Capitolo primo

A. LA PREMESSA STORICA382

Il fondo storico degli avvenimenti che hanno attratto il nostro interesse è dunque il seguente. Mediante le conquiste della diciottesima dinastia l’Egitto è diventato un impero mondiale. Il nuovo imperialismo si riflette nello sviluppo delle rappresentazioni religiose, se non dell’intero popolo, almeno della sua classe dominante e intellettualmente attiva. Sotto l’influsso dei sacerdoti del dio del Sole a On (Eliopoli), forse rafforzato da sollecitazioni provenienti dall’Asia, sorge l’idea di un dio universale Atòn, il quale non sia più ristretto a un paese e a un popolo. Col giovane Amenofi IV giunge al trono un faraone che non nutre interesse più alto dello sviluppo di questa idea di dio. Egli eleva la religione di Atòn a religione di Stato, grazie a lui il dio universale diventa l’unico dio; tutto ciò che si racconta di altri dèi è inganno e menzogna. Con inaudita inflessibilità resiste a ogni tentazione del pensiero magico, respinge l’illusione, specialmente cara agli Egizi, della vita dopo la morte. Presentendo in maniera sorprendente una più tarda nozione scientifica, riconosce nell’energia dell’irradiazione solare la fonte di ogni vita sulla terra e la venera come simbolo della potenza del suo dio. Si vanta del proprio gioire nella Creazione e della propria vita in Maat (verità e giustizia).

È il primo caso, e forse il più puro, di religione monoteistica nella storia dell’umanità; il riuscire a gettare uno sguardo più profondo nelle condizioni storiche e psicologiche della sua genesi avrebbe valore inestimabile. Ma certuni badarono bene che non troppe informazioni sulla religione di Atòn arrivassero fino a noi. Già sotto i deboli successori di Ekhnatòn,383 tutto ciò che egli aveva creato crollò. La vendetta del clero da lui represso infierì ora contro la sua memoria, la religione di Atòn fu abolita; distrutta e saccheggiata la capitale del faraone ora bollato come malfattore. Intorno al 1350 a.C. si estinse la diciottesima dinastia; dopo un periodo di anarchia il generale Haremhab, che regnò fino al 1315, ristabilì l’ordine. La riforma di Ekhnatòn sembrò un episodio destinato all’oblio.

Fin qui ciò che è storicamente stabilito, e di qui prende le mosse la nostra continuazione ipotetica. Fra le persone vicine a Ekhnatòn c’era un uomo che si chiamava forse Tutmosi, come del resto diversi altri a quel tempo:384 il nome non ha grande importanza, se non la sua seconda componente che doveva essere -mose. Egli occupava un’alta posizione, era convinto partigiano della religione di Atòn, ma, all’opposto del re sognatore, era energico e appassionato. Per quest’uomo la fine di Ekhnatòn e l’abolizione della sua religione significavano la fine di ogni speranza. Egli poteva continuare a vivere in Egitto solo come proscritto o rinnegato. Come governatore della provincia di frontiera forse era venuto in contatto con una tribù semitica, che era là immigrata da alcune generazioni. Nella stretta della delusione e della solitudine, si rivolse a questi stranieri, cercò in loro un risarcimento per quanto aveva perduto. Li scelse come suo popolo, tentò di realizzare in loro il suo ideale. Dopo che, accompagnato dai suoi seguaci, ebbe lasciato con costoro l’Egitto, li consacrò col segno della circoncisione, diede loro leggi, li introdusse alle dottrine di quella religione di Atòn che gli Egizi avevano appena respinto. Forse i precetti che quest’uomo Mosè diede ai suoi Ebrei erano ancora più aspri di quelli del suo signore e maestro Ekhnatòn, forse rinunciò anche alla protezione del dio solare di On, della quale quegli si era ancora giovato.

Come data dell’esodo dall’Egitto dobbiamo prendere l’epoca dell’interregno dopo il 1350. Il periodo successivo fino a che fu compiuta l’occupazione della terra di Canaan è particolarmente oscuro. Dal buio qui lasciato o piuttosto creato dal testo biblico, la ricerca storica odierna ha potuto estrarre due fatti. Il primo, scoperto da Ernst Sellin, è che gli Ebrei, caparbi e recalcitranti anche secondo l’attestazione della Bibbia verso il loro legislatore e capo, un giorno gli si ribellarono, lo ammazzarono, e respinsero come già gli Egizi la religione di Atòn loro imposta. Il secondo, dimostrato da Eduard Meyer, è che questi Ebrei tornati dall’Egitto si unirono successivamente ad altre tribù loro affini nel territorio fra la Palestina, la penisola del Sìnai e l’Arabia, e che ivi in un’irrigua località detta Qadesh assunsero sotto l’influsso degli arabi Madianiti una nuova religione, l’adorazione del dio vulcanico Yahweh. Subito dopo furono pronti a irrompere in Canaan come conquistatori.

I rapporti cronologici di questi due eventi tra di loro e con l’esodo dall’Egitto sono assai incerti. Il più vicino punto di riferimento storico è dato da una stele del faraone Meneptàh (che regnò fino al 1215), la quale celebrando le campagne in Siria e Palestina cita “Israele” tra i vinti. Se si assume la data di questa stele come un terminus ad quem, per tutto ciò che successe dall’esodo in poi resta circa un secolo (da dopo il 1350 fino al 1215). È però possibile che il nome di “Israele” non si riferisca ancora alle tribù di cui stiamo seguendo le vicende e che, in verità, resti a nostra disposizione un intervallo più lungo. Lo stabilirsi di quello che sarà il popolo ebraico in Canaan non fu conquista rapidamente compiuta, ma un processo portato a termine in più riprese ed estesosi su un periodo più lungo di tempo. Liberiamoci dalla limitazione imposta dalla stele di Meneptàh: allora possiamo facilmente assegnare una generazione (trent’anni) al periodo di Mosè,385 e poi lasciar passare almeno due generazioni, ma verosimilmente di più, fino all’unione di Qadesh; l’intervallo fra Qadesh e l’irruzione in Canaan sia pur breve.386 La tradizione ebraica, come s’è mostrato nel saggio precedente [vedi par. 7, in OSF, vol. 11], aveva le sue buone ragioni per accorciare l’intervallo fra l’esodo e la religione fondata a Qadesh, mentre la nostra descrizione ha l’interesse opposto.

Ma tutto ciò è ancora racconto storico, tentativo di supplire alle lacune della nostra conoscenza della storia, in parte ripetizione del nostro secondo saggio. A noi interessa seguire i destini di Mosè e della sua dottrina, cui la ribellione degli Ebrei aveva posto fine solo in apparenza. Dal ragguaglio del Yahwista, steso intorno all’anno 1000 ma basato certo su attestati387 precedenti, abbiamo ricavato l’informazione che con l’unione e la fondazione religiosa di Qadesh si concluse un compromesso, in cui le due parti contraenti possono ancora essere facilmente distinte. L’una si preoccupò soltanto di rinnegare la novità e l’estraneità del dio Yahweh e di rinvigorire la sua pretesa di essere venerato dal popolo; l’altra non volle sacrificargli i cari ricordi concernenti la liberazione dall’Egitto e la grandiosa figura del capo, Mosè. E quest’altra riuscì effettivamente a introdurre quel fatto e l’uomo nella nuova narrazione della preistoria, a mantenere almeno il segno esteriore della religione mosaica, la circoncisione, e forse a far adottare alcune restrizioni nell’uso del nome del nuovo dio. Abbiamo visto che i sostenitori di queste pretese furono i discendenti della gente di Mosè, i Leviti, che solo poche generazioni separavano dai contemporanei e conterranei di Mosè ed erano ancora legati da vivi ricordi alla sua memoria. Le narrazioni poeticamente abbellite che attribuiamo al Yahwista e al suo emulo più tardo, l’Elohista, furono come i mausolei al disotto dei quali la vera notizia di quelle antiche cose – ossia della natura della religione mosaica e della fine violenta del grande uomo – era destinata in un certo senso a trovare la pace eterna, restando sottratta alla conoscenza delle generazioni più tarde. E se abbiamo correttamente indovinato lo svolgimento dei fatti, essi non celano altro di enigmatico; avrebbero potuto però significare la fine una volta per tutte dell’episodio di Mosè nella storia del popolo ebraico.

Lo strano invece è che non fu così, che i principali effetti di quella vicenda vissuta dal popolo erano destinati a venire in luce solo più tardi, a farsi gradatamente strada nella realtà nel corso di molti secoli. Non è verosimile che Yahweh si distinguesse molto nel carattere dagli dèi dei popoli e delle tribù circostanti. A dire il vero, egli fu in lotta con questi, come i popoli stessi si combattevano tra di loro, ma è anche presumibile che a un adoratore di Yahweh di allora veniva tanto poco in mente di negare l’esistenza degli dèi di Canaan, Moab, Amalek eccetera, quanto quella dei popoli che in essi credevano.

L’idea monoteistica, che era balenata con Ekhnatòn, si era nuovamente oscurata e doveva restare nell’ombra ancora per molto tempo. Ritrovamenti nell’isola di Elefantina, poco sotto la prima cateratta del Nilo, hanno fornito la sorprendente notizia che colà vi era una colonia militare ebraica insediatasi da secoli, nel cui tempio si adoravano, oltre al dio principale Yahu, due divinità femminili, di cui una chiamata Anat-Yahu. Questi Ebrei difatto erano tagliati fuori dalla madre patria e non avevano preso parte al suo sviluppo religioso; il governo imperiale persiano (quinto secolo a.C.) trasmise loro la notizia dei nuovi precetti di culto di Gerusalemme.388 Tornando a tempi più antichi, diciamo pure che il dio Yahweh non aveva certo alcuna somiglianza col dio mosaico. Atòn era stato pacifista come il suo rappresentante in terra, o meglio il suo modello, il faraone Ekhnatòn, che assistette inattivo alla disgregazione dell’impero mondiale conquistato dai suoi avi. Per un popolo che si accingeva all’occupazione violenta di nuove terre, Yahweh era sicuramente più adatto. E tutto ciò che nel dio mosaico meritava ammirazione non poteva assolutamente essere capito dalla massa primitiva.

Ho già detto – e in questo volentieri mi sono richiamato alla concordanza con altri autori – che il fatto centrale dell’evoluzione religiosa ebraica fu che il dio Yahweh nel corso dei tempi perse i caratteri che gli erano propri e acquistò una sempre maggiore somiglianza con l’antico dio di Mosè, Atòn. Permangono certo differenze, alle quali a prima vista si sarebbe portati a dare molta importanza, ma queste sono facilmente spiegabili.

Atòn aveva cominciato a predominare in Egitto in un’epoca felice di sicuro possesso; anche quando l’impero cominciò a vacillare, i suoi adoratori avevano potuto restare distaccati dai torbidi e continuarono a magnificare le sue creazioni e a gioire di esse. Invece al popolo ebraico il destino portò una serie di ardue prove e di esperienze dolorose, il suo dio divenne duro e severo, come rannuvolato. Egli mantenne il carattere del dio universale che sovrasta a tutti i paesi e tutti i popoli, ma quando il suo culto si trasmise dagli Egizi agli Ebrei si verificò un’eloquente aggiunta, secondo la quale gli Ebrei erano il suo popolo eletto, le cui particolari obbligazioni avrebbero alla fine trovato particolare premio. È probabile che il popolo non trovasse facile conciliare la credenza di essere privilegiato dal suo dio onnipotente con le tristi esperienze del suo infelice destino. Ma il popolo non si lasciò sviare, accrebbe il suo senso di colpa per soffocare i dubbi su Dio, e forse da ultimo fece ricorso agli “imperscrutabili decreti di Dio”, come i devoti fanno ancor oggi. Se era tentato di meravigliarsi che egli permettesse il susseguirsi degli aggressori che lo sottomettevano e maltrattavano, gli Assiri, i Babilonesi, i Persiani, riconobbe però il potere di Dio vedendo che a loro volta tutti questi malvagi nemici venivano sconfitti e i loro imperi dissolti.

In tre punti capitali il tardo dio ebraico divenne simile al vecchio dio mosaico. Il primo e decisivo è che esso fu davvero riconosciuto come l’unico dio, accanto al quale un altro dio era impensabile. Il monoteismo di Ekhnatòn fu preso sul serio da un intero popolo, anzi questo popolo tanto si attaccò a questa idea che essa divenne il contenuto principale della sua vita spirituale e non gli rimase alcun interesse per altre cose. Il popolo, e il clero che su di lui era divenuto dominante, furono su questo punto unanimi; ma ogni volta che i sacerdoti esaurivano la loro attività nel perfezionamento del cerimoniale del culto, venivano in contrasto con fortissime correnti nel popolo, le quali cercavano di far rivivere due altre dottrine di Mosè sul suo dio. Le voci dei profeti non si stancavano di proclamare che Dio disdegnava il cerimoniale e i sacrifici ed esigeva soltanto che si credesse in lui e si conducesse una vita in verità e giustizia. E quando essi esaltavano la semplicità e la santità della vita nel deserto, si trovavano sicuramente sotto l’influsso dell’ideale mosaico.

È tempo di porre la questione se sia proprio necessario invocare l’influsso di Mosè per spiegare la forma finale assunta dalla rappresentazione ebraica di Dio, o se non sia sufficiente supporre l’evoluzione spontanea verso una superiore spiritualità, nel corso di una civiltà la cui vita durò secoli e secoli. Su questa possibile spiegazione, che porrebbe fine a tutti i nostri enigmi, ci sono da dire due ordini di cose. In primo luogo, essa non spiega nulla. Le stesse circostanze non hanno condotto nel popolo greco, certo altamente dotato, al monoteismo, ma all’allentamento della religione politeistica e all’inizio del pensiero filosofico. In Egitto il monoteismo, per quanto ci è dato capire, era sorto come effetto secondario dell’imperialismo, Dio era il riflesso del faraone, signore assoluto di un grande impero mondiale. Presso gli Ebrei le condizioni politiche impedivano che dall’idea del dio esclusivo del popolo si passasse a quella del dio sovrano universale del mondo; e donde venne a questa minuscola e impotente nazione la temerarietà di spacciarsi per la figlia preferita ed eletta del grande Signore? Così il problema dell’origine del monoteismo nel popolo ebraico resterebbe irrisolto, a meno di accontentarsi della risposta corrente, che si tratta semplicemente dell’espressione del particolare genio religioso di questo popolo. Il genio è notoriamente incomprensibile e irresponsabile, e perciò non lo si dovrebbe invocare come spiegazione finché ogni altra soluzione abbia fallito.389

Inoltre urtiamo nel fatto che la stessa cronaca e storia scritta ebraica ci indica la strada, asserendo con la massima risolutezza, questa volta senza contraddirsi, che l’idea di un dio unico fu portata al popolo da Mosè. Se c’è un’obiezione alla credibilità di quanto ci è assicurato, è che il rimaneggiamento sacerdotale del testo che ci sta di fronte fa palesemente risalire troppe cose a Mosè. Istituti come i precetti del rito, che indubbiamente appartengono a epoche più tarde, vengono spacciati come comandamenti mosaici, con la chiara intenzione di conferire loro autorità. Ciò costituisce per noi certo ragione di sospetto, ma non è sufficiente per un rifiuto. Infatti il motivo più profondo di tale esagerazione è evidente. La narrazione sacerdotale vuole stabilire una continuità tra il suo presente e il passato mosaico, vuole rinnegare proprio ciò che abbiamo designato come il fatto più vistoso della storia religiosa ebraica, e cioè che tra la legislazione di Mosè e la successiva religione ebraica si apre un vuoto, riempito dapprima dal culto di Yahweh e solo più tardi racconciato lentamente. La narrazione contesta questo processo con ogni mezzo benché non vi sia alcun dubbio che esso sia storicamente veritiero, giacché nel particolare trattamento subito dal testo biblico sono rimasti sovrabbondanti elementi che lo provano. Il rimaneggiamento sacerdotale ha qui tentato qualcosa di simile a quella tendenza a deformare che fece del nuovo dio Yahweh il dio dei padri [vedi il Secondo saggio, par. 6, in OSF, vol. 11]. Tenendo conto di questo motivo del Codice sacerdotale [ibid.], ci diventa difficile negar credito all’asserzione che Mosè stesso diede davvero ai suoi Ebrei l’idea monoteistica. Ci è tanto più facile consentire, perché siamo in grado di dire donde Mosè trasse questa idea, mentre i sacerdoti ebrei non lo sapevano certamente più.

Qui qualcuno potrebbe domandarci quale sia il vantaggio di derivare il monoteismo ebraico da quello egizio, visto che il problema così viene solo spostato di un po’, senza che sulla genesi dell’idea monoteistica ne sappiamo di più. La risposta a questa obiezione è che non si tratta di utilità, ma d’indagine. E forse abbiamo qualcosa da imparare scoprendo l’andamento reale dei fatti.

B. EPOCA DI LATENZA E TRADIZIONE

Noi siamo dunque dell’opinione che tanto l’idea di un dio unico, quanto il rifiuto del cerimoniale magicamente operante e l’accento sull’esigenza etica, avanzata in nome del dio, furono dottrine effettivamente mosaiche, che all’inizio non trovarono seguito, ma dopo lo scadere di un lungo intervallo di tempo divennero operanti e infine si affermarono durevolmente. Come spiegare tale effetto ritardato, e dove s’incontrano fenomeni simili a questi?

Ci accorgiamo subito che non è raro trovarli in campi molto diversi e che verosimilmente le loro cause sono molteplici, più o meno facilmente comprensibili. Consideriamo per esempio il destino di una nuova teoria scientifica, com’è stata la dottrina evoluzionistica di Darwin. Dapprima essa incontra un accanito rifiuto, per decenni è violentemente avversata, ma è sufficiente non più di una generazione perché venga riconosciuta come un grande progresso verso la verità. Darwin stesso ottiene l’onore di una tomba o cenotafio in Westminster. Un caso del genere lascia adito a pochi dubbi. La nuova verità ha risvegliato resistenze affettive; il patrocinio di queste è affidato ad argomenti con i quali sia possibile contestare le prove a favore della dottrina sgradita; la disputa delle opinioni prende un certo tempo, fin dall’inizio vi sono sostenitori e oppositori, il numero e il peso dei primi aumenta sempre più fnché hanno il sopravvento; per tutto il tempo della disputa non è mai stato dimenticato di che cosa si tratta. Non ci meravigliamo quasi che l’intero svolgimento abbia richiesto un certo tempo, e forse non ci rendiamo abbastanza conto di avere a che fare con un processo di psicologia collettiva.

Non v’è alcuna difficoltà a trovare un’analogia pienamente corrispondente a questo processo nella vita mentale del singolo. È il caso per esempio di chi viene a sapere qualcosa di nuovo, qualcosa che in forza di prove certe egli dovrebbe riconoscere come verità e che però contraddice qualche suo desiderio e offende talune sue preziose convinzioni. Egli esiterà, cercherà ragioni per poter mettere in dubbio la novità, e per un po’ combatterà con sé stesso, finché alla fine confesserà: “è proprio così, sebbene io non lo ammetta facilmente, sebbene mi sia penoso dovervi credere”. Da questo esempio apprendiamo solamente che ci vuole del tempo finché il lavoro intellettuale dell’Io abbia superato obiezioni che sono mantenute da forti investimenti affettivi. La somiglianza tra questo caso e quello che cerchiamo di capire non è molto grande.

L’esempio successivo al quale ci volgiamo ha apparentemente ancor meno in comune con il nostro problema. Succede che un uomo lascia in apparenza incolume il luogo in cui ha sofferto un accidente pauroso, ad esempio una collisione di treni. Nel corso della settimana seguente sviluppa però una serie di gravi sintomi psichici e motori, che si possono far derivare solo dallo shock, da quella scossa o cosa qualsiasi accaduta in quell’occasione. Egli ha adesso una “nevrosi traumatica”. È un fatto assolutamente incomprensibile, vale a dire un fatto nuovo. Il tempo intercorso tra l’accidente e il primo apparire dei sintomi è chiamato “periodo di incubazione”, con trasparente allusione alla patologia delle malattie infettive. A conti fatti siamo obbligati ad accorgerci che, nonostante la fondamentale differenza dei due casi, in un punto vi è tuttavia concordanza tra il problema della nevrosi traumatica e quello del monoteismo ebraico. Alludo a quel carattere che si potrebbe chiamare latenza. Secondo la nostra fondata ipotesi, vi è appunto nella storia della religione ebraica un lungo periodo dopo il distacco dalla religione di Mosè in cui non si trova traccia dell’idea monoteistica, del disprezzo per il cerimoniale e del grande rilievo conferito all’aspetto etico. Eccoci pronti ad accogliere la possibilità che la soluzione del nostro problema vada ricercata in una particolare situazione psicologica.

Abbiamo già ripetutamente narrato che cosa accadde a Qadesh, quando le due parti del futuro popolo ebraico si unirono adottando una nuova religione. Dal lato di coloro che erano stati in Egitto, i ricordi dell’esodo e della figura di Mosè erano ancora così forti e vivaci che richiedevano di essere inclusi nel racconto degli antichi tempi. Erano forse i nipoti di persone che avevano conosciuto lo stesso Mosè, e alcuni di loro si sentivano ancora egizi e portavano nomi egizi. Essi avevano però buoni motivi per rimuovere il ricordo del destino toccato al loro capo e legislatore. Per gli altri, il proposito determinante era di glorificare il nuovo dio e contestare la sua estraneità. Le due parti avevano lo stesso interesse a disconoscere che vi era stata presso di loro una precedente religione e quale ne era stato il contenuto. Si concluse così quel primo compromesso che verosimilmente ben presto trovò una sanzione scritta. La gente d’Egitto aveva portato con sé la scrittura e il piacere di scriver storia, ma doveva passare ancora molto tempo prima che la storia scritta si riconoscesse obbligata a veridicità inflessibile. All’inizio essa non si fece scrupolo di conformare i suoi ragguagli ai bisogni e alle tendenze del momento, come se ignorasse ancora il concetto di falsificazione. Per effetto di queste circostanze poté determinarsi un contrasto quando lo stesso materiale era fissato per iscritto o trasmesso oralmente, la tradizione. Ciò che fu omesso o alterato nella redazione scritta, poté assai bene rimanere conservato intatto nella tradizione. La tradizione era il complemento e al tempo stesso la contraddizione della storia scritta. Era meno soggetta all’influsso delle tendenze deformanti, forse in taluni punti si sottraeva ad esse del tutto, e per questo poté essere più veritiera del ragguaglio fissato nello scritto. Era però inficiata dal fatto di essere meno stabile e meno definita della redazione scritta, e di essere esposta a numerose alterazioni e sfigurata allorché si tramandava per comunicazione orale da una generazione all’altra. A una tradizione simile potevano toccare sorti diversissime. Anzitutto dobbiamo aspettarci che fosse sopraffatta dalla redazione scritta, che non fosse in grado di affermarsi accanto ad essa, che diventasse sempre più indistinta e infine cadesse nell’oblio. Ma è possibile che le toccassero anche altre sorti; una di esse è che la tradizione stessa finisse sancita per iscritto, e via via che procederemo ci imbatteremo ancora in altre possibilità.

Per il fenomeno, del quale ci stiamo occupando, della latenza nella storia religiosa ebraica, disponiamo ora di una spiegazione: le circostanze e i contenuti rinnegati di proposito dalla storia scritta diciamo così ufficiale, in realtà non andarono mai perduti. Ne rimase viva la notizia in tradizioni che si conservarono nel popolo. A quanto ci assicura Sellin, c’era una tradizione proprio sulla fine di Mosè, che contraddiceva nettamente la presentazione ufficiale ed era molto più vicina alla verità. Lo stesso, ci sia consentito supporre, si verificò anche per altre cose che apparentemente scomparvero con Mosè, per certi contenuti della religione mosaica che alla maggior parte dei contemporanei di Mosè erano stati inaccettabili.

Il fatto notevole che qui incontriamo è tuttavia che queste tradizioni, invece di affievolirsi col tempo, diventarono sempre più importanti nel corso dei secoli, si fecero strada nei successivi rimaneggiamenti della cronaca ufficiale, e infine si mostrarono così forti da influire in modo decisivo sul pensiero e l’azione del popolo. Le condizioni che resero possibile questo sbocco della vicenda ci restano per il momento ignote.

Questo fatto è così notevole che ci par giusto soffermarci ancora su di esso. Qui è racchiuso il nostro problema. Il popolo ebraico aveva abbandonato la religione di Atòn portatagli da Mosè e si era rivolto al culto di un altro dio, che differiva poco dai Baalim390 dei popoli vicini. Nessuno degli sforzi tendenziosi successivi riuscì a mascherare questo vergognoso stato di cose. Tuttavia la religione di Mosè non era scomparsa senza lasciar tracce, una specie di ricordo se ne era conservato, una tradizione forse oscurata e deformata. Fu così che questa tradizione di un grande passato continuò a essere efficace come dallo sfondo, gradualmente acquistò sempre maggior potere sugli spiriti e alla fine riuscì a trasformare il dio Yahweh nel dio mosaico e a richiamare in vita la religione di Mosè introdotta molti secoli prima e poi abbandonata. Non siamo assuefatti all’idea che una tradizione di cui si era perso il ricordo fosse destinata a esercitare un effetto così potente sulla vita spirituale di un popolo. Ci troviamo qui in un campo della psicologia delle masse nel quale non ci sentiamo a nostro agio. Andremo in cerca di analogie, di fatti di natura almeno simile, anche se appartenenti ad altri campi. Penso che sia possibile trovarli.

Ai tempi in cui tra gli Ebrei si preparava il ritorno della religione mosaica, il popolo greco si trovava in possesso di un tesoro ricchissimo di leggende della stirpe e di miti eroici. Nel nono e nell’ottavo secolo, si ritiene, ebbero origine le due epopee omeriche, che trassero la loro materia da questo ciclo di leggende. Con le nostre odierne vedute psicologiche avremmo potuto assai prima di Schliemann ed Evans rivolgerci la domanda: donde presero i Greci tutto il materiale leggendario che Omero e i grandi drammaturghi attici elaborarono nei loro capolavori? La risposta sarebbe stata questa: quel popolo verosimilmente aveva vissuto nella sua preistoria un periodo di splendore esterno e di fioritura civile, tramontato in una catastrofe storica ma di cui un’oscura tradizione si era conservata in queste leggende. La ricerca archeologica dei giorni nostri ha poi confermato questa congettura che in passato sicuramente sarebbe apparsa troppo azzardata. Gli scavi hanno scoperto le testimonianze della grandiosa civiltà minoico-micenea, che nel continente greco era probabilmente terminata già prima del 1250 a.C. Negli storici greci dell’epoca successiva se ne trova appena un cenno: tutt’al più l’osservazione che c’era stato un tempo in cui i Cretesi avevano avuto il dominio dei mari, il nome del re Minosse e del suo palazzo, il Labirinto; questo è tutto, e per il resto non è rimasto nulla se non le tradizioni riprese dai poeti.

Sono state scoperte epopee popolari anche presso altri popoli, come i Tedeschi, gli Indiani, i Finnici. Spetta allo storico della letteratura indagare se la loro origine lascia intravedere le stesse condizioni come nel caso dei Greci. Credo che l’indagine darà un risultato positivo. Io ne vedo la condizione in qualcosa accaduto nella loro preistoria, qualcosa che dovette apparire immediatamente dopo pregno di contenuto, importante, grandioso e forse, sempre, eroico, ma situato così lontano, appartenente a tempi così remoti, che solo un’oscura e incompiuta tradizione ne dà notizia alle generazioni successive. Qualcuno si è stupito che l’epica come genere artistico si estinse in tempi più tardi. Forse la spiegazione è questa: non si produssero più le condizioni necessarie. L’antico materiale era ormai consumato, e per tutti gli avvenimenti successivi la storia scritta era subentrata alla tradizione. Le più grandi imprese eroiche dei nostri giorni non sono state in grado di ispirare un’epica; ma già Alessandro Magno ebbe a lagnarsi a ragione che non avrebbe trovato un Omero.

Epoche lontanissime esercitano una grande, spesso enigmatica attrazione sulla fantasia degli uomini. Ogni qualvolta questi sono scontenti del loro presente – e lo sono abbastanza spesso – si volgono indietro al passato e sperano di trovarvi finalmente avverato il sogno mai estinto di un’età dell’oro.391 È probabile che continuino a trovarsi sotto l’incanto della loro infanzia, che è loro rispecchiata da un ricordo non imparziale come un’epoca di indisturbata beatitudine. Quando del passato rimangono solo più quei ricordi incompiuti e confusi che chiamiamo tradizione, essi costituiscono un particolare pungolo per l’artista, perché così egli è libero di riempire i vuoti del ricordo così come vuole la sua fantasia e di formare a piacer suo il quadro dell’epoca che intende riprodurre. Si potrebbe quasi dire che quanto più indeterminata è diventata la tradizione, tanto più utile sarà divenuta per il poeta. Per questo non ci dobbiamo stupire dell’importanza della tradizione per la poesia epica, e l’analogia con ciò che condiziona l’epica ci renderà meno strana l’ipotesi che, presso gli Ebrei, la tradizione mosaica fu causa della trasformazione del culto di Yahweh nel senso dell’antica religione mosaica. Ma per altro verso i due casi sono ancora molto diversi. Là il risultato è un poema, qui una religione; e di quest’ultima abbiamo supposto che fosse riprodotta, sotto l’insistenza della tradizione, con una fedeltà tale che il caso dell’epica non regge naturalmente il confronto. Pertanto resta aperto, del nostro problema, quanto basta a giustificare il bisogno di analogie più calzanti.

C. L’ANALOGIA

L’unica soddisfacente analogia con quel singolare procedere degli eventi che abbiamo individuato nella storia religiosa ebraica si trova in un campo apparentemente assai lontano; ma è un’analogia strettissima che si avvicina all’identità. In essa incontriamo nuovamente il fenomeno della latenza, l’emergere di manifestazioni incomprensibili che esigono una spiegazione, e la condizione dell’esperienza precedente poi dimenticata. E troviamo del pari il carattere della coazione, che s’impone alla psiche sopraffacendo il pensiero logico, in una maniera che, per esempio nella genesi dell’epica, non si era ancora presentata.

Questa analogia si incontra in psicopatologia nella genesi della nevrosi umana, cioè in un campo che appartiene alla psicologia del singolo, mentre i fenomeni religiosi devono essere evidentemente assegnati alla psicologia delle masse. Mostreremo che questa analogia non è così sorprendente come a prima vista si potrebbe pensare, anzi che corrisponde piuttosto a un postulato.

Chiamiamo traumi quelle impressioni dapprima vissute e successivamente dimenticate, alle quali attribuiamo una grande importanza per l’etiologia delle nevrosi. Può restare indecisa la questione se l’etiologia delle nevrosi in generale debba considerarsi come traumatica. L’ovvia obiezione a questa tesi è che non in tutti i casi si riesce a scovare un trauma palese agli inizi della storia dell’individuo nevrotico. Spesso dobbiamo rassegnarci a dire che [presso i nevrotici] non si tratta di nient’altro che di una reazione inabituale, abnorme, a esperienze e richieste che colpiscono tutti gli individui e che da altri sono rielaborate e risolte in un altro modo, da definirsi normale. Quando non abbiamo sotto mano altra spiegazione che le disposizioni ereditarie e costituzionali, siamo naturalmente portati a dire che la nevrosi non viene acquisita ma sviluppata.

In questo contesto però sono rilevanti due punti. Il primo è che la genesi della nevrosi risale sempre e comunque a impressioni ricevute dal bambino molto piccolo.392 In secondo luogo, è un fatto che ci sono casi che si designano come “traumatici” perché i loro effetti risalgono inequivocabilmente a una o più forti impressioni di questa stessa epoca, le quali non hanno avuto una normale risoluzione, così che si potrebbe ritenere che se non fossero accadute, anche la nevrosi non si sarebbe verificata. Ora per le nostre intenzioni sarebbe sufficiente limitare l’analogia cercata a questi casi traumatici. Ma la frattura tra i due gruppi non sembra insuperabile. È senz’altro possibile unificare le due condizioni etiologiche in un’unica concezione; dipende solo da ciò che viene definito “traumatico”. Ci sia consentito supporre che l’esperienza vissuta acquista carattere traumatico in ragione di un fattore quantitativo, cioè che sempre, se l’esperienza provoca reazioni patologiche inabituali, la colpa è di una richiesta eccessiva; se è così, possiamo acconciarci a dire che in una certa costituzione agisce come trauma qualcosa che in un’altra non avrebbe tale effetto. Ne risulta così la rappresentazione di una cosiddetta “serie complementare”393 mobile, in cui due fattori concorrono a portare ad adempimento l’etiologia: un meno dell’uno è compensato da un più dell’altro, in generale si ha un effetto congiunto dei due e solo alle due estremità della serie si può parlare di una motivazione semplice. Detto questo, la distinzione tra etiologia traumatica e non traumatica può essere lasciata da parte come inessenziale per l’analogia da noi cercata.

Forse è opportuno, nonostante il rischio di ripetermi, riassumere i fatti che contengono l’analogia per noi significativa. Sono i seguenti. Alla nostra ricerca è risultato che quelli che chiamiamo fenomeni (sintomi) di una nevrosi sono conseguenze di certe esperienze e impressioni, che proprio per questo riconosciamo come traumi etiologici. Ci restano ora da fare due cose: in primo luogo ricercare i caratteri comuni di queste esperienze, e in secondo luogo quelli dei sintomi nevrotici, e così facendo non potremo evitare certe schematizzazioni.

In primo luogo: a) Tutti questi traumi appartengono all’infanzia vera e propria, fino a circa 5 anni. Le impressioni del tempo di incipiente capacità di parola sono particolarmente interessanti; il periodo tra i 2 e i 4 anni appare come il più importante; quando abbia inizio dopo la nascita quest’epoca di recettività, non è possibile stabilirlo con precisione. b) Le esperienze di cui si tratta sono di regola totalmente dimenticate, non sono accessibili al ricordo, ricadono nel periodo dell’amnesia infantile, che viene interrotta al più da singoli residui mnestici, i cosiddetti ricordi di copertura.394 c) Essi si riferiscono a impressioni di natura sessuale e aggressiva, e certo anche a offese dell’Io avvenute per tempo (umiliazioni narcisistiche). Al riguardo bisogna osservare che bambini così piccoli non distinguono nettamente, come fanno dopo, tra azioni sessuali e azioni puramente aggressive (fraintendimento sadico dell’atto sessuale395). Il prevalere del fattore sessuale balza naturalmente agli occhi ed esige considerazioni teoriche.

Questi tre punti – occorrenza per tempo entro i primi 5 anni, dimenticanza, contenuto sessuale-aggressivo – sono strettamente associati. I traumi sono o esperienze sul proprio corpo, o percezioni sensoriali, soprattutto visive e uditive; sono cioè esperienze o impressioni. La connessione tra questi tre punti è stabilita da una teoria, a sua volta risultato del lavoro analitico, il quale solo può procurare una conoscenza delle esperienze dimenticate o, per esprimerci in modo più vivido ma anche più scorretto, riportarle alla memoria. La teoria dice che, contrariamente all’opinione popolare, la vita sessuale dell’uomo – o ciò che le corrisponde più tardi – mostra per tempo una fioritura che termina a circa 5 anni, cui segue la cosiddetta epoca di latenza – fino alla pubertà – in cui non c’è alcun progresso nello sviluppo della sessualità, anzi quello che è stato raggiunto vien fatto regredire. Questa dottrina è confermata dalla ricerca anatomica sullo sviluppo dei genitali interni; essa conduce alla congettura che l’uomo discenda da una specie animale che raggiungeva la maturità sessuale a 5 anni, e desta il sospetto che il differimento e l’avvio in due tempi della vita sessuale siano intimamente connessi con la storia dell’ominazione.396 L’uomo sembra l’unico essere animale con una simile latenza e ritardo sessuale. Investigazioni (che non mi risulta siano disponibili) condotte sui primati sarebbero indispensabili per provare la teoria. Psicologicamente non può essere indifferente che il periodo dell’amnesia infantile coincida con questa prima epoca della sessualità. Forse questo stato di cose determina la vera condizione che rende possibile la nevrosi, la quale in un certo senso è un privilegio umano e appare in questa prospettiva come un avanzo (survival) di epoche remote, allo stesso modo di certe componenti dell’anatomia del nostro corpo.

In secondo luogo, sulle comuni caratteristiche o peculiarità dei fenomeni nevrotici, ci sono da sottolineare due punti: a) Gli effetti del trauma sono di due tipi, positivi e negativi. I primi sono sforzi di rimettere in vigore il trauma, cioè di ricordare l’esperienza dimenticata, o meglio ancora di renderla reale, di viverne di nuovo una ripetizione, oppure, anche se si trattava solo di una relazione affettiva assai precedente, di farla rivivere in una relazione analoga con un’altra persona. Questi sforzi si riassumono come fissazione al trauma e coazione a ripetere. Essi possono essere assunti nel cosiddetto Io normale e, come tendenze stabili di questo, conferirgli tratti di carattere immutabili, benché o meglio proprio perché il loro effettivo fondamento, la loro origine storica è dimenticata. Così un uomo che ha trascorso l’infanzia attaccato in maniera eccessiva e oggi dimenticata alla madre, può cercare per tutta la vita una donna da cui potere rendersi dipendente, e da cui lasciarsi nutrire e mantenere. Una ragazza che è stata oggetto di seduzione sessuale da bambina piccola, può indirizzare la successiva vita sessuale in modo da continuare a provocare attacchi simili. È facile indovinare che, giovandoci di tali cognizioni sul problema della nevrosi, siamo avvantaggiati nell’intendere la formazione del carattere in generale.

Le reazioni negative perseguono lo scopo opposto, cioè che del trauma dimenticato, nulla sia ricordato e nulla ripetuto. Possiamo riassumerle come reazioni di difesa. Loro principale espressione sono le cosiddette elusioni, che possono accrescersi fino a inibizioni e fobie. Queste reazioni negative concorrono più di ogni altra alla determinazione del carattere. Fondamentalmente sono fissazioni al trauma, proprio come il loro opposto, solo che sono fissazioni il cui intento è contrario. I sintomi della nevrosi in senso stretto sono formazioni di compromesso, in cui partecipano tutt’e due le tendenze derivanti dai traumi, in modo che trova in essi espressione preponderante l’apporto ora dell’una ora dell’altra direzione. Per via di questo contrasto tra le reazioni si producono conflitti, che non possono giungere a conclusione in maniera regolare.

b) Tutti questi fenomeni, tanto i sintomi quanto le restrizioni dell’Io e le alterazioni stabili del carattere, hanno carattere di coazione, cioè accanto a grande intensità psichica mostrano un’ampia indipendenza dall’organizzazione degli altri processi psichici, che sono adattati alle esigenze del mondo esterno reale e obbediscono alle leggi del pensiero logico. Non sono, questi fenomeni, influenzati dalla realtà esterna o non lo sono abbastanza, non si curano di essa e di ciò che nella psiche supplisce ad essa, cosicché incorrono facilmente in un’opposizione attiva ad ambedue. Sono per così dire uno Stato nello Stato, un partito inaccessibile, inetto alla collaborazione, che può però riuscire a prevalere sull’altro, il cosiddetto “normale”, e a costringerlo al suo servizio. Quando ciò accade, vuol dire che è raggiunto il predominio di una realtà psichica interna sulla realtà del mondo esterno ed è aperta la via alla psicosi.397 Anche se non si arriva a tanto, è impossibile sopravvalutare il significato pratico di questo modo di essere. L’inibizione verso la vita e l’incapacità di vivere delle persone dominate da una nevrosi sono un fattore molto importante nella società umana, ed è lecito riconoscervi la diretta espressione del fatto che quelle persone si sono fissate a un frammento lontano del loro passato.

Domandiamoci ora che cosa ne è di quella latenza che, se poniamo mente all’analogia, ci deve particolarmente interessare. Al trauma infantile può concatenarsi immediatamente una crisi nevrotica, una nevrosi infantile, zeppa di tentativi di difesa e accompagnata da formazione di sintomi. Essa può durare a lungo, causare disturbi vistosi, ma anche aver decorso latente e passare inosservata. Di regola la difesa rimane vincitrice; in ogni caso permangono alterazioni dell’Io paragonabili a cicatrici.398 Soltanto di rado la nevrosi infantile continua senza interruzione nella nevrosi dell’adulto. Molto più spesso le succede un’epoca di sviluppo apparentemente indisturbato, processo questo sostenuto o reso possibile dal frapporsi del periodo fisiologico di latenza. Solo più tardi subentra il mutamento col quale la nevrosi definitiva diviene manifesta come effetto ritardato del trauma. Ciò accade o con l’irruzione della pubertà o un poco più tardi. Nel primo caso, ciò avviene perché le pulsioni rafforzate dalla maturazione fisica possono ora riprendere il combattimento, in cui prima erano state sconfitte dalla difesa; nel secondo, perché le reazioni e le alterazioni dell’Io prodotte dalla difesa si mostrano ora di impedimento per fronteggiare i nuovi doveri imposti dalla vita, tanto che si arriva ad acuti conflitti tra le richieste del mondo esterno reale e l’Io, che vuole preservare la sua organizzazione faticosamente acquisita nella battaglia difensiva. Nella nevrosi il fenomeno di latenza, tra le prime reazioni al trauma e il successivo scoppio della malattia, deve considerarsi tipico. È anche possibile vedere in questa malattia un tentativo di guarigione, lo sforzo di riconciliare col resto le parti dell’Io scisse a causa del trauma riunendole in un tutto possente di fronte al mondo esterno. Ma tale tentativo riesce solo di rado, quando non venga in soccorso il lavoro analitico, e anche allora non riesce sempre e termina abbastanza spesso nella piena devastazione e frammentazione dell’Io o nella sua sopraffazione399 ad opera della parte scissa sin dall’infanzia e dominata dal trauma.

Per ottenere di convincere il lettore, sarebbe necessario comunicare minutamente numerose storie di vite nevrotiche. Ma, vista l’ampiezza e la difficoltà dell’argomento, ciò distruggerebbe il carattere di questo lavoro. Esso si trasformerebbe in un trattato di teoria delle nevrosi e anche così finirebbe probabilmente per avere valore soltanto per quella minoranza che ha fatto dello studio ed esercizio della psicoanalisi lo scopo della sua vita. Dal momento che qui mi rivolgo a una cerchia più vasta, non posso far altro che pregare il lettore di concedere una certa provvisoria credibilità alle tesi precedentemente e brevemente esposte, al che si accompagna l’ammissione da parte mia che egli dovrà accettare le conseguenze verso le quali lo conduco solo se le teorie che ne sono il presupposto si dimostrano giuste.

Posso tuttavia cercare di narrare un singolo caso che permette di riconoscere in modo particolarmente chiaro alcune delle peculiarità menzionate della nevrosi. Naturalmente non ci si può aspettare da un singolo caso che mostri tutto, e non si deve restare delusi se, quanto a contenuto, esso è molto lontano da ciò con cui cerchiamo l’analogia.

Un ragazzino che, come avviene tanto spesso nelle famiglie piccolo-borghesi, divideva da piccolo la camera da letto con i genitori, ebbe ripetute, anzi regolari occasioni, all’età di un’appena acquisita capacità di parola, di osservare le faccende sessuali tra i genitori, di vedere qualcosa e di udire ancora di più. Nella successiva nevrosi, scoppiata immediatamente dopo la prima polluzione spontanea, il primo e più fastidioso sintomo fu l’insonnia. Divenne straordinariamente sensibile ai rumori notturni e, una volta sveglio, non riusciva a riprender sonno. Questo disturbo del sonno era un vero sintomo di compromesso, da un lato l’espressione della sua difesa contro quelle percezioni notturne, dall’altro un tentativo di ristabilire lo stato di veglia, in cui poteva star ad ascoltare quelle impressioni.

Precocemente stimolato da quelle osservazioni a un’aggressiva virilità, il bambino cominciò ad eccitare con le mani il suo piccolo pene e a intraprendere diverse aggressioni sessuali verso la madre, identificandosi col padre, al cui posto così si poneva. Le cose continuarono così fino a che si buscò dalla madre la proibizione di toccarsi il membro, e anzi la sentì minacciare che lo avrebbe detto al padre, che per punizione gli avrebbe levato il membro peccaminoso. Questa minaccia di evirazione ebbe sul ragazzino un effetto traumatico straordinariamente forte. Egli cessò la sua attività sessuale e alterò il proprio carattere. Invece di identificarsi col padre, ora lo temeva, si atteggiava passivamente verso di lui e lo provocava con occasionali marachelle a castighi corporali, che per lui avevano un significato sessuale, di modo che così poteva identificarsi con la madre maltrattata. Alla madre poi si aggrappava sempre più angosciosamente, come se non potesse fare a meno per un solo momento del suo amore, in cui vedeva uno scudo contro il pericolo di evirazione minacciato dal padre. In questa modificazione del complesso edipico egli trascorse l’epoca di latenza, che rimase libera da disturbi appariscenti. Divenne un ragazzo modello, ebbe successo a scuola.

Fin qui abbiamo seguito l’effetto immediato del trauma e confermato il fatto della latenza.

L’arrivo della pubertà coincise con la nevrosi manifesta e ne rivelò il secondo sintomo fondamentale, l’impotenza sessuale. Aveva perduto la sensibilità del pene, non cercava di toccarlo, non osava avvicinare una donna con mire sessuali. La sua attività sessuale rimase limitata all’onanismo psichico con fantasie sado-masochistiche, nelle quali non è difficile riconoscere gli sfoghi delle sue primitive osservazioni del coito dei genitori. L’irrobustita virilità che sopravviene quando ha inizio la pubertà fu impiegata in un odio furioso contro il padre e nell’insubordinazione. Questo estremo rapporto, esacerbato fino all’autodistruzione, con il padre, fu anche causa del suo insuccesso nella vita e dei suoi conflitti col mondo esterno. Non poteva certo riuscire nella professione, perché a quella professione l’aveva spinto il padre. Non si faceva amici, non era mai in buoni rapporti con i superiori.

Allorché, tarato da questi sintomi e incapacità, ebbe finalmente trovato moglie dopo la morte del padre, vennero alla luce in lui, quasi fossero il nucleo del suo essere, qualità di carattere che rendevano assai arduo il frequentarlo per tutti i suoi intimi. Sviluppò una personalità assolutamente egoistica, dispotica e brutale, che palesemente aveva bisogno di opprimere e ferire gli altri. Era la copia fedele del padre così come se ne era formato un’immagine nel ricordo, dunque una reviviscenza dell’identificazione paterna in cui a suo tempo si era collocato il ragazzino per motivi sessuali. Qui in particolare riconosciamo il ritorno del rimosso, ritorno da noi descritto, insieme con gli effetti immediati del trauma e il fenomeno della latenza, come uno degli aspetti essenziali di una nevrosi.

D. APPLICAZIONE

Trauma del bambino piccolo-difesa-latenza-scoppio della malattia nevrotica-ritorno parziale del rimosso: ecco la formula che abbiamo enunciato per lo sviluppo di una nevrosi. Ora il lettore è invitato a fare un altro passo, ossia a supporre che nella vita del genere umano sia accaduto qualcosa di simile a ciò che accade in quella dell’individuo. Quindi che anche qui si siano verificati eventi di contenuto sessuale-aggressivo, i quali hanno lasciato conseguenze stabili, ma il più delle volte sono stati respinti e dimenticati, e più tardi, dopo una lunga latenza, sono giunti ad effetto e hanno creato fenomeni simili, per struttura e intento, ai sintomi.

Crediamo di poter indovinare questi eventi e vogliamo mostrare che le loro conseguenze simili a sintomi sono i fenomeni religiosi. Non potendosi più mettere in dubbio, dopo l’emergere dell’idea di evoluzione, che il genere umano abbia una preistoria, ed essendo questa sconosciuta, cioè dimenticata, tale illazione400 ha quasi il peso di un postulato. Quando apprendiamo che i traumi efficaci e dimenticati hanno relazione, qui come là, alla vita nella famiglia umana, salutiamo questo fatto come un’aggiunta molto gradita, non prevista, che non era richiesta dalla discussione finora svolta.

Ho già fatto queste affermazioni un quarto di secolo fa nel mio libro Totem e tabù (1912-13) e mi basti qui ripeterle. La mia costruzione si fonda su un asserto di Charles Darwin e comprende una congettura di Atkinson.401 Essa dice che in tempi primitivi l’uomo primigenio viveva in piccole orde,402 ciascuna dominata da un maschio robusto. Non possiamo indicare l’epoca e ci sfugge il collegamento con ere geologiche a noi note; è probabile che quell’essere umano non fosse molto avanzato nello sviluppo della parola. Una parte essenziale della costruzione è l’ipotesi che le vicende che sto per descrivere riguardassero tutti i primi uomini, e quindi tutti i nostri avi.

La storia è narrata in forma estremamente condensata, come se fosse accaduto una volta sola ciò che di fatto si è esteso per un periodo di millenni e che in questo lungo tempo si è ripetuto innumerevoli volte. Il maschio robusto era signore e padrone di tutta l’orda, senza limiti al suo potere, che esercitava con violenza. Tutte le femmine erano sua proprietà, sia le donne e le figlie della sua orda, sia forse quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando essi suscitavano la gelosia del padre, venivano trucidati o evirati o espulsi. Trovavano scampo vivendo insieme in piccole comunità, procurandosi le donne mediante il ratto e, quando uno di loro ci riusciva, cercando di raggiungere una posizione simile a quella del padre nell’orda originaria. Per ragioni naturali, i figli più piccoli si trovavano in una situazione eccezionale: protetti dall’amore della madre, traevano vantaggio dall’età del padre e potevano succedergli dopo la sua scomparsa. Echi sia dell’espulsione dei figli maggiori, sia della preferenza accordata ai più piccoli, pare di avvertirli nelle leggende e nelle favole.

Il successivo, decisivo passo verso la modificazione di questo primo modo di organizzazione “sociale” fu compiuto presumibilmente allorché i fratelli scacciati e viventi in comunità unirono le loro forze per sopraffare il padre e, secondo il costume di quei tempi, lo divorarono crudo. Non c’è bisogno di scandalizzarsi per questo cannibalismo: esso prosegue a lungo in epoche più tarde. Essenziale è invece attribuire a questi uomini primigeni gli stessi atteggiamenti emotivi che possiamo stabilire mediante l’indagine analitica nei primitivi del presente, i nostri bambini. E cioè che non solo odiassero e temessero il padre, ma anche che lo venerassero come modello, e che ognuno in realtà volesse mettersi al suo posto. L’atto cannibalistico diviene allora comprensibile come tentativo per assicurarsi l’identificazione con lui incorporando un pezzo di lui.

È da supporre che dopo il parricidio seguisse un lungo periodo in cui i fratelli si disputarono l’eredità paterna, che ciascuno voleva ottenere per sé solo. Persuasisi dei pericoli e dell’infruttuosità di queste lotte, il ricordo dell’atto liberatorio compiuto in comune e i legami emotivi reciproci che erano nati ai tempi della cacciata finirono per condurre a un’unione tra loro, a una sorta di contratto sociale. Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale,403 il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Il singolo rinunciò all’ideale di acquisire per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Di qui il tabù dell’incesto e l’imposizione dell’esogamia. Una buona parte del potere assoluto reso disponibile dalla soppressione del padre passò alle donne, venne il tempo del matriarcato. In questo periodo di “alleanza fraterna”, la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto, che forse all’inizio era sempre anche temuto. Una scelta del genere può sembrarci strana, ma l’abisso che l’uomo ha stabilito successivamente tra sé e l’animale era ignoto ai primitivi, e non esiste nemmeno per i nostri bambini, le cui fobie per gli animali furono da noi spiegate come timore del padre. Nel rapporto con l’animale totemico fu mantenuta interamente la dicotomia originaria della relazione emotiva col padre (ambivalenza). Da un lato il totem valeva come progenitore carnale e genio tutelare del clan, doveva essere venerato e protetto; dall’altro fu istituita una solennità in cui gli era riservato il destino toccato al padre primigenio. Esso veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù, insieme (pasto totemico secondo Robertson Smith).404 Questa grande festa era in realtà una celebrazione trionfale della vittoria riportata sul padre dai figli alleati.

Come si colloca la religione in questo contesto? Ritengo che abbiamo pieno diritto di riconoscere nel totemismo, con la sua venerazione di un sostituto paterno, con l’ambivalenza mostrata nel pasto totemico, con l’istituzione di celebrazioni commemorative, di divieti la cui trasgressione era punita con la morte, è lecito riconoscere nel totemismo, dicevo, la prima forma di apparizione della religione nella storia umana e confermare il suo nesso fin dal principio con gli ordinamenti sociali e gli obblighi morali. Possiamo qui passare solo in rapidissima rassegna gli sviluppi successivi della religione. Essi procedono senza dubbio parallelamente al progresso civile del genere umano e alle modificazioni avvenute nell’assetto delle comunità umane.

Il passo consecutivo al totemismo è l’umanazione dell’essere venerato. Al posto degli animali subentrano dèi umani, della cui derivazione dal totem non si fa mistero. Il dio è ancora raffigurato o in forma animale o almeno con faccia d’animale, oppure il totem diviene il compagno preferito del dio, da cui è inseparabile, oppure ancora la leggenda fa sì che il dio uccida proprio questo animale, che a ben vedere era solo lo stadio preliminare di lui stesso. A un certo punto difficilmente determinabile di questa evoluzione fanno la loro comparsa grandi divinità materne, probabilmente anche prima degli dèi maschili, con i quali coesistettero poi a lungo. Si era frattanto compiuto un grande rivolgimento sociale. Il matriarcato era stato sostituito dal ristabilirsi di un ordine patriarcale. I nuovi padri non raggiunsero in verità mai il potere assoluto del padre primordiale; erano in molti e vivevano associati in raggruppamenti più grandi di quanto fosse stata l’orda; dovevano mantenere buoni rapporti reciproci ed erano limitati da norme sociali. È verosimile che le divinità materne avessero origine al tempo della restrizione del matriarcato, per compensare le madri messe in disparte. Le divinità maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri, e solo dopo assunsero nettamente i tratti di figure paterne. Questi dèi maschili del politeismo rispecchiano i rapporti dell’epoca patriarcale. Sono numerosi, si limitano a vicenda, occasionalmente sono subordinati a un dio supremo che li sovrasta. Il passo successivo, però, conduce al tema che ci sta occupando, ossia al ritorno di un solo dio-padre, unico e illimitato signore.405

Bisogna ammettere che questa rassegna storica è lacunosa e in alcuni punti incerta. Ma chi volesse vedere nella nostra ricostruzione della storia delle prime età una pura fantasia sottovaluterebbe gravemente la ricchezza e la forza dimostrativa del materiale incluso nella storia stessa. Vaste porzioni del passato, che qui sono concatenate in un tutto, sono storicamente attestate, come il totemismo e le alleanze maschili. Altre si sono conservate in ripetizioni illustri. Così più di un autore ha fatto osservare quanto fedelmente il rito della comunione cristiana, in cui il credente incorpora in forma simbolica il sangue e la carne del suo dio, ripeta il senso e il contenuto dell’antico pasto totemico. Numerose reminiscenze dei primordi dimenticati sono conservate nelle leggende e nelle favole dei popoli, e lo studio analitico della vita psichica del bambino ha fornito con inaspettata ricchezza il materiale per supplire ai difetti della nostra conoscenza di quei tempi. Come contributi alla miglior conoscenza dei rapporti, così importanti, con il padre, mi basti citare le fobie animali, la paura, che ci sembra così stravagante, di essere divorati dal padre, l’intensità atroce del timore di essere castrati. Nella nostra costruzione non vi è nulla di liberamente inventato, nulla che non poggi su buone basi.

Se si accetta la nostra presentazione della storia primordiale come complessivamente credibile, si riconoscerà nelle dottrine e nei riti religiosi un duplice elemento: da un lato il fissarsi all’antica storia familiare, le reminiscenze di essa, dall’altro il rinnovarsi del passato, i ritorni del dimenticato, dopo lunghi intervalli. L’ultimo aspetto soprattutto, finora trascurato e per questo non compreso, dev’essere qui dimostrato con almeno un esempio efficace.

Mette particolarmente conto rilevare il fatto che ogni porzione del passato che ritorna dall’oblio s’impone con forza particolare, esercita un potere incomparabile sulle masse umane e pretende irresistibilmente di esser tenuto per vero, mentre l’obiezione logica resta impotente. Al modo del Credo quia absurdum.406 Questa peculiarità notevole può intendersi solo facendo ricorso al modello del delirio degli psicotici. Abbiamo compreso da tempo che nell’idea delirante si trova nascosta una porzione di verità dimenticata la quale al suo ritorno si è dovuta accontentare di deformazioni e malintesi, e che la convinzione coattiva che il delirio provoca deriva da questo nucleo di verità e si estende agli errori che lo avvolgono. Dobbiamo concedere un simile contenuto di verità, che chiameremo storica, anche ai dogmi delle religioni, i quali portano in sé il carattere di sintomi psicotici ma al contempo, come fenomeni di massa, sfuggono alla maledizione dell’isolamento.407

Nessun altro brano della storia religiosa ci è diventato così perspicuo come l’inizio del monoteismo nel giudaismo e la sua continuazione nel cristianesimo, a prescindere dall’evoluzione, ugualmente intelligibile senza soluzione di continuità, dal totem animale al dio umano col suo immancabile compagno (ciascuno dei quattro evangelisti cristiani ha ancora il suo animale favorito). Consideriamo provvisoriamente valida l’ipotesi secondo cui l’impero mondiale dei faraoni fu la causa dell’emergere dell’idea monoteistica: vediamo allora che questa idea, lasciato il suo terreno e trasferitasi a un altro popolo, è fatta propria da quest’ultimo dopo un lungo periodo di latenza, è custodita come un possesso prezioso e a sua volta mantiene il popolo vivo dandogli l’orgoglio di essere l’eletto. Alla religione dei padri si lega la speranza della ricompensa, della distinzione, e infine del dominio mondiale. Quest’ultima fantasia di desiderio, da molto tempo abbandonata dal popolo ebraico, sopravvive ancor oggi tra i suoi nemici, che credono nella cospirazione dei “Saggi di Sion”. Ci riserviamo di descrivere nel secondo capitolo come le particolarità proprie della religione monoteistica tratta dall’Egitto agirono sul popolo ebraico e ne impregnarono durevolmente il carattere, sia mediante il rifiuto della magia e del misticismo, sia incitandolo ad avanzare nella spiritualità408 e sollecitandolo alla sublimazione; descriveremo come il popolo inebriato dal possesso della verità, soggiogato dalla coscienza di essere eletto, giunse a stimare altamente le cose dell’intelletto e ad accentuare il lato etico, e come i tristi destini, le delusioni reali di questo popolo servirono a rafforzare tutte queste tendenze. Per adesso vogliamo seguire il suo sviluppo in un’altra direzione.

La reintegrazione del padre primigenio nei suoi diritti storici fu un grande progresso, ma non poteva essere la fine. Anche gli altri pezzi della tragedia preistorica premevano per il riconoscimento. Non è facile discernere che cosa mise in moto questo processo. Si direbbe che un crescente senso di colpa s’impadronì del popolo ebraico, e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del materiale rimosso. Da ultimo un uomo venuto da questo popolo ebraico, prendendo a giustificare un agitatore politico-religioso, fornì l’occasione che provocò il distacco di una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, ricuperò questo senso di colpa e lo ricondusse correttamente alle sue prime fonti storiche. Chiamò queste il “peccato originale”; si trattava di un delitto contro Dio, che solo con la morte poteva essere espiato. Con il peccato originale la morte venne nel mondo. In effetto questo delitto meritevole di morte era stato l’uccisione del padre primigenio, successivamente deificato. Ma non si ricordava l’assassinio, invece si fantasticava la sua espiazione, e perciò questo fantasma poteva essere salutato come messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, poiché era stata l’uccisione del padre. Verosimilmente tradizioni orientali e misteri greci avevano concorso nel dare compiutezza al fantasma di redenzione. Sembra essenziale in esso il contributo di Paolo. Era un uomo dotato di un vero e proprio talento religioso; nella sua anima stavano in agguato oscure tracce del passato, pronte a irrompere in regioni più coscienti.

Il fatto che il redentore si fosse sacrificato senza colpa era una deformazione palesemente tendenziosa, che offriva difficoltà all’intelligenza logica: come può infatti, chi è innocente dell’assassinio, prendere su di sé la colpa degli assassini consentendo di essere ucciso? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava. Il “redentore” non poteva essere altri che il primo colpevole, il caporione della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre. A mio giudizio bisogna lasciare indecisa la questione se ci fu o no questo ribelle principale e caporione. È possibilissimo, ma bisogna considerare in alternativa che ciascuno nella banda dei fratelli aveva certamente il desiderio di commettere lui solo il misfatto, creando così a sé stesso una posizione eccezionale e un sostitutivo di quell’identificazione paterna alla quale occorreva rinunciare, che si disperdeva nella comunità. Pertanto, se non vi fu tal condottiero, Cristo è l’erede di una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è allora il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, in questo punto va ritrovata l’origine della rappresentazione dell’eroe, dell’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide.409 Qui sta anche il vero fondamento della “colpa tragica” dell’eroe nel dramma, altrimenti difficilmente dimostrabile. Ci sono pochi dubbi che l’eroe e il coro della tragedia greca raffigurano questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli, e non è senza significato che nel Medioevo il teatro riprende a vivere con la rappresentazione della storia della Passione.

Abbiamo già detto che la cerimonia cristiana della Santa Comunione, in cui il credente s’incorpora corpo e sangue del Salvatore, ripete il contenuto dell’antico pasto totemico, ma solo nel suo senso di tenerezza, esprimente la venerazione, e non in quello aggressivo. Tuttavia l’ambivalenza che domina il rapporto paterno si mostrò chiaramente nel risultato finale dell’innovazione religiosa. Volta apparentemente alla riconciliazione col Dio Padre, finì col detronizzarlo e sopprimerlo. Il giudaismo era stato una religione del Padre, il cristianesimo diventò una religione del Figlio. L’antico Padre divino si ritirò dietro a Cristo, e al suo posto venne Cristo, il Figlio, proprio come ogni figlio aveva sperato in era remota. Paolo, il continuatore del giudaismo, fu anche il suo distruttore. Il suo successo fu in primo luogo dovuto al fatto che mediante l’idea della redenzione egli scongiurò il senso di colpa dell’umanità, ma oltre a ciò anche alla circostanza che egli rinunciò a credere che il suo popolo fosse l’eletto e dovesse recarne il segno visibile, la circoncisione, così che la nuova religione poté diventare universale e abbracciare tutti gli uomini. Può darsi che in questo passo di Paolo c’entrasse il suo personale desiderio di vendetta per il rifiuto che la sua riforma aveva incontrato nei circoli ebraici, ma in ogni caso veniva così ristabilito un carattere dell’antica religione di Atòn, levata una strettoia che essa aveva acquisito nel passaggio a un nuovo portatore, il popolo ebraico.

Per alcuni aspetti la nuova religione significò un regresso di civiltà rispetto a quella più antica, l’ebraica, come sempre succede con l’irruzione o l’ammissione di nuove masse umane di livello inferiore. La religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui si era innalzato il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica, assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici, ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio ove collocare molte figure divine del politeismo, appena velate, sebbene in posizione subordinata. Soprattutto non escluse, come invece la religione di Atòn e quella mosaica che venne subito dopo, la penetrazione di elementi superstiziosi, magici e mistici, destinati a essere di grave intralcio per l’evoluzione spirituale dei due millenni successivi.

Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnatòn dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta. Eppure per ciò che attiene alla storia della religione, cioè in riguardo al ritorno del rimosso, il cristianesimo fu un progresso, e da allora in poi la religione ebraica fu in certo modo un fossile.

Metterebbe conto di capire perché mai l’idea monoteistica fece un’impressione così profonda proprio sul popolo ebraico e fu da esso così tenacemente conservata. Credo che si possa rispondere a questa domanda. Il destino aveva posto il popolo ebraico a contatto con la grande impresa e misfatto dei tempi primordiali, l’uccisione del padre, allorché l’aveva indotto a ripeterlo nella persona di Mosè, un’eminente figura paterna. Era un caso del “mettere in atto”, invece di ricordare, come così spesso avviene col nevrotico durante il lavoro analitico.410 All’incitamento a ricordare, che la dottrina di Mosè dava loro, essi reagirono invece rinnegando il loro atto, si attestarono sul riconoscimento del grande Padre e si sbarrarono la possibilità di accedere là donde più tardi Paolo doveva riprendere la continuazione della storia primordiale. Non è affatto indifferente o casuale che l’uccisione violenta di un altro grande uomo diventasse anche il punto di partenza della neocreazione religiosa di Paolo. Si trattava di un uomo che un piccolo numero di seguaci in Giudea riteneva il figlio di Dio e l’annunciato Messia, al quale poi fu anche attribuito qualcosa della storia infantile inventata a proposito di Mosè [vedi il Primo saggio, in OSF, vol. 11], ma sul conto del quale in realtà non sappiamo quasi nulla di più che su quello di Mosè, non sappiamo se davvero fosse il grande maestro che i Vangeli dipingono, o se piuttosto i fatti e le circostanze della sua morte fossero decisivi per il significato assunto dalla sua persona. Paolo, che divenne il suo apostolo, non lo conobbe di persona.

L’uccisione di Mosè ad opera del suo popolo ebraico, riscoperta da Sellin dalle tracce rimaste nella tradizione e curiosamente supposta anche dal giovane Goethe senza prova alcuna,411 diviene così un pezzo indispensabile della nostra costruzione, un importante anello di congiunzione tra l’evento dimenticato dei primordi e il suo più tardo riapparire in forma di religione monoteistica.412 È una congettura plausibile supporre che il pentimento per l’assassinio di Mosè fornisse l’impulso alla fantasia di desiderio del Messia che doveva tornare portando al suo popolo la redenzione e il promesso dominio mondiale. Se Mosè fu questo primo Messia, allora Cristo divenne il suo sostituto e successore, allora anche Paolo poté con una certa giustificazione storica proclamare ai popoli: “Vedete, il Messia è davvero venuto, ed è stato ucciso sotto i vostri occhi.” Allora, anche nella risurrezione di Cristo c’è un pezzo di verità storica, poiché egli era il Mosè risorto e, dietro a Mosè, il padre dell’orda primitiva, che tornava trasfigurato e si metteva, come figlio, al posto del padre.413

Il povero popolo ebraico, che continuò con la solita ostinazione a rinnegare l’uccisione del padre, nel corso dei secoli ha espiato gravemente per questo. Non si è cessato di rinfacciargli: “Hai ucciso il nostro Dio.” Rimprovero corretto, se lo si traduce correttamente. Riferito alla storia delle religioni esso suona: “Non volete ammettere di aver ucciso Dio (l’immagine originaria di Dio, il padre primigenio e le sue successive reincarnazioni).” Ci vorrebbe una dichiarazione aggiuntiva: “Certo, noi abbiamo fatto lo stesso, ma lo abbiamo ammesso e da allora siamo stati assolti.” Non tutti i rimproveri con cui l’antisemitismo perseguita i discendenti del popolo ebraico possono richiamarsi a una giustificazione analoga. Un fenomeno di intensità e durata come l’odio dei popoli per gli Ebrei deve avere naturalmente più di un fondamento. Si può indovinare tutta una serie di ragioni; alcune dedotte palesemente dalla realtà, che non richiedono interpretazione alcuna, altre, più profonde, derivano da fonti occulte e si potrebbe dire che sono i motivi specifici. Fra le prime, il rimprovero di essere stranieri al paese è certo il più debole, poiché in molti luoghi, dominati oggi dall’antisemitismo, gli Ebrei appartengono alle parti più antiche della popolazione o addirittura si erano insediati prima degli attuali abitanti. Questo vale per esempio per la città di Colonia, dove gli Ebrei giunsero con i Romani, prima ancora che fosse occupata dai Germani.414 Altre ragioni [sempre di queste prime] dell’odio per gli Ebrei sono più forti, come la circostanza che essi vivono perlopiù come minoranze tra gli altri popoli, poiché il senso comunitario delle masse abbisogna, per essere compiuto, dell’ostilità contro una minoranza estranea, e la debolezza numerica di questi esclusi invita all’opprimerli. Non ottengono assolutamente perdono però due altre particolarità degli Ebrei. Innanzitutto il fatto che per certi aspetti sono diversi dai popoli che li ospitano. Non fondamentalmente diversi, poiché non sono asiatici di razza straniera, come i nemici asseriscono, ma al più composti di resti di popoli mediterranei ed eredi della civiltà mediterranea. Eppure sono differenti, spesso indefinibilmente differenti dai popoli nordici, soprattutto, e l’intolleranza delle masse si esprime stranamente di più contro piccole distinzioni che contro differenze fondamentali.415 Il secondo punto si fa sentire ancora di più, cioè il fatto che essi tengono testa a ogni oppressione, che alle più crudeli persecuzioni non è riuscito di sterminarli, e anzi che mostrano di avere la capacità di affermarsi nel commercio e, laddove sia loro consentito, di dare validi contributi in ogni campo della civiltà.

I motivi più profondi dell’odio per gli Ebrei sono radicati nel passato più remoto, agiscono dall’inconscio dei popoli, e non c’è da stupirsi che sulle prime appaiano incredibili. Arrischio l’affermazione che la gelosia per il popolo che si è spacciato per il figlio primogenito e preferito del Padre divino ancor oggi non è stata superata dagli altri popoli, quasi avessero prestato fede a questa pretesa. Inoltre uno dei costumi per cui gli Ebrei si distinguono, quello della circoncisione, ha fatto un’impressione sgradevole e inquietante, che si spiega facilmente col suo richiamo alla temuta evirazione e, pertanto, riguarda qualcosa da dimenticare, appartenente al passato primordiale. E infine l’ultimo motivo: non dimentichiamoci che tutti questi popoli che oggi hanno il primato dell’odio per gli Ebrei sono diventati cristiani solo in epoca storica tarda, spesso spinti da sanguinosa coercizione. Si potrebbe dire che sono tutti “battezzati male” e che sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quello che erano i loro antenati, che professavano un barbaro politeismo. Non hanno superato il loro rancore contro la nuova religione che è stata loro imposta, ma l’hanno spostato sulla fonte donde il cristianesimo è loro pervenuto. Il fatto che i Vangeli narrano una storia che si svolge tra Ebrei e tratta propriamente solo di Ebrei ha facilitato questo spostamento. Il loro odio per gli Ebrei è al fondo odio per i cristiani, e non vi è di che meravigliarsi se nella rivoluzione nazionalsocialista tedesca questa intima relazione tra le due religioni monoteistiche trova così chiara espressione nel trattamento ostile a entrambe.416

E. DIFFICOLTÀ

Forse con le considerazioni precedenti mi è riuscito di rendere compiuta l’analogia tra processi nevrotici e avvenimenti religiosi e di indicare così l’inaspettata origine dei secondi. Nel passare dalla psicologia individuale a quella collettiva sorgono due difficoltà di diversa natura e importanza, alle quali dobbiamo ora dedicarci.

La prima è che qui abbiamo trattato solo un caso della ricca fenomenologia della religione e non abbiamo gettato nessuna luce sugli altri. L’autore deve confessare con rincrescimento di non poter fornire che questo unico saggio e che la sua competenza non è sufficiente a completare l’indagine. Dalle sue limitate conoscenze, egli può forse ancora aggiungere che il caso della fondazione della religione maomettana gli pare quasi una ripetizione abbreviata di quella ebraica, imitando la quale essa entrò in scena. Sembra anzi che il Profeta avesse originariamente l’intenzione di accettare pienamente per sé e per il suo popolo il giudaismo. L’aver ritrovato l’unico grande padre primigenio conferì agli Arabi una sicurezza straordinariamente elevata di sé, che li condusse a grandi successi terreni nei quali però anche si esaurì. Allah si mostrò molto più grato al suo popolo eletto che non in altro tempo Yahweh al suo. Ma l’evoluzione interna della nuova religione si arrestò presto, forse perché mancò dell’approfondimento provocato, nel caso degli Ebrei, dall’aver ucciso il fondatore della loro religione. Le religioni apparentemente razionalistiche degli orientali sono nel loro nocciolo culto degli antenati e si arrestano così anch’esse a uno dei primi gradini della ricostruzione del passato. Se è vero che presso i popoli primitivi di oggi troviamo, come unico contenuto della religione, il riconoscimento di un essere supremo, possiamo considerare ciò soltanto come un’atrofia dello sviluppo religioso e metterlo in relazione con gli innumerevoli casi di nevrosi rudimentali che costatiamo in quell’altro campo. Perché, sia qui che là, non si sia andati avanti, non abbiamo modo di capirlo in nessuno dei due casi. Non ci resta che attribuirne la responsabilità al talento individuale di questi popoli, alla direzione presa dalla loro attività e al loro stato sociale generale. Del resto, è una buona regola del lavoro analitico accontentarsi di spiegare ciò che ci sta dinanzi, e non affannarsi a spiegare ciò che non è stato.

La seconda difficoltà che incontriamo passando alla psicologia delle masse è molto più importante, perché solleva un problema nuovo che ha natura di principio. Si pone la questione circa la forma in cui è presente la tradizione operante nella vita dei popoli; questione che non si dà nell’individuo, poiché in questo caso è risolta dall’esistenza delle tracce mnestiche del passato nell’inconscio. Torniamo al nostro esempio storico. Abbiamo attribuito il compromesso di Qadesh alla persistenza di una poderosa tradizione nei reduci dall’Egitto. Questo caso non cela alcun problema. Secondo la nostra congettura una simile tradizione si sosteneva sul ricordo cosciente delle comunicazioni orali che gli allora viventi avevano ricevuto dai loro antenati di solo due o tre generazioni addietro, i quali erano stati partecipi e testimoni oculari degli avvenimenti che qui importano. Ma possiamo pensare lo stesso per i secoli successivi? cioè che la tradizione avesse sempre a fondamento un sapere comunicato in maniera normale, che si trasmetteva di nonno in nipote? Chi fossero le persone che custodivano un simile sapere e lo propagavano oralmente, non è più possibile precisare come nel caso precedente. Secondo Sellin la tradizione dell’uccisione di Mosè fu sempre presente nelle cerchie sacerdotali, finché trovò la sua espressione scritta, la sola che rese possibile a Sellin di arguirla. Ma essa può essere stata nota solo a pochi, non era patrimonio popolare. Basta questo a spiegare la sua efficacia? Si può attribuire a un simile sapere di pochi, quando veniva a conoscenza delle masse, il potere di commuoverle in modo così duraturo? Sembra piuttosto di dover dire che anche nella massa ignara c’era qualcosa che in qualche modo era affine al sapere dei pochi e che a questo venne incontro quando fu manifestato.

Il giudizio diviene ancora più difficile se ci volgiamo al caso analogo dei tempi primordiali. L’esistenza di un padre primigenio con le note proprietà, e il destino al quale andò incontro furono certamente dimenticati nel corso dei secoli, e non si può nemmeno supporre qualche tradizione orale come nel caso di Mosè. In che senso allora possiamo parlare di una tradizione? In quale forma può essere stata presente?

Per agevolare i lettori che non desiderano o non sono disposti a immergersi nei meandri della psicologia, anticiperò il risultato della disamina che ora segue. Io ritengo che la concordanza tra individuo e massa sia in questo punto quasi completa; anche nelle masse l’impressione del passato permane in tracce mnestiche inconsce.

Nell’individuo crediamo di veder chiaro. La traccia mnestica di ciò che ha provato da bambino piccolo si è conservata in lui, benché in uno stato psicologico particolare. Si può dire che l’individuo lo ha sempre saputo, proprio come ognuno sa qualcosa del rimosso. Mi sono fatto a questo proposito determinate idee, che non è difficile corroborare con l’analisi, secondo cui certe cose possono essere dimenticate e dopo un po’ di tempo ricomparire. Il dimenticato non è estinto ma solo “rimosso”, le sue tracce mnestiche sono presenti in tutta la loro freschezza, per quanto isolate da “controinvestimenti”. Esse non possono entrare in circolazione con gli altri processi intellettuali, sono inconsce, inaccessibili alla coscienza. Può anche darsi che certe parti del rimosso si siano sottratte al processo, restino accessibili al ricordo, ed emergano occasionalmente nella coscienza, ma anche allora sono isolate, come corpi estranei fuori dalla connessione con il resto. Ciò può accadere, ma non necessariamente; la rimozione può anche essere totale e noi, qui sotto, ci atterremo a questo caso.

Questo rimosso mantiene la sua spinta, continua a sforzarsi di farsi avanti nella coscienza. Esso raggiunge il suo scopo in tre condizioni: 1) se la forza del controinvestimento viene diminuita, o da processi patologici che colpiscono l’altro, il cosiddetto Io, o da una diversa distribuzione delle energie d’investimento in questo Io, come avviene di regola nello stato di sonno; 2) se le quote di pulsione che risiedono nel rimosso ricevono un particolare rinforzo (il migliore esempio di questo è fornito dai processi che accompagnano la pubertà); 3) se nel vivere una certa esperienza a un certo momento si producono impressioni ed esperienze che sono così simili al rimosso da farlo ridestare. Allora il recente si rinforza mediante l’energia latente del rimosso, e il rimosso giunge ad effetto dietro al recente col suo aiuto. In nessuno di questi tre casi il materiale fino allora rimosso giunge alla coscienza in modo piano senza alterazioni, al contrario deve sempre rassegnarsi a deformazioni che testimoniano l’influsso della resistenza (non del tutto superata) che nasce dal controinvestimento, o l’influsso modificatore dell’esperienza recente, o entrambi questi influssi.

Come criterio e punto di orientamento ci è servita la distinzione tra processo psichico conscio e inconscio. Il rimosso è inconscio. Ora sarebbe una fortunata semplificazione se questa proposizione ammettesse anche di essere rovesciata, se cioè la differenza tra le qualità conscio (c) e inconscio (inc) coincidesse con la divisione: appartenente all’Io e rimosso.417 Già il fatto che nella nostra vita psichica ci sono cose come queste, isolate e inconsce, sarebbe sufficientemente nuovo e importante. Ma la realtà non è così semplice. È corretto dire che ogni rimosso è inconscio, ma non è corretto dire che tutto ciò che appartiene all’Io è conscio. Ci rendiamo conto che la coscienza è una qualità fugace, che accompagna il processo psichico solo in via transitoria. Ai nostri fini dobbiamo pertanto sostituire “conscio” con “capace di coscienza” e chiamare questa qualità “preconscio” (prec). Diremo allora più correttamente che l’Io è essenzialmente preconscio (virtualmente conscio), ma che parti dell’Io sono inconsce.

L’aver assodato questo, dimostra che le qualità cui fin qui ci siamo attenuti non bastano per orientarci nella tenebra della vita psichica. Dobbiamo introdurre un’altra distinzione, che non è più qualitativa, ma topica, e a un tempo, cosa che le conferisce un particolare valore, genetica. Sceveriamo nella nostra vita psichica – intesa come un apparato composto di parecchie istanze, distretti e province – una regione che chiamiamo il vero e proprio Io, da un’altra che chiamiamo Es. L’Es è la più antica, dalla quale l’Io si è sviluppato come uno strato corticale per influsso del mondo esterno. Nell’Es sono attive le nostre pulsioni originarie; tutti i processi nell’Es decorrono inconsci. L’Io, come già abbiamo menzionato, coincide con l’area del preconscio; contiene parti che normalmente restano inconsce. Per i processi psichici nell’Es valgono leggi di decorso e di reciproca interazione del tutto diverse da quelle che dominano nell’Io. Invero è proprio la scoperta di queste differenze che ci ha condotto alla nostra nuova concezione e la giustifica.

Il rimosso va assegnato all’Es e soggiace anche ai suoi meccanismi, se ne distingue solamente quanto alla genesi. La differenziazione si compie all’epoca della piccola infanzia, allorché l’Io si sviluppa dall’Es. Allora una parte del contenuto dell’Es viene assunta dall’Io ed elevata allo stato preconscio, mentre un’altra parte non è sottoposta a questa trasposizione e resta indietro nell’Es, come inconscio vero e proprio. Nel corso successivo della formazione dell’Io, certe impressioni e processi psichici nell’Io vengono tuttavia da esso esclusi ad opera di un procedimento di difesa; il carattere di preconscio viene loro sottratto, in modo che sono riabbassati a costituenti dell’Es. Questo è il “rimosso” nell’Es. Per quanto riguarda la circolazione tra le due province psichiche, noi supponiamo da un lato che il processo inconscio nell’Es sia elevato al livello di preconscio e incorporato nell’Io, e dall’altro che il preconscio nell’Io possa seguire il cammino inverso ed essere rispostato nell’Es. Per ora resta fuori dal nostro interesse il fatto che nell’Io successivamente si delimiti un distretto particolare, quello del “Super-io”.418

È possibile che tutto ciò appaia tutt’altro che semplice,419 ma, una volta acquistata una certa familiarità con la concezione spaziale dell’apparato psichico, alla quale non siamo abituati, ciò può non offrire particolari difficoltà di rappresentazione. Aggiungo ancora l’osservazione che la topica psichica qui sviluppata non ha niente a che fare con l’anatomia cerebrale, o se vogliamo la sfiora solo in un punto.420 Ciò che è insoddisfacente in questa rappresentazione – e io lo sento chiaramente come chiunque altro – deriva dalla nostra totale ignoranza sulla natura dinamica dei processi psichici. Ci diciamo che ciò che distingue una rappresentazione conscia da una preconscia, e questa da una inconscia, non può essere altro che una modificazione, forse anche un’altra distribuzione dell’energia psichica. Noi parliamo di investimenti e controinvestimenti, ma oltre a questo manchiamo di ogni conoscenza e persino di ogni avvio a un’ipotesi di lavoro praticabile. Sul fenomeno della coscienza possiamo aggiungere che originariamente dipende dalla percezione. Tutte le sensazioni che nascono dalla percezione di stimolazioni dolorose, tattili, uditive o visive sono a tutta prima consce. I processi di pensiero e ciò che di analogo può esserci nell’Es sono in sé inconsci e si guadagnano l’accesso alla coscienza tramite il nesso con i residui mnestici di percezioni visive e uditive passando per la funzione linguistica.421 Nell’animale, cui manca la parola, le cose devono svolgersi in modo più semplice.

Le impressioni del trauma del bambino piccolo, donde siamo partiti, o non sono trasportate nel preconscio, o sono ben presto riportate dalla rimozione nello stato di Es. I loro residui mnestici sono allora inconsci e operano dall’Es. Non ci è difficile, crediamo, seguirne le vicende finché si tratta di esperienze individuali. Sopravviene però una complicazione quando riflettiamo sulla probabilità che nella vita psichica dell’individuo siano all’opera non solo esperienze personali, ma anche contenuti ingeniti fin dalla nascita, elementi di provenienza filogenetica, un’eredità arcaica. Sorgono allora le domande: in che cosa consiste questa eredità, che cosa contiene, quali ne sono le prove?

La prima e più sicura risposta è questa: essa consiste in determinate predisposizioni, proprie a tutti gli esseri viventi. Vale a dire nella capacità e inclinazione a battere determinate direzioni di sviluppo e a reagire in un modo particolare a certi eccitamenti, impressioni e stimoli. Poiché l’esperienza mostra che nei singoli esseri del genere umano ci sono a questo riguardo delle differenze, l’eredità arcaica le include, esse configurano cioè quello che noi riconosciamo come il fattore costituzionale dell’individuo. Ora, poiché gli uomini nei loro primi anni sperimentano tutti pressappoco le stesse cose, vi reagiscono anche in maniera simile; potrebbe perciò sorgere il dubbio se non si debbano ascrivere queste reazioni, unitamente alle loro differenze individuali, all’eredità arcaica. Questo dubbio va respinto; la nostra conoscenza dell’eredità arcaica non è arricchita dal fatto di questa somiglianza.

Nondimeno l’esplorazione analitica è giunta ad alcuni risultati che ci danno da pensare. C’è anzitutto la generalità del simbolismo linguistico. La sostituzione simbolica di un oggetto mediante un altro – lo stesso vale nella pratica – è familiare e come ovvia a tutti i nostri bambini. Non possiamo dimostrare come essi l’abbiano appresa, e in molti casi dobbiamo riconoscere che un apprendimento è impossibile. Si tratta di un sapere originario, che l’adulto ha poi dimenticato. È vero che questi adopera gli stessi simboli nei suoi sogni, ma non li capisce se non quando l’analista glieli interpreta, e anche allora presta fede malvolentieri alla traduzione. Se ha fatto uso di una delle così frequenti locuzioni in cui questo simbolismo si trova fissato, deve riconoscere che il loro senso proprio gli è interamente sfuggito. Il simbolismo inoltre sorvola le differenze delle lingue; le indagini mostrerebbero probabilmente che ha il dono dell’ubiquità, di essere lo stesso in tutti i popoli. Sembra esservi qui un caso assodato di eredità arcaica dall’epoca dello sviluppo linguistico, ma si potrebbe anche cercare un’altra spiegazione. Si potrebbe dire che si tratta di relazioni mentali tra rappresentazioni, relazioni fabbricatesi durante lo sviluppo storico linguistico e che ora devono essere ripetute ogni volta che uno sviluppo linguistico è compiuto individualmente. Questo sarebbe dunque un caso di ereditarietà di una disposizione mentale, analogo a quella di una disposizione pulsionale, e, di nuovo, esso non darebbe alcun contributo al nostro problema.

Il lavoro analitico, tuttavia, ha anche portato alla luce dell’altro, cose che superano per importanza quanto detto finora. Se studiamo le reazioni ai traumi del bambino piccolo, siamo spesso sorpresi di trovare che esse non si attengono strettamente all’effettiva esperienza individuale, ma si allontanano da essa in maniera che s’adatta assai meglio al modello di un evento filogenetico e che, in modo del tutto generale, può essere spiegata solamente mediante un suo influsso. Il contegno del bambino nevrotico verso i genitori nel complesso edipico e in quello di evirazione abbonda di tali reazioni, che individualmente appaiono ingiustificabili e divengono comprensibili solo filogeneticamente, poste in relazione con le esperienze di generazioni precedenti. Metterebbe conto presentare al pubblico l’intero materiale del quale mi posso qui valere. La sua evidenza è secondo me sufficiente per arrischiare ancora un passo e avanzare la tesi che l’eredità arcaica degli uomini non abbraccia solo disposizioni, ma anche contenuti, tracce mnestiche di ciò che fu vissuto da generazioni precedenti. Con questo sia l’estensione che l’importanza dell’eredità arcaica verrebbero accresciute in maniera significativa.

A una più attenta riflessione, debbo confessare che da tempo mi sono comportato come se l’ereditarietà di tracce mnestiche delle esperienze dei progenitori, indipendentemente dalla comunicazione diretta e dall’influsso che esercita l’educazione mediante l’esempio, fosse indiscutibile. Quando parlavo del persistere dell’antica tradizione in un popolo, del formarsi del carattere popolare, avevo in mente soprattutto una simile tradizione ereditata, e non una tradizione propagata per comunicazione. O almeno non ho fatto distinzione tra le due e non mi sono dato chiaramente ragione di quanto c’era di temerario in questa mia trascuratezza. Per la verità, la mia posizione è resa più difficile dall’atteggiamento attuale della scienza biologica, che non vuol sentir parlare di proprietà acquisite ereditate dai discendenti. Ma confesso in tutta modestia che ciò nonostante non posso rinunciare a questo fattore nello sviluppo biologico. Certo, nei due casi non si tratta della stessa cosa ma, nell’uno, di proprietà acquisite difficili a cogliersi, nell’altro di tracce mnestiche di impressioni esterne, per così dire palpabili. Ma può darsi che fondamentalmente non possiamo rappresentarci l’uno senza l’altro.

Se ammettiamo la permanenza di queste tracce mnestiche nell’eredità arcaica, abbiamo gettato un ponte sull’abisso tra psicologia individuale e collettiva e possiamo trattare i popoli come i singoli nevrotici. Pur concedendo che per le tracce mnestiche nell’eredità arcaica non abbiamo attualmente alcuna prova più valida di quei fenomeni residui del lavoro analitico che esigono di essere derivati dalla filogenesi, ciò non pertanto questa prova ci sembra abbastanza valida per postulare uno stato di cose siffatto. Se non è così, non procediamo d’un passo sulla via che abbiamo battuto, né nell’analisi né nella psicologia collettiva. È una temerarietà inevitabile.

Così facendo otteniamo anche qualcosa d’altro. Riduciamo la frattura che i vecchi tempi dell’umana arroganza hanno eccessivamente allargato tra l’uomo e l’animale. Se i cosiddetti istinti422 degli animali, che consentono loro di comportarsi fin dall’inizio in una nuova situazione vitale come se fosse antica e da tempo familiare, se mai questa vita istintiva degli animali ammette una spiegazione, può essere solo perché essi portano con sé nella loro nuova esistenza le esperienze della loro specie, ossia hanno conservato in sé ricordi di ciò che avevano sperimentato i loro progenitori. Nell’animale umano le cose in fondo non sarebbero diverse. Agli istinti degli animali corrisponde l’eredità arcaica a lui propria, benché di altra estensione e contenuto.

Dopo tutta questa discussione non ho alcuno scrupolo a dichiarare che gli uomini hanno sempre saputo – nella particolare maniera suddetta – di aver avuto un padre primigenio e di averlo ucciso.

Resta da rispondere a due altre domande. La prima è a quali condizioni un simile ricordo penetri nell’eredità arcaica; la seconda, in quali circostanze possa divenire attivo, cioè pervenire, dal suo stato inconscio nell’Es, alla coscienza, anche se alterato e deformato. La risposta alla prima domanda è facile. Diremo: quando l’evento era abbastanza importante, o quando si ripeté abbastanza spesso, o le due cose insieme. Nel caso dell’uccisione del padre entrambe le condizioni sono soddisfatte. Alla seconda domanda bisogna osservare: possono entrare in gioco una serie di influssi, non necessariamente tutti noti, ed è anche concepibile un decorso spontaneo analogamente al processo di certe nevrosi. Di sicuro però ha importanza decisiva il risvegliarsi della traccia mnestica dimenticata a causa di una recente ripetizione reale dell’evento. Una siffatta ripetizione fu l’uccisione di Mosè; più tardi, lo fu il presunto assassinio giudiziario di Cristo, di modo che questi avvenimenti precedono ogni altra delle possibili cause. Si direbbe che la genesi del monoteismo non potesse farne a meno. Si ricorderà il detto del poeta:

Was unsterblich in Gesang soll leben,
Muss im Leben untergehen.

[Ciò che è destinato a vivere immortale nel canto,
Deve perire nella vita.]423

Infine un’osservazione che arreca un argomento psicologico. Una tradizione fondata solo sulla comunicazione non potrebbe produrre quel carattere coatto che è tipico dei fenomeni religiosi. Essa sarebbe ascoltata, criticata, fors’anche respinta come ogni altra notizia proveniente dall’esterno, e non otterrebbe mai il privilegio di sfuggire alla coazione del pensiero logico. Essa deve aver provato il destino della rimozione, la condizione d’indugio nell’inconscio, prima di essere in grado di sviluppare al suo ritorno effetti così potenti, prima di poter incantare le masse, come accade alla tradizione religiosa con nostro stupore e senza che finora siamo riusciti a spiegarcelo. E questa considerazione ha un grande peso nel farci credere che le cose si siano svolte effettivamente così come ci siamo sforzati di descriverle, o almeno in modo somigliante.424

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