Capitolo 8
Sbadataggini

Dal lavoro di Meringer e Mayer già menzionato [nota 109] citerò ancora il passo seguente:301

“I lapsus verbali non sono isolati. Essi corrispondono a quegli sbagli che spesso si verificano in altre azioni umane e che con poco criterio vengono chiamati ‘sviste’.”

Dunque non sono affatto io il primo a supporre che nelle piccole perturbazioni funzionali della vita quotidiana delle persone normali siano nascosti un senso e un’intenzione.302

Se i lapsus commessi nel parlare, che è invero una prestazione motoria, hanno permesso una simile concezione, è facile estenderne l’applicazione agli sbagli commessi nelle altre nostre manifestazioni motorie. Ho stabilito due gruppi di casi: tutti quei casi nei quali l’effetto mancato, dunque la deviazione dell’intenzione, appare come l’elemento essenziale, io li chiamo sbadataggini; gli altri nei quali piuttosto tutto l’agire appare inappropriato, io li definisco come azioni sintomatiche e casuali. La distinzione, però, non è netta e si deve comprendere che tutte le classificazioni usate nel presente studio hanno importanza meramente descrittiva e contraddicono l’intima unità di questo campo di fenomeni.

L’intendimento psicologico delle “sbadataggini” evidentemente non viene molto facilitato assegnandole all’“atassia” e in particolare all’“atassia corticale”. È meglio tentare di ricondurre i singoli esempi alle loro rispettive condizioni. Ricorrerò anche qui a osservazioni fatte su me stesso, anche se, in me, le occasioni non sono molto frequenti.

a) In passato, quando con più frequenza di ora visitavo i pazienti a domicilio, spesso mi accadeva, quand’ero arrivato alla porta ove dovevo bussare o suonare, di togliermi di tasca le chiavi del mio appartamento, per poi doverle riporre, quasi mortificato. Se indago nella memoria per stabilire con quali pazienti ciò mi accadeva, debbo ammettere che questo atto mancato dell’estrarre le chiavi anziché suonare il campanello significava un omaggio alla casa dove mi recavo. Esso era equivalente al pensiero: “Qui sono come a casa mia”, poiché succedeva soltanto coi pazienti ai quali mi ero affezionato (naturalmente non suono mai alla porta di casa mia).

L’atto mancato dunque era la raffigurazione simbolica di un pensiero non propriamente destinato a essere accettato seriamente, coscientemente, perché in realtà chi cura le malattie nervose sa benissimo che il malato gli rimane attaccato soltanto finché si attende dei vantaggi da lui, e che egli stesso si permette di nutrire un interesse eccessivamente caloroso per i suoi pazienti unicamente allo scopo dell’assistenza psichica.

Che303 il modo scorretto e molto significativo di maneggiare le chiavi non sia una peculiarità della mia persona, risulta da numerose autoosservazioni di altri.

Una ripetizione quasi identica delle mie esperienze è descritta da Maeder:304 “È accaduto a chiunque di estrarre il proprio mazzo di chiavi giungendo alla porta di un amico particolarmente caro, di sorprendersi per così dire a voler aprire con la propria chiave come a casa propria. È una perdita di tempo, perché nonostante tutto bisogna suonare, ma è una prova che da quell’amico ci si sente – o ci si vorrebbe sentire – come a casa propria.”

Jones:305 “L’uso delle chiavi è una fonte feconda di casi del genere, di cui voglio dare due esempi. Se sono disturbato nel mezzo di qualche lavoro che mi assorbe a casa mia, perché devo recarmi all’ospedale per un lavoro di routine, facilmente mi capita di sorprendermi a voler là aprire la porta del mio laboratorio con la chiave della mia scrivania a casa, pur essendo le due chiavi ben diverse. Lo sbaglio inconsciamente dice dove io preferirei essere in quel momento.

“Alcuni anni fa lavoravo in posizione subordinata presso un certo istituto il cui portone veniva tenuto chiuso a chiave, cosicché era necessario suonare per essere ammessi. Varie volte mi colsi sul fatto mentre facevo seri tentativi per aprire la porta con la chiave di casa mia. Ciascuno dei membri permanenti di quell’istituto era provvisto di una chiave per evitare la seccatura di dover aspettare alla porta. Io aspiravo alla posizione di membro permanente e i miei sbagli quindi esprimevano il mio desiderio di essere trattato alla pari e di essere ‘di casa’ in quel luogo.”

Similmente Sachs narra: “Porto con me sempre due chiavi, una delle quali apre la porta del mio ufficio, l’altra quella del mio appartamento. Non è facile scambiarle, perché la chiave dell’ufficio è almeno tre volte più grande. Per di più ne tengo una nella tasca dei pantaloni, l’altra nel panciotto. Tuttavia mi accadde spesso di accorgermi davanti alla porta di aver preparato sulle scale la chiave sbagliata. Decisi di compiere un esperimento statistico; siccome ogni giorno vengo a trovarmi davanti alle due porte pressappoco nello stesso stato d’animo, anche lo scambio delle due chiavi, se era psichicamente determinato, doveva presentare una tendenza regolare. Dall’osservazione, nei casi successivi, risultò che io regolarmente estraevo la chiave dell’appartamento davanti alla porta dell’ufficio, soltanto un’unica volta era accaduto l’opposto: ero tornato a casa stanco e sapevo che un ospite mi attendeva. Davanti alla porta feci un tentativo di aprire con la chiave dell’ufficio che naturalmente era troppo grande.”

b) In una certa casa, dove da sei anni mi trovo due volte al giorno a orario fisso ad attendere di entrare davanti alla porta del secondo piano, mi è accaduto in questo lungo periodo due volte (con breve intervallo) di essere salito al terzo piano anziché al secondo, di essere cioè salito troppo in alto. La prima volta stavo proprio facendo una fantasia ambiziosa che mi faceva “salire sempre più in alto”. Quella volta non mi ero neppure accorto che la porta in questione era stata aperta mentre ponevo il piede sui primi gradini della terza rampa. Anche la seconda volta, “assorto in pensieri”, ero andato troppo oltre; accortomene, tornai indietro cercando di afferrare la fantasia che mi dominava, e scopersi di essere arrabbiato per una critica (immaginaria) ai miei scritti, in cui mi si rimproverava di andare sempre “troppo oltre”, ossia, come ora mi ero espresso con frase meno rispettosa, di “salire troppo in alto”.

c) Da molti anni si trovano sulla mia scrivania un martelletto per riflessi e un diapason, l’uno accanto all’altro. Un bel giorno esco in tutta fretta appena finita l’ora di visita, perché voglio fare in tempo a prendere una determinata corsa della ferrovia metropolitana, e metto in tasca, alla piena luce del giorno, il diapason in luogo del martelletto. Mi rende accorto dello sbaglio il peso dell’oggetto. Chi non è abituato a meditare su questi fatterelli, certamente spiegherà e scuserà l’errore con la fretta del momento. Ciò nonostante ho preferito chiedermi perché io avessi preso il diapason anziché il martelletto. La fretta avrebbe potuto ben essere un motivo per afferrare la cosa giusta, per non dover poi perdere tempo nel correggere lo sbaglio.

“Chi ha per ultimo afferrato il diapason?” ecco la domanda che mi si presenta spontanea. Fu pochi giorni prima un bambino idiota, di cui esaminai l’attenzione alle impressioni sensorie e che era talmente affascinato dal diapason da farmi durar fatica a strapparglielo. Ciò significa forse che sono un idiota? Pare di sì, perché l’idea successiva che si associa al martelletto [in tedesco Hammer] è Chamer (in ebraico: asino).

Ma che significano questi insulti? Bisogna fare qui un esame della situazione. Mi affrettavo per recarmi a consulto in un luogo sulla linea occidentale, presso un malato che, secondo l’anamnesi comunicata epistolarmente, era caduto alcuni mesi prima da un balcone e da allora non poteva camminare. Il medico che mi aveva invitato mi aveva scritto di non sapere ciò nonostante se si trattasse di una lesione del midollo spinale oppure di una nevrosi o isteria traumatica. Dovevo decidere io. Era dunque consigliabile la massima prudenza in questa delicata diagnosi differenziale. I colleghi ritengono, del resto, che si diagnostichi con troppa leggerezza l’isteria quando si tratta di cose assai più serie. Ma ciò non basta a giustificare l’insulto. Ma ecco che c’è dell’altro: la piccola stazione era proprio il luogo in cui anni prima avevo visto un giovanotto che dopo una forte commozione aveva perduto la capacità di camminare normalmente. Io allora feci una diagnosi di isteria e presi poi anche in cura psichica il malato, e più tardi si vide che la mia non era certo una diagnosi sbagliata, ma neppure una diagnosi esatta. Parecchi sintomi del malato erano isterici e questi prontamente scomparvero nel corso della cura. Ma sotto ad essi apparve un residuo inattaccabile dalla terapia, che si poteva spiegare soltanto con una sclerosi multipla. Coloro che videro il malato dopo di me non ebbero difficoltà a riconoscere l’affezione organica. D’altra parte io ben difficilmente avrei potuto giudicare e procedere diversamente, ma ciò nonostante rimase l’impressione di un grave errore; la promessa di guarigione che io gli avevo dato non poté naturalmente essere da me mantenuta. Lo sbaglio nell’afferrare il diapason invece del martelletto poteva quindi tradursi nelle seguenti parole: “Idiota, asino che non sei altro, cerca di non sbagliare questa volta, non diagnosticare di nuovo un’isteria in un caso di malattia inguaribile, come con quel poveretto in quello stesso luogo, anni fa!” E fortunatamente per questa piccola analisi, anche se sfortunatamente per il mio stato d’animo, proprio quell’individuo affetto da grave paralisi spastica era venuto a farsi visitare da me pochi giorni prima ed esattamente un giorno dopo il bambino idiota.

Come si vede, in questo caso fu la voce dell’autocritica a farsi sentire attraverso l’errore commesso, errore che è particolarmente adatto per esprimere un rimprovero a sé stessi. Qui lo sbaglio vuole raffigurare lo sbaglio già commesso in altra occasione.

d) Naturalmente le “sbadataggini” possono servire anche a tutta una serie di altre intenzioni oscure. Ecco qui un primo esempio. Mi accade molto raramente di spaccare qualcosa. Non sono molto abile ma, grazie all’integrità anatomica del mio apparato nervomuscolare, evidentemente mancano in me i presupposti per movimenti maldestri con esiti indesiderati. Non ricordo di aver mai rotto un oggetto in casa mia. L’angustia del mio studio spesso mi obbliga a maneggiare nelle posizioni più scomode gli oggetti di pietra e il vasellame antico della mia piccola collezione, cosicché persone che assistevano hanno espresso il timore che io lasciassi cadere e rompessi qualcosa, ma non è mai successo. Perché allora una volta306 ho buttato a terra il coperchio di marmo del mio modesto calamaio mandandolo in pezzi?

Il mio servizio da scrittoio consiste in una lastra di marmo di Untersberg, che possiede un incavo per accogliere il piccolo calamaio di vetro, il quale ha un coperchio con un pomello della stessa pietra. Dietro questo servizio da scrittoio c’è una serie di statuine di bronzo e di figurine di terracotta. Io mi siedo al tavolino, per scrivere, e con la mano che tiene la penna compio un gesto stranamente maldestro, vago, e così getto a terra il coperchietto del calamaio, già posato sulla scrivania. Non è difficile trovare la spiegazione. Alcune ore prima era stata nella stanza mia sorella per prendere visione di alcuni dei miei nuovi acquisti. Li trovò molto belli e poi disse: “Adesso la tua scrivania offre veramente un bellissimo spettacolo, soltanto il servizio da scrittoio stona. Dovresti averne uno più bello.” Poi uscii insieme a lei e ritornai solamente alcune ore più tardi. E allora, a quanto pare, avvenne da parte mia l’esecuzione capitale del servizio condannato. Ho forse dedotto dalle parole di mia sorella che ella si era proposta di farmi dono alla prossima occasione festiva di un servizio più bello, e ho rotto il brutto servizio vecchio per forzarla a effettuare questa sua intenzione? Se così è, quel gesto della mia mano fu solo apparentemente maldestro; in realtà fu abilissimo e sicuro nella sua mira e seppe evitare di danneggiare tutti gli altri oggetti più preziosi che si trovavano lì vicino.

Io credo veramente che si deve accettare questa stessa interpretazione per tutta una serie di movimenti apparentemente maldestri e casuali. È esatto che questi movimenti ostentano un che di violento, di centrifugo, di spastico-atattico, ma risultano dominati da un’intenzione e colpiscono il loro bersaglio con una sicurezza che in generale non si può ascrivere ai movimenti volontari e coscienti. Entrambi questi caratteri, quello della violenza come quello della sicurezza di mira, sono comuni del resto anche alle manifestazioni motorie della nevrosi isterica e in parte anche alle prestazioni motorie del sonnambulismo,307 il che certamente è indizio, qui come là, di una medesima ignota modificazione del processo di innervazione.

Anche un’autoosservazione comunicata dalla signora Lou Andreas-Salomé308 può servire a convincere dell’abilità con cui un’ostinata “mancanza di abilità” serva intenzioni non confessate:

“Proprio da quando il latte era diventato una merce rara e preziosa mi accadeva, con mio grande terrore e scorno, di lasciarlo traboccare quando lo bollivo. Invano mi sforzavo di rendermi padrona della situazione, sebbene non possa affatto dire di aver dato prova in altre occasioni di distrazione o di disattenzione. A maggior ragione avrei dovuto far ciò dopo la morte del mio caro terrier bianco (che ben a diritto, come solo un essere umano, portava il nome di Družok, parola russa che significa ‘amico’). Ma ecco che da allora non ho mai più fatto traboccare il latte anche di una sola goccia. Il mio primo pensiero fu: ‘Fortuna che sia così ora che il latte versato sul fornello o sul pavimento non potrebbe più servire!’ E contemporaneamente mi vedevo davanti il mio ‘amico’, intento a osservare il processo della bollitura: la testa un po’ inclinata e scodinzolando nell’aspettativa sicura della splendida disgrazia. E con ciò tutto mi fu chiaro e mi resi anche conto che quel cagnolino mi era stato più caro di quanto io stessa sapessi.”

Negli ultimi anni,309 da quando raccolgo questo genere di osservazioni, mi è accaduto alcune altre volte di fracassare o rompere oggetti d’un certo valore, ma l’indagine su questi fatti mi ha convinto che non si trattava mai di un’opera del caso o della mia goffaggine non intenzionale. Così un mattino, attraversando una stanza mentre ero in accappatoio e calzavo pantofole di paglia, seguii un estro improvviso lanciando col piede una delle pantofole contro la parete, facendo così cadere da una mensola una bella piccola Venere di marmo. Mentre andava in pezzi, citai con somma indifferenza i versetti di Busch:310

Ach! die Venus ist perdü –

[Ahi! la Venere è perduta –

Klickeradoms! – von Medici!

Patatrac! – de’ Medici!]

Questo folle comportamento e la mia calma di fronte al danno si spiegano con la mia situazione di allora. Avevamo in famiglia una malata grave, della cui guarigione già avevo disperato fra di me.311 Quel mattino avevo saputo di un grande miglioramento; so di essermi detto: “Dunque rimarrà in vita nonostante tutto.” Poi il mio accesso di furia distruttrice servì a esprimere uno stato d’animo di gratitudine verso il destino e mi permise di compiere un atto sacrificale, quasi avessi fatto voto di sacrificare un determinato oggetto se ella guarisse! La scelta della Venere medicea per tale sacrificio certo non era se non un galante omaggio per la convalescente; ma anche adesso mi rimane incomprensibile come abbia potuto agire con tanta rapidità di decisione e mirare con tanta destrezza, non colpendo nessuno degli oggetti vicinissimi.

Un altro malestro, per il quale di nuovo mi servii della penna lasciatami sfuggire di mano, aveva esso pure il significato di un sacrificio, ma questa volta di un sacrificio propiziatorio a mo’ di scongiuro. Mi ero una volta compiaciuto di fare a un fedele e meritevole amico un rimprovero fondato sull’interpretazione di certe indicazioni dal suo inconscio e su null’altro. Egli se n’ebbe a male e mi scrisse una lettera per pregarmi di non trattare gli amici psicoanaliticamente. Dovetti dargli ragione e lo placai con la mia risposta. Mentre scrivevo questa lettera, avevo davanti a me il mio ultimo acquisto, una figurina egiziana magnificamente smaltata. La spaccai nel modo che ho detto e seppi tosto di avere causato questo danno per scongiurarne uno peggiore. Per fortuna ambedue le cose – l’amicizia e la figurina – poterono essere aggiustate in modo da non dare a vedere l’incrinatura.

Un terzo malestro, in un contesto meno serio, non fu che l’“esecuzione” camuffata – per adoperare l’espressione di Theodor Vischer nel romanzo Ancor uno [1878] – di un oggetto che non godeva più la mia simpatia. Durante un certo periodo avevo portato un bastone con manico d’argento. Un giorno la sottile placca d’argento fu danneggiata non per colpa mia e venne riparata malamente. Poco tempo dopo aver recuperato il bastone, mi servii di quel manico a guisa di gancio per afferrare la gamba di uno dei miei bambini in un momento d’ira. Naturalmente così facendo lo ruppi definitivamente e me ne liberai.

L’indifferenza con la quale in tutti questi casi si accetta il danno prodotto, può certamente essere intesa come prova dell’esistenza di un’intenzione inconscia nel compiere l’atto.

Talvolta312 nell’indagare sui motivi di un atto mancato di poco conto, come può essere la rottura di un oggetto, ci s’imbatte in connessioni che si allacciano profondamente alla storia passata di una persona e, inoltre, anche alla sua situazione attuale. La seguente analisi di Jekels ne dà un esempio.313

“Un medico si trova a possedere un vaso da fiori di terracotta, non prezioso ma molto bello, avuto in dono tempo addietro insieme a molti altri oggetti, di cui alcuni preziosi, da una paziente (maritata). Quando la psicosi della malata divenne manifesta, egli restituì tutti i regali alla sua famiglia, ad eccezione di quel vaso di valore molto più modesto, dal quale non seppe separarsi, apparentemente per la sua bellezza. Ma tale sottrazione costò una certa lotta interiore a quell’uomo tanto scrupoloso, che era perfettamente conscio dell’improprietà del suo modo d’agire e cercava di proteggersi dai propri rimorsi di coscienza adducendo a discarico l’esiguo valore commerciale dell’oggetto, la difficoltà di imballarlo ecc. Quando alcuni mesi dopo fu in procinto di rivolgersi a un legale per richiedere e riscuotere il saldo controverso dell’onorario per la cura di questa paziente, i rimorsi gli tornarono; ebbe anche un fuggevole accesso di paura che la presunta sottrazione potesse essere scoperta dalla famiglia della paziente e potesse dar luogo a procedimento penale contro di lui. Le autoaccuse soprattutto furono tanto forti, per un certo tempo, da suggerirgli l’idea di rinunciare all’incasso, che superava di cento volte circa il valore dell’oggetto, in certo qual modo per compensare l’oggetto sottratto; ma presto superò questo pensiero respingendolo come assurdo.

“In queste condizioni di spirito capitò a lui, che assai di rado rompeva qualcosa e che bene dominava il proprio apparato muscolare, di buttare il vaso giù dal tavolo nel rinnovarvi l’acqua, con un movimento stranamente ‘maldestro’, per nulla collegato organicamente con l’azione da compiere: il vaso si frantumò in cinque o sei grossi pezzi. E sì che la sera prima, pur dopo aver molto esitato, s’era deciso a mettere proprio questo vaso pieno di fiori sul tavolo della sala da pranzo davanti agli invitati. Se ne era ricordato, giusto prima dell’incidente, ne aveva sentito angosciosamente la mancanza nel suo salotto, ed era andato a prenderlo lui stesso nell’altra stanza! Quando dopo il primo momento di costernazione raccolse i pezzi, ed esaminatili si accorse che era possibile riaggiustare il vaso quasi senza danno evidente, ecco che i due o tre pezzi maggiori gli scivolarono di mano per andare a frantumarsi in mille schegge e con essi si frantumò qualsiasi speranza di salvare l’oggetto.

“Indubbiamente questo atto mancato servì alla tendenza contingente di permettere al medico la tutela del suo diritto, eliminando la cosa che egli si era tenuta e che in certo qual modo lo ostacolava nel pretendere ciò che si erano tenuti gli altri.

“Ma oltre a tale determinazione diretta, questo atto mancato possiede per ogni psicoanalista anche una determinazione ulteriore, incomparabilmente più profonda e più importante, simbolica; il vaso infatti è un indubbio simbolo della donna.

“Il protagonista di questo episodio aveva perduto in modo tragico la moglie, giovane, bella e ardentemente amata; si era ammalato di nevrosi. La nota dominante di questa nevrosi era l’idea di esser colpevole di quella disgrazia (‘egli aveva rotto il suo bel vaso’). Non riuscì più a trovarsi a suo agio con le donne, sentiva riluttanza al matrimonio e alle relazioni d’amore durevoli, che nell’inconscio venivano valutate come infedeltà verso la moglie defunta, mentre coscientemente venivano razionalizzate con l’idea che egli portava sfortuna alle donne, che una donna avrebbe potuto uccidersi per causa sua e così via. (E allora naturalmente non poteva serbare a lungo il vaso!)

“Data la sua forte libido, non è quindi da stupire che gli sembrassero più adeguate le relazioni, per loro natura passeggere, con donne maritate (quindi tenersi il vaso di un altro).

“Una bella conferma di questo simbolismo si trova nei seguenti due fattori. A cagione della sua nevrosi, egli si sottopose a cura psicoanalitica. Nel corso della seduta in cui raccontò la rottura del vaso ‘di terra’, venne a riparlare, dopo lunghi discorsi su altre cose, del suo rapporto con le donne, dicendo che era insensatamente esigente; per esempio pretendeva di trovare nella donna una ‘bellezza ultraterrena’. Con ciò metteva chiaramente in luce di essere ancora attaccato alla propria moglie (defunta, vale a dire ultraterrena) e di non volerne sapere di ‘bellezza terrena’; e per questo ruppe il vaso ‘di terra’ (terreno).

“E proprio all’epoca in cui nella traslazione produsse la fantasia di sposare la figlia del suo medico, egli fece a quest’ultimo l’omaggio di... un vaso, quasi a significare in qual senso gli sarebbe stato gradito essere contraccambiato.

“Probabilmente il significato simbolico dell’atto mancato ammette ulteriori variazioni, per esempio non voler riempire il vaso, e simili. Più interessante mi sembra però la considerazione che la presenza di più motivi, di due almeno, verosimilmente agenti anche separatamente dal preconscio e dall’inconscio, si rispecchia nella duplicazione dell’atto mancato: far cadere il vaso prima, farne scivolare i pezzi poi.”

e) Il lasciar cadere oggetti, il rovesciarli, fracassarli, pare spessissimo un’azione compiuta per esprimere pensieri inconsci, come viene comprovato talora dall’analisi, ma più spesso è intuito nelle interpretazioni superstiziose o scherzose connessevi dalla voce popolare. È noto quali interpretazioni si danno del sale versato, del bicchiere di vino rovesciato, del coltello caduto in modo da restare conficcato nel pavimento, e così via. Discuterò più avanti quale considerazione meritino queste interpretazioni superstiziose; per ora mi limito a osservare che un singolo atto maldestro non ha affatto un significato costante, bensì serve come mezzo raffigurativo di svariate intenzioni, secondo le circostanze.

Qualche tempo fa314 vi fu in casa mia un periodo in cui si verificò un numero insolito di rotture di porcellane e vetri; io stesso contribuii alquanto al danno. Fu facile spiegare la piccola endemia psichica; si trattava dei giorni precedenti le nozze della mia figlia maggiore. In occasione di tali feste si soleva infatti infrangere intenzionalmente un arnese, accompagnando l’atto con una parola di augurio. Tale consuetudine può avere il significato di un sacrificio e anche altri sensi simbolici.

Quando persone di servizio infrangono oggetti fragili lasciandoli cadere, non si pensa certo in primo luogo a una spiegazione psicologica, ma non è inverosimile anche qui un contributo da parte di motivi oscuri. All’individuo non colto nulla è più estraneo dell’apprezzamento dell’arte e delle opere d’arte. Una sorda ostilità contro le creazioni artistiche domina la nostra servitù, specie quando gli oggetti di cui non comprendono il valore diventano per essa fonti di fatiche. Gente di questa stessa educazione e origine, al contrario, spesso mostra negli istituti scientifici grande abilità e sicurezza nel maneggiare oggetti delicati, una volta che abbia cominciato a identificarsi col proprio capo e a considerarsi parte essenziale del personale dell’istituto.

Inserirò qui la comunicazione315 di un giovane tecnico, che permette d’intravvedere il meccanismo di un danneggiamento d’oggetto:

“Tempo fa lavoravo con alcuni colleghi nel laboratorio del Politecnico attorno a una serie di complicate esperienze sull’elasticità; ci eravamo assunti il lavoro volontariamente ma esso cominciava a portarci via più tempo del previsto. Un giorno, mentre mi stavo recando al laboratorio col mio collega F., questi disse che gli rincresceva perdere tanto tempo proprio quel giorno che aveva tante altre cose da fare in casa; io non potei che mostrarmi d’accordo e aggiunsi, quasi scherzando, alludendo a un fatto della settimana precedente: ‘Speriamo che la macchina s’inceppi di nuovo, così che possiamo interrompere il lavoro e tornare a casa più presto!’ – Nella distribuzione del lavoro, al collega F. viene assegnato il compito di comandare la valvola della pressa, vale a dire gli tocca far entrare lentamente il liquido di pressione nel cilindro della pressa idraulica dall’accumulatore, aprendo cautamente la valvola. Il direttore dell’esperimento osserva il manometro e quando è raggiunta la pressione voluta grida: ‘Alt!’ A questo comando F. dà di piglio alla valvola girandola con tutta forza... a sinistra (tutte le valvole senza eccezione si chiudono girando verso destra!). Con ciò tutta la pressione dell’accumulatore viene di colpo ad agire nella pressa, e siccome la tubazione non è predisposta per una pressione così alta un raccordo scoppia: un piccolo guasto tecnico che ci costringe tuttavia a sospendere il lavoro per quel giorno e a tornarcene a casa. – È del resto caratteristico che qualche tempo dopo, conversando di questo incidente, l’amico F. non volle ricordarsi assolutamente della mia frase scherzosa, che io però ricordavo con sicurezza.”

Similmente il lasciarsi cadere, il mettere il piede in fallo, lo scivolare, non devono sempre interpretarsi come fallimento puramente casuale dell’azione motoria. Già il doppio senso di espressioni come “fare un passo falso”, “cadere”, e altre, fa capire il tipo di fantasie coinvolte, che possono rappresentarsi con siffatti abbandoni dell’equilibrio fisico. Mi ricordo di una serie di malattie nervose abbastanza lievi in donne e fanciulle, che si erano manifestate dopo caduta senza ferimento e che erano state considerate come casi di isteria traumatica dovuta allo spavento provato nel cadere. Fin d’allora ebbi l’impressione di una diversa connessione dei fatti, che la caduta fosse già opera della nevrosi ed espressione delle medesime fantasie inconsce di contenuto sessuale che si potrebbe supporre siano le forze motrici dietro i sintomi. Non è forse questo anche il significato del proverbio che dice: “Quando una vergine cade, cade sulla schiena”?

Tra le sbadataggini316 si può annoverare anche il caso di chi dà a un mendicante una moneta d’oro invece di una moneta di rame o una monetina d’argento. È facile spiegare sbagli di questo genere; si tratta di azioni sacrificali destinate ad ammansire il destino, a scongiurare disgrazie ecc. Se si è udita la tenera madre o zia esprimere preoccupazioni per la salute di un infante subito prima della passeggiata, durante la quale poi si mostrò così munifica senza volerlo, non si può aver più dubbio sul significato dell’incidente apparentemente sgradevole. In tale maniera i nostri atti mancati rendono possibile l’esercizio di tutte quelle usanze pie e superstiziose che per l’opposizione della nostra ragione divenuta incredula devono sfuggire la luce della coscienza.

f) Che le azioni casuali siano in realtà intenzionali, apparirà plausibile più che in ogni altro campo in quello dell’attività sessuale, dove i confini fra i due tipi veramente sembrano scomparire. Ebbi a sperimentare su me stesso qualche anno fa un bell’esempio della possibilità di sfruttare una mossa apparentemente maldestra per scopi sessuali, e nel modo più raffinato. In casa di amici incontrai una giovinetta ivi ospite, che suscitò in me un senso di compiacimento di cui da tempo mi credevo incapace e che pertanto mi mise in un lieto stato d’animo, rendendomi loquace e cortese. Cercai allora anche di scoprirne la ragione: un anno prima la stessa giovane m’aveva lasciato indifferente. A un certo punto, quando entrò nella stanza lo zio della ragazza, un signore molto vecchio, ci alzammo entrambi di scatto per portargli una sedia che stava in un angolo. Lei fu più svelta di me, forse anche era più vicina all’oggetto; dunque s’impossessò per prima della sedia e la portò tenendola davanti a sé, con le mani sugli orli e con lo schienale appoggiato al petto. Io mi avvicinai insistendo per portare io la sedia, e tutto a un tratto mi trovai alle sue spalle e la cingevo con le braccia da dietro, unendo per un momento le mani dinanzi alla vita di lei. Naturalmente risolsi la situazione con la stessa rapidità con cui si era formata. Nessuno parve aver notato con quanta abilità avevo sfruttato quel movimento maldestro.

Talora dovetti anche dirmi che i seccanti e maldestri tentativi di scansare un’altra persona in istrada, quando per alcuni secondi317 si fanno dei passetti a destra e a sinistra ma sempre dalla stessa parte dell’altra persona, finché si resta fermi l’uno davanti all’altro, che anche questo “sbarrare la strada” ripete un comportamento maleducato e provocatorio di un’età giovanile perseguendo intenzioni sessuali sotto la maschera della goffaggine. Dalle mie psicoanalisi di persone nevrotiche so che la cosiddetta ingenuità dei giovani e dei bambini spesso non è che una maschera per poter fare o dire cose sconvenienti senza soggezione.

Osservazioni molto simili318 sono state comunicate da Wilhelm Stekel sulla propria persona: “Entro nell’appartamento e porgo la destra alla padrona di casa. Stranamente, col gesto che faccio le sciolgo la fascia che tiene la sua vestaglia. Non ho coscienza di alcuna intenzione disonesta, eppure ho compiuto questo movimento maldestro con la destrezza di un prestigiatore.”

Ho319 già potuto provare ripetutamente che gli scrittori concepiscono gli atti mancati come motivati e significativi nello stesso modo da noi qui sostenuto. Non ci stupiremo quindi di costatare su di un nuovo esempio, come uno scrittore renda significativo un movimento maldestro e ne faccia il presagio di eventi ulteriori.

Nel romanzo L’adultera [1882] di Theodor Fontane è detto: “e Melanie s’alzò di scatto lanciando al suo consorte, come per saluto, uno dei palloni. Ma sbagliò mira, il pallone cadde da un lato e Rubehn lo raccolse”. Al ritorno dalla gita in cui era accaduto questo piccolo episodio, ha luogo tra Melanie e Rubehn un colloquio che tradisce un’incipiente simpatia. La simpatia diventa passione, sicché Melanie finisce per abbandonare il marito per appartenere interamente all’uomo amato. (Comunicato da Hanns Sachs.)

g) Gli effetti prodotti dalle sbadataggini delle persone normali sono di solito innocui. Proprio per questo sarà di particolare interesse chiarire se ricadano sotto i nostri punti di vista, per un verso o per l’altro, gli sbagli di notevole portata, che possono essere gravidi di conseguenze, come per esempio quelli del medico o del farmacista.

Siccome ben di rado mi capita di dover procedere a interventi medici, dispongo soltanto di un unico esempio di sbaglio commesso da me in qualità di medico. Da anni visito due volte al giorno una vecchissima signora,320 e nella visita mattutina la mia attività di medico si limita a due cose: le verso nell’occhio alcune gocce di collirio e le faccio un’iniezione di morfina. Le due boccette, una azzurra per il collirio e una bianca per la soluzione di morfina, sono sempre preparate. Durante le due operazioni i miei pensieri in genere divagano; si sono ripetute già così spesso che l’attenzione si comporta come se fosse libera. Un mattino mi accorsi che l’automatismo aveva funzionato male; il contagocce aveva pescato nella boccetta bianca anziché in quella azzurra e aveva lasciato cadere nell’occhio non collirio ma morfina. Ebbi uno spavento, ma poi mi calmai riflettendo che poche gocce di una soluzione di morfina al due per cento non potevano fare alcun male neppure al sacco congiuntivale. La sensazione di spavento evidentemente aveva un’altra origine.

Nel tentativo di analizzare questo piccolo sbaglio, mi venne anzitutto in mente la frase “commettere una sbadataggine (vergreifen) sulla vecchia”, cioè “violentarla”,321 che segnò la scorciatoia per giungere alla soluzione. Mi trovavo sotto l’impressione di un sogno raccontatomi la sera prima da un giovanotto, il cui contenuto poteva interpretarsi soltanto nel senso di un rapporto sessuale con la madre.322 Lo strano fatto che la leggenda non trova alcun ostacolo nell’età avanzata della regina Giocasta, mi pareva concordare bene con la conclusione che nell’innamoramento per la propria madre non si tratta mai della sua persona presente, ma della sua immagine mnestica giovanile quale deriva dagli anni d’infanzia. Incongruenze del genere risultano sempre ove una fantasia oscillante tra due epoche venga resa cosciente e venga così legata a un tempo determinato. Assorto in pensieri di tal genere, giunsi presso la mia paziente quasi centenaria, e probabilmente stavo appunto per afferrare nel mio pensiero il carattere universalmente umano del mito di Edipo, connesso col fato espresso negli oracoli, giacché commisi una sbadataggine, o violentai, “la vecchia”. Tuttavia, il mio atto fu innocuo; tra i due sbagli possibili, di usare la soluzione di morfina per l’occhio o di prendere il collirio per fare l’iniezione, scelsi quello di gran lunga meno dannoso. Rimane tuttavia il problema se per gli atti mancati che possono provocare danni gravi sia lecito supporre un’intenzione inconscia come nei casi qui trattati.

Qui dunque, com’era da attendersi, il materiale mi difetta, e non mi rimane che ricorrere a ipotesi e a deduzioni. È noto che nei casi gravi di psiconevrosi talvolta si hanno come sintomi della malattia autolesioni, e che in tali casi non si può mai escludere che il conflitto psichico abbia a risolversi in suicidio. Orbene, mi risulta, e posso documentarlo323 con esempi ben chiariti, che molte lesioni apparentemente casuali che colpiscono tali malati, in realtà sono autolesioni, in quanto che una tendenza all’autopunizione costantemente in agguato, che altrimenti si manifesta in forma di autorimprovero o contribuisce alla formazione dei sintomi, sfrutta abilmente una situazione esteriore offerta dal caso, o vi concorre in quella misura che porta al desiderato effetto lesivo. Fatti del genere non sono per niente rari anche in casi di media gravità, ed essi tradiscono la parte spettante all’intenzione inconscia mediante una serie di tratti peculiari, per esempio mediante la sorprendente calma che i malati conservano nella pretesa disgrazia.324

Voglio riferire325 per esteso, invece di molti, un solo esempio, tratto dalla mia esperienza di medico. Una giovane donna riporta in un incidente stradale la frattura di una gamba, sotto il ginocchio, così da essere costretta a letto per settimane. Colpiscono la calma e l’assenza di lamenti con cui sopporta la sua disgrazia. Questo incidente dà l’avvio a una lunga e grave malattia nevrotica, dalla quale essa viene infine guarita mediante psicoanalisi. Durante la cura vengo a conoscere le circostanze che accompagnarono l’incidente, come anche certi eventi che lo avevano preceduto. La giovane donna si trovava col marito, gelosissimo, nella tenuta di una sorella maritata, in compagnia delle altre numerose sorelle e fratelli e relativi consorti. Una sera diede in questa cerchia intima spettacolo di una delle sue specialità, ballando perfettamente il can-can con grande plauso dei parenti ma con poca soddisfazione del marito, che dopo le sussurrò: “Ecco che ti sei di nuovo comportata come una puttana.” La parola la ferì: non vogliamo indagare se soltanto per via dell’esibizione di ballo. Dormì male la notte, e la mattina dopo chiese di fare una passeggiata in carrozza. Lei stessa scelse i cavalli, ne rifiutò una pariglia chiedendone un’altra. La sorella più giovane voleva far partecipare alla gita il suo lattante in compagnia della balia; a ciò ella si oppose energicamente. Durante la corsa si mostrò nervosa, avvertì il cocchiere che i cavalli stavano per imbizzarrire, e quando gli inquieti animali per un istante fecero davvero delle difficoltà essa per lo spavento saltò dalla vettura rompendosi una gamba, mentre le persone rimaste in vettura non si fecero alcun male. Mentre da una parte, dopo aver scoperto questi particolari, ben difficilmente potremo dubitare che questo incidente non fosse in realtà predisposto, d’altra parte non vorremmo mancare d’ammirare l’abilità che obbligò il caso a punire la colpa in modo così adeguato. Ora infatti le era per molto tempo diventato impossibile ballare il can-can.

Di autolesioni mie in tempi calmi, ho poco da riferire, ma trovo di non esserne incapace in condizioni eccezionali. Quando uno dei membri della mia famiglia si lamenta di essersi morsicato la lingua, di essersi schiacciato il dito, o di altro, allora invece della sperata compassione da parte mia giunge la domanda: “A che scopo lo hai fatto?” Ma io stesso mi schiacciai il dito pollice in modo dolorosissimo dopo che un giovane paziente aveva manifestato in seduta l’intenzione (che naturalmente non andava presa sul serio) di sposare la mia figlia maggiore, mentre io sapevo che essa si trovava in sanatorio in estremo pericolo di vita [vedi punto d, in OSF, vol. 4].

Uno dei miei ragazzi, il cui temperamento vivace soleva dar del filo da torcere a chi lo curava in caso di malattia, aveva avuto una mattina un accesso d’ira perché si era preteso da lui che passasse mezza giornata a letto, e aveva minacciato di suicidarsi, prendendo ad esempio un caso riportato dai giornali. La sera mi mostrò un gonfiore che si era formato urtando la cassa toracica contro la maniglia della porta. Alla mia domanda ironica a che scopo lo avesse fatto e che cosa avesse voluto così ottenere, l’undicenne rispose come subitamente illuminato: “È stato il mio tentativo di suicidio, che avevo minacciato la mattina.” Non credo peraltro che le mie idee sull’autolesionismo fossero allora accessibili ai miei figlioli.

Chi crede all’esistenza dell’autolesione semintenzionale – se è lecito usare questo termine non molto indovinato – è anche preparato a supporre che accanto al suicidio coscientemente intenzionale esista l’autoannientamento semintenzionale (con intenzione inconscia), che sa abilmente sfruttare una minaccia alla vita mascherandosi come incidente casuale. Non è detto che si tratti di un fenomeno raro. La tendenza all’autoannientamento esiste infatti con una certa intensità in un numero di persone molto maggiore di quelle in cui si realizza; le autolesioni di solito sono compromessi tra questa pulsione e le forze che ancora le si oppongono, e anche laddove veramente si finisce coll’uccidersi, l’inclinazione al suicidio preesisteva da molto tempo con intensità minore oppure come tendenza inconscia e repressa.

Anche la cosciente intenzione al suicidio si sceglie il proprio tempo, i mezzi e l’occasione; con ciò concorda perfettamente il fatto che l’intenzione inconscia attenda il verificarsi di una occasione che si possa addossare parte della causalità determinante e che, occupando le forze di difesa della persona, possa liberare l’intenzione stessa dalla loro pressione.326 Non sono considerazioni oziose queste che vado esponendo; ho saputo di più di un caso di apparente infortunio (cavallo o vettura) i cui particolari giustificano il sospetto che si tratti di suicidio reso possibile inconsciamente. Per esempio, durante una gara tra ufficiali un ufficiale cade da cavallo ferendosi così gravemente da morire dopo pochi giorni. Il suo comportamento dopo che ha ripreso conoscenza è per più versi strano. Ancor più singolare è stato il suo comportamento prima. Egli è profondamente rattristato dalla morte della sua diletta madre, ha accessi di pianto in compagnia dei camerati, confessa agli amici più fidi di essere stanco della vita, e vuole lasciare il servizio per prendere parte a una guerra in Africa che del resto non lo interessa;327 già ardito cavaliere, ora evita, appena può, di andare a cavallo. Prima della gara infine, alla quale non può sottrarsi, esprime un cupo presentimento; data la nostra concezione non ci sorprenderemo più che questo presagio si sia avverato. Mi si obietterà che si capisce benissimo che un uomo in tale depressione nervosa non sappia padroneggiare l’animale come nei giorni di salute. Sono perfettamente d’accordo; solo che vorrei cercare il meccanismo di questa inibizione motoria dovuta a “nervosismo” nell’intenzione suicida qui rilevata.

Sándor Ferenczi di Budapest mi ha comunicato,328 per la pubblicazione, l’analisi di un ferimento apparentemente casuale con arma da fuoco, da lui spiegato come tentativo inconscio di suicidio. Non posso che aderire alla sua interpretazione.

“J. Ad., un garzone falegname di 22 anni, mi venne a trovare il 18 gennaio 1908. Voleva sapere da me se poteva o doveva essergli tolta con un’operazione la pallottola che il 20 marzo 1907 gli era penetrata nella tempia sinistra. A prescindere da passeggeri dolori non troppo forti al capo, egli stava perfettamente bene, e anche dall’esame obiettivo non risultò nulla all’infuori della caratteristica cicatrice, annerita dalla polvere da sparo, alla tempia sinistra, cosicché diedi parere contrario all’operazione. Interrogato sulle circostanze del fatto, dichiarò di essersi ferito per caso. Stava giocherellando con la rivoltella del fratello, credendo che non fosse carica, e la premette con la mano sinistra contro la tempia sinistra (pur non essendo mancino), pose il dito sul grilletto e il colpo partì. Nell’arma a sei colpi c’erano tre proiettili. Gli chiesi come mai gli fosse venuta l’idea di prendere la rivoltella. Rispose che era l’epoca della sua presentazione alla visita di leva; la sera prima aveva portato l’arma con sé andando all’osteria, perché temeva una rissa. Alla visita di leva fu dichiarato inabile per varici, del che si vergognava molto. Andò a casa, giocherellò con la rivoltella ma senza l’intenzione di farsi del male; quand’ecco accadde la disgrazia. Alla domanda se per il resto fosse contento del suo destino, rispose con un sospiro e narrò il suo amore con una ragazza che lo ricambiava ma che ciò nondimeno lo aveva abbandonato, emigrando in America semplicemente per avidità di denaro. Avrebbe voluto seguirla, ma i genitori glielo avevano impedito. La sua amata era partita il 20 gennaio 1907, dunque due mesi prima dell’incidente. Nonostante tutti questi indizi, il paziente insisteva nel dire che lo sparo era stato un ‘infortunio’. Ma io sono fermamente convinto che la negligenza di non accertarsi, prima di giocherellare con l’arma, che essa non fosse carica, come anche l’autolesione, siano state determinate psichicamente. Egli era ancora sotto l’impressione deprimente dell’amore infelice e voleva evidentemente ‘dimenticare’ facendo il soldato. Quando anche questa speranza gli era stata tolta, fu la volta del gioco con l’arma, ossia del tentativo inconscio di suicidio. Il fatto di avere egli tenuto la rivoltella non nella mano destra ma in quella sinistra, sta decisamente a indicare che egli veramente ‘giocherellava’, cioè non voleva coscientemente suicidarsi.”

Un’altra analisi comunicatami da un osservatore olandese,329 di un’autolesione apparentemente casuale, richiama alla mente il proverbio: “Chi la fa l’aspetti.”

“La signora X, di buona famiglia borghese, è sposata e ha tre figlioli. È nervosa, è vero, ma non ha mai avuto bisogno di ricorrere a una cura energica, dato che può far fronte a sufficienza alle esigenze della vita. Un giorno si procurò una ferita che le sfigurò il volto. La deformazione era temporanea ma sul momento impressionante. Avvenne così. In una strada dove erano in corso dei lavori, inciampò su un mucchio di pietre e picchiò la faccia sul muro di una casa. Ne ebbe il volto tutto pieno di escoriazioni, le palpebre livide ed edematose; e per il timore di un guaio agli occhi, fece venire il medico. Dopo averla rassicurata al riguardo, domandai: ‘Ma perché mai è caduta in quel modo?’ Rispose che poco prima aveva esortato suo marito, che da alcuni mesi aveva un’affezione articolare e quindi camminava male, a stare bene attento nel passare per quella strada; e del resto già altre volte aveva fatto l’esperienza che in casi del genere, strano a dirsi, accadeva proprio a lei ciò contro cui ella aveva messo in guardia altre persone.

“Non mi accontentai di questo modo di determinare l’incidente e le domandai se non avesse ancora qualcosa da raccontare. Ebbene, sì: poco prima della caduta aveva visto dall’altro lato della via un bel quadro in una vetrina e aveva sentito il subitaneo desiderio di acquistarlo per abbellire la stanza dei bambini: allora aveva attraversato dirigendosi dritta verso il negozio senza guardare dove metteva i piedi, era inciampata nel mucchio di pietre ed era caduta col viso contro il muro dell’edificio, senza compiere il minimo tentativo di proteggersi con le mani. Il proposito di comperare il quadro fu subito dimenticato, ed ella tornò in fretta a casa. ‘Ma perché non ha guardato meglio?’ domandai. ‘Ecco – rispose – forse fu proprio una punizione! Per quella storia che le ho già detto in confidenza.’ ‘Questa storia, dunque, l’ha tormentata ancora così tanto?’ ‘Sì, dopo mi è rincresciuto molto; mi sono parsa malvagia, criminale e immorale, ma allora ero quasi pazza dal nervosismo.’

“Si trattava di un aborto, commesso col consenso del marito, perché i due volevano limitare la prole a motivo della loro situazione pecuniaria. All’inizio si erano rivolti a una comare, ma in seguito l’aborto era stato compiuto da uno specialista.

“‘Spesso mi muovo questo rimprovero: tu hai fatto uccidere il tuo bambino! e temevo che una cosa simile non potesse rimanere impunita. Ora che Lei mi dice che i miei occhi non sono in pericolo, mi sento tranquillizzata: ora, in ogni caso, sono già stata punita abbastanza.’

“Questo incidente dunque era un’autopunizione, parte per penitenza per il suo crimine, parte per sfuggire a una ignota punizione forse molto maggiore che le aveva fatto paura per mesi e mesi. Nell’istante in cui si precipitava verso il negozio per comperare il quadro, il ricordo di tutta questa storia con tutti i suoi timori, che si era già fatto alquanto sentire nel suo inconscio quando aveva esortato alla prudenza il marito, l’aveva sopraffatta e avrebbe potuto esprimersi forse con parole simili a queste: ‘Ma perché vuoi un oggetto per decorare la stanza dei bambini, tu che hai fatto uccidere il tuo bimbo! Sei un’assassina! La grande punizione si approssima di certo!’

“Questo pensiero non divenne conscio, ma in suo luogo essa utilizzò, in quel momento che direi psicologico, la situazione, servendosi del mucchio di pietre che le sembrava adatto allo scopo, per punirsi senza averne l’aria; ecco perché nel cadere non si protesse con le mani ed ecco perché non rimase gran che spaventata. La seconda determinante del fatto, verosimilmente più debole, è di certo l’autopunizione per il desiderio inconscio di eliminare il marito, il quale a vero dire era complice in questa faccenda. Questo desiderio si era tradito con l’esortazione a badare al mucchio di pietre, avvertimento perfettamente superfluo dato che il marito, appunto perché malfermo sulle gambe, camminava con molta prudenza.”330

Riflettendo sulle circostanze particolari del fatto, si sarà anche inclini a dare ragione a Stärcke331 quando interpreta come “atto sacrificale” un’autolesione apparentemente casuale per ustione.

“Una signora, il cui genero doveva partire per la Germania per il servizio militare, si ustionò un piede nelle circostanze seguenti. Sua figlia era nell’imminenza di un parto, e il pensiero dei pericoli della guerra naturalmente non contribuivano a rendere allegra la famiglia. Il giorno precedente la partenza del genero aveva invitato a pranzo lui e la figlia. Lei stessa preparò il cibo in cucina, dopo aver cambiato, cosa abbastanza strana, i suoi stivaletti ortopedici, coi quali cammina comodamente e che porta di solito anche quando è in casa, con un paio di pantofole di suo marito troppo grandi e aperte in alto. Nel togliere dal fuoco una grossa pentola di minestra bollente la lasciò cadere, bruciandosi così abbastanza seriamente un piede, specialmente il collo del piede, non protetto dalla pantofola aperta. Naturalmente questo incidente venne da tutti attribuito al suo comprensibile ‘nervosismo’. Nei primi giorni dopo questo olocausto, fu molto cauta nel maneggiare oggetti caldi, il che non le impedì però di scottarsi pochi giorni dopo il polso con del brodo.”332

Quando si vede che è possibile nascondere l’infierire contro la propria integrità e la propria vita dietro un’apparente goffaggine e insufficienza motoria, non c’è più un gran passo da fare per trovare possibile trasferire il medesimo criterio a quegli sbagli che mettono seriamente a repentaglio la vita e la salute altrui. Le prove che io posso presentare a sostegno di questa tesi sono desunte dalle esperienze di nevrotici e quindi non corrispondono appieno all’esigenza. Riferirò un caso in cui non un’azione sbagliata vera e propria, ma una di quelle azioni che si possono chiamare piuttosto casuali o sintomatiche mi mise sulla traccia che poi rese possibile la risoluzione del conflitto nel paziente. Mi assunsi una volta il compito di migliorare i rapporti matrimoniali di un uomo molto intelligente, i cui dissapori con la giovane moglie che teneramente lo amava potevano certamente richiamarsi a motivi reali ma, come egli stesso ammetteva, non potevano trovare in questi una piena spiegazione. L’idea di un divorzio lo occupava incessantemente, ma la respingeva sempre perché amava teneramente i suoi due figlioletti. Ciò nonostante continuava a rinnovare quel proposito e quindi non tentava affatto di rendere a sé stesso sopportabile la situazione. Questa incapacità di venire a capo di un conflitto è secondo me una prova che motivi inconsci e rimossi sono intervenuti a rafforzare quelli consci in lotta tra loro, e in tali casi intraprendo il tentativo di por fine al conflitto mediante l’analisi psichica. Quell’uomo mi narrò un giorno un fatterello che lo aveva estremamente spaventato. Stava “impazzando” col maggiore dei suoi figli, di gran lunga il suo prediletto, lo sollevava in alto e poi lo abbassava, e così giocando quasi ne urtò la testa contro il pesante lampadario a gas che pendeva dal soffitto. Quasi, ma non proprio, ossia appena appena! Il bimbo non si ferì, ma ebbe le vertigini per lo spavento. Il padre rimase atterrito col bimbo in braccio, la madre ebbe un attacco isterico. La particolare abilità di questo movimento incauto e la veemenza della reazione nei genitori mi fecero sospettare che in questa casualità andasse ravvisata un’azione sintomatica destinata a esprimere un’intenzione malvagia contro il fanciullo amato. La contraddizione con l’attuale tenerezza di questo padre per la sua creatura, potevo eliminarla facendo risalire l’impulso ostile a un’epoca in cui questo fanciullo era il solo e tanto piccolo da non sollecitare ancora l’interesse e la tenerezza del padre. Così mi fu facile supporre che quest’uomo poco soddisfatto della propria moglie avesse a quel tempo avuto il pensiero o avesse concepito il progetto: “Se questo piccolo essere, del quale non mi importa proprio niente, muore, io sono libero e posso divorziare.” Un desiderio di morte per la creatura che adesso gli era tanto cara doveva dunque essere inconsciamente perdurato in lui. Di qui fu facile trovare la via alla fissazione inconscia di questo desiderio. Una potente determinante risultò infatti da un ricordo d’infanzia del paziente: la morte di un fratellino, attribuita dalla madre alla negligenza del padre, aveva portato violente discussioni tra i genitori, con minacce di divorzio. L’ulteriore andamento del matrimonio del mio paziente confermò la mia congettura, così come il successo terapeutico.

Stärcke333 ha fornito un esempio del fatto che gli scrittori non esitano a sostituire la sbadataggine all’azione intenzionale, facendone così la fonte delle conseguenze più gravi:

“In uno dei bozzetti di Herman Heijermans334 si trova un esempio di sbadataggine o, per meglio dire, di atto mancato, utilizzato dall’autore come motivo drammatico.

“Si tratta del bozzetto Tom e Teddie. Questi sono una coppia di artisti che si esibisce in un teatro di varietà, in un numero di acrobazie sott’acqua, in un acquario dalle pareti di vetro. La moglie da qualche tempo tradisce il marito con un domatore. Il marito ha colto in flagrante i due adulteri nello spogliatoio poco prima della rappresentazione. Scena muta, occhiate minacciose e il marito dice: ‘Dopo!’ – Lo spettacolo ha inizio. Tocca al marito eseguire l’esercizio più difficile: ‘rimanere sott’acqua per due minuti e mezzo entro una cassa chiusa ermeticamente’. Avevano fatto tante altre volte questo esercizio di bravura. La cassa viene chiusa e ‘Teddie mostra la chiave agli spettatori, che guardano i loro orologi per controllare il tempo’. Intenzionalmente la donna era solita lasciar cadere a diverse riprese la chiave nell’acqua, tuffandosi poi in fretta per non arrivare in ritardo quando si doveva aprire la cassa.

“«La sera del 31 gennaio dunque, Tom come al solito venne rinchiuso a chiave dalle piccole dita della vispa e briosa mogliettina. Egli sorrideva dietro il finestrino della cassa e lei giocherellava con la chiave in attesa del suo segnale. Dietro le quinte attendeva il domatore nella sua marsina impeccabile, la cravatta bianca, il frustino. Per attirare l’attenzione della donna lui, il terzo uomo, fece un breve fischio. Lei lo guardò e rise, e col gesto maldestro di chi viene distratto lanciò così in alto la chiave che questa cadde, quand’erano passati esattamente due minuti e venti secondi, a un calcolo accurato, di fianco al bacino, fra le pieghe del drappo che ne copriva il sostegno. Nessuno aveva visto. Nessuno l’avrebbe potuto. Guardando dalla sala l’illusione ottica era tale che tutti videro la chiave scivolare in acqua, e nessuno del personale di scena ci fece caso, poiché la stoffa attutì il rumore.

“«Ridendo, senza esitare, Teddie si arrampicò oltre l’orlo del bacino. Ridendo – certo lui avrebbe resistito – ella scese la scaletta. Ridendo scomparve sotto il sostegno e, non trovando subito la chiave, fece il gesto che era stata rubata, con una mimica del volto come se dicesse: ‘Ahi, che seccatura!’ e curvandosi davanti al drappo.

“«Nel frattempo Tom faceva le sue comiche smorfie dietro il finestrino come se anche lui cominciasse a inquietarsi. Si vedeva il bianco della sua dentiera, il biascichio delle sue labbra sotto i baffetti biondi, le buffe bollicine d’aria che s’erano viste anche quando aveva mangiato la mela. Si vedevano graffiare e annaspare le dita ossute delle sue pallide mani e si rideva, si rideva come già si era riso tanto nella serata.

“«Due minuti e cinquantotto secondi...

“«Tre minuti e sette secondi... dodici secondi...

“«Bravo! Bravo! Bravo!

“«Poi il pubblico fu preso da costernazione, la gente pestava i piedi, perché anche gli inservienti e il domatore cominciarono a cercare e il sipario calò prima che si aprisse la cassa.

“«Seguì un numero di sei ballerine inglesi; poi l’uomo con i ponies, i cani e le scimmie, e così via.

“«Soltanto il mattino seguente il pubblico venne a sapere che era accaduta una disgrazia, che Teddie era rimasta vedova...»

“Da quanto citato, risulta che questo scrittore deve avere capito magnificamente l’essenza delle azioni sintomatiche, per presentarci tanto bene la causa più profonda dello sbaglio fatale.”

Opere complete
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