad accettare un destino al quale nessun altro è avvezzo come l’ebreo: è il destino di chi sta all’opposizione da solo.60

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