1.

[Circa 1885-1902]

Fluctuat nec mergitur

(Nello stemma della città di Parigi)491

Nessuno dovrà stupirsi del carattere soggettivo e della parte che alla mia persona è assegnata nei contributi che mi accingo a fornire sulla storia del movimento psicoanalitico. La psicoanalisi è infatti una mia creazione; per dieci anni sono stato l’unica persona che se n’è occupata, e tutto il disappunto che questo nuovo fenomeno ha suscitato nei contemporanei si è riversato sotto forma di critica sul mio capo. Mi ritengo quindi autorizzato a sostenere che ancor oggi, pur non essendo io da tempo l’unico psicoanalista, nessuno meglio di me può sapere che cos’è la psicoanalisi, in che cosa essa si differenzi da altri modi di indagare la vita psichica, e che cosa con il suo nome si debba intendere rispetto a quello che sarebbe meglio indicare con una diversa denominazione. Rifiutando fermamente quello che a me sembra un atto di illecita usurpazione, fornisco quindi indirettamente ai nostri lettori alcuni chiarimenti sui fatti che hanno condotto a mutare la redazione e la forma esteriore dello “Jahrbuch”.492

Quando nel 1909 mi fu per la prima volta concesso di parlare pubblicamente di psicoanalisi nell’aula di un’università americana,493 commosso dall’importanza che un’occasione come quella aveva per le mie aspirazioni, dichiarai di non essere colui che aveva dato vita alla psicoanalisi; dissi che tale merito spettava a un altro, a Josef Breuer che l’aveva acquisito quando io ero ancora uno studente impegnato a dare gli ultimi esami (1880-82). Da allora, tuttavia, vari amici bene intenzionati mi hanno indotto a considerare se io non avessi espresso la mia gratitudine in modo spropositato. Mi dissero che avrei fatto bene a rendere omaggio, come in precedenti occasioni, al “procedimento catartico” di Breuer in quanto stadio preparatorio della psicoanalisi, ma che avrei dovuto datare quest’ultima soltanto a partire dal mio rifiuto della tecnica ipnotica e dall’introduzione delle associazioni libere. Comunque non ha grande importanza che si faccia iniziare la storia della psicoanalisi con il procedimento catartico o con il modo in cui io l’ho modificato. Se indugio su questo problema di scarso interesse è solo perché alcuni dei miei oppositori hanno l’abitudine, di quando in quando, di richiamarsi al fatto che quest’arte psicoanalitica non sarebbe da ricondurre affatto alla mia persona, bensì a quella di Breuer. Questo avviene naturalmente soltanto nel caso in cui la posizione che essi sostengono consenta loro di ritenere che qualcosa della psicoanalisi è degno di essere preso in considerazione; quando invece, senza fare distinzioni rifiutano la psicoanalisi in blocco, allora essa è sempre e incontestabilmente opera mia. Non ho mai sentito che Breuer si sia attirato il vilipendio e il biasimo proporzionali all’importanza del suo contributo alla psicoanalisi. Avendo ormai da tempo compreso che l’inesorabile destino della psicoanalisi è di esasperare gli uomini e di stimolare il loro spirito di contraddizione, ho tratto per me stesso la conclusione che di tutto ciò che la caratterizza io devo essere l’unico vero autore. Mi compiaccio di aggiungere che nessuno dei tentativi di sminuire la mia parte nella molto infamata psicoanalisi è mai partito da Breuer né si è potuto vantare del suo appoggio.

Il contenuto della scoperta di Breuer è stato così spesso illustrato che ci è lecito ometterne qui una discussione esauriente; esso consiste nel dato fondamentale che i sintomi degli isterici dipendono da scene della loro vita profondamente incisive (traumi), che essi hanno però dimenticato; la terapia che vi si fonda consiste nel far loro ricordare e riprodurre in stato di ipnosi queste esperienze (catarsi); da ciò deriva quel frammento della teoria secondo cui questi sintomi corrispondono a un’utilizzazione abnorme di quantità di eccitamento che non sono state esaurite (conversione). Ogniqualvolta Breuer deve riferirsi alla conversione nelle sue considerazioni teoriche contenute negli Studi sull’isteria (1892-95), egli aggiunge tra parentesi il mio nome,494 come se questo primo tentativo di dare una ragione teorica del fenomeno in questione fosse di mia spettanza. Credo che questa distinzione vada riferita soltanto alla denominazione, perché l’interpretazione ci apparve contemporaneamente e in comune.

È inoltre noto che, dopo la sua prima esperienza, Breuer lasciò cadere per una serie di anni il trattamento catartico, e lo riprese soltanto dopo che io, tornato dal mio soggiorno presso Charcot, ve lo ebbi indotto.495 Egli era un internista impegnato in una pratica medica molteplice; io invece solo a malincuore ero diventato medico; in compenso a quell’epoca avevo un forte motivo che mi spingeva ad aiutare i malati nervosi, o almeno a capire qualcosa dei loro stati. Mi ero affidato alla terapia fisica e mi ritrovai perplesso dinanzi alle delusioni causatemi dalla Elettroterapia di Erb, per altro così ricca di consigli e di indicazioni.496 Se a quel tempo non giunsi per mio conto alla conclusione più tardi fatta prevalere da Möbius secondo cui i successi del trattamento elettrico nei disturbi nervosi sono effetti della suggestione, ciò fu dovuto solo al fatto che i successi promessi dall’elettroterapia non si verificarono. Un surrogato che allora mi parve adeguato per la rinuncia alla terapia elettrica era il trattamento mediante suggestioni operate in stato di ipnosi profonda che avevo imparato a conoscere attraverso le dimostrazioni estremamente impressionanti di Liébeault e Bernheim.497 Ma l’esplorazione dei pazienti in stato d’ipnosi, che Breuer mi fece conoscere, doveva risultare – grazie all’automatismo dei suoi effetti e alla soddisfazione che al tempo stesso otteneva la mia brama di sapere – incomparabilmente più attraente che non i monotoni e perentori divieti di cui fa uso il trattamento suggestivo, divieti che sbarrano il passo ad ogni ricerca ulteriore.

Poco fa siamo stati esortati – e tale ammonimento corrisponde a una delle acquisizioni più recenti della psicoanalisi – a portare in primo piano nell’analisi il conflitto in atto e la causa occasionale della malattia [vedi cap. 3]. Ora, questo è esattamente ciò che all’inizio dei nostri lavori Breuer e io abbiamo fatto con il metodo catartico. Indirizzavamo l’attenzione del malato direttamente sulla scena traumatica ove il sintomo era nato, tentavamo di rintracciare il conflitto psichico che essa conteneva, liberandone poi l’affetto represso. Scoprimmo così l’andamento che caratterizza i processi psichici delle nevrosi, da me più tardi chiamato “regressione”. L’associazione del malato risaliva dalla scena da chiarire a esperienze precedenti, costringendo l’analisi, il cui compito era quello di correggere il presente, a occuparsi del passato. Questa regressione condusse sempre più addietro; dapprima invariabilmente fino all’epoca della pubertà, poi insuccessi e lacune nella nostra comprensione attirarono il lavoro analitico verso gli anni ancora precedenti dell’infanzia, che fino ad allora erano stati inaccessibili a qualsiasi tipo di indagine. Tale indirizzo regressivo divenne un carattere importante dell’analisi. Risultò che la psicoanalisi non poteva chiarire niente del presente se non rifacendosi a qualcosa del passato, e che ogni esperienza patogena presuppone un’esperienza più lontana nel tempo, la quale pur non essendo di per sé patogena, conferisce tuttavia all’evento successivo la qualità patogena che gli è propria. Comunque la tentazione d’indugiare sull’occasione nota, attuale, era così grande che le ho ceduto anche in analisi successive. Nel trattamento eseguito nel 1899 della paziente da me chiamata “Dora”,498 mi era nota la scena che aveva determinato l’insorgere della malattia che avevo di fronte. Innumerevoli volte mi sforzai di portare in analisi tale esperienza, ma alla mia diretta sollecitazione non ottenni mai altra risposta se non la stessa scarna e lacunosa descrizione. Soltanto dopo una lunga digressione che rinviò alla sua prima infanzia, la paziente fece un sogno la cui analisi le riportò alla memoria i dettagli fino a quel momento dimenticati della scena in questione, e ciò rese possibile la comprensione e la soluzione del conflitto attuale.

Basta questo esempio per rendersi conto quanto tragga in inganno l’ammonimento sopra menzionato, e quanta regressione scientifica si esprima nel consiglio di trascurare la regressione nella tecnica analitica.

Il primo dissenso tra Breuer e me si manifestò a proposito dell’intimo meccanismo psichico dell’isteria. Egli prediligeva una teoria per così dire ancora fisiologica, e intendeva spiegare la scissione psichica degli isterici in base alla mancanza di comunicazione tra i diversi stati psichici (o, come a quel tempo dicevamo: stati di coscienza); creò così la teoria degli “stati ipnoidi”, i cui esiti si sarebbero inseriti come corpi estranei, non assimilati, nella “coscienza vigile”. Io avevo assunto un punto di vista meno scientifico; ovunque mi sembrava di scorgere tendenze e inclinazioni analoghe a quelle della vita quotidiana, e concepivo la scissione psichica stessa come risultato di un processo di ripulsa che allora chiamai “difesa” e più tardi “rimozione”.499 Feci poi un breve tentativo di far sussistere i due meccanismi l’uno accanto all’altro, ma poiché l’esperienza continuava a mostrarmi sempre la stessa e unica cosa, alla teoria ipnoide di Breuer non tardò a contrapporsi la mia dottrina della difesa.

Sono tuttavia del tutto certo che questo contrasto non aveva niente a che vedere con la rottura che poco dopo ebbe luogo tra noi. Questa aveva motivi più profondi, ma si presentò in maniera tale che in un primo tempo non la compresi; solo più tardi, in seguito ad ogni sorta di valide indicazioni riuscii a farmene una ragione. Si ricorderà certo che Breuer dichiarò a proposito della sua famosa prima paziente che in essa l’elemento sessuale era sorprendentemente poco sviluppato500 e non aveva mai portato un contributo al ricco quadro della sua malattia. Mi sono sempre meravigliato che i critici non abbiano contrapposto più spesso questa assicurazione di Breuer alla mia asserzione circa l’etiologia sessuale delle nevrosi, e ancor oggi non so se in questa omissione io debba vedere una prova della loro discrezione o della loro sbadataggine. Chi rilegga la storia clinica di Breuer alla luce dell’esperienza acquisita nel corso degli ultimi vent’anni, non potrà misconoscere il simbolismo dei serpenti, della contrattura, della paralisi del braccio, e tenendo conto della situazione creatasi al capezzale del padre malato, scoprirà senza difficoltà qual è l’autentica interpretazione di quell’insieme di sintomi. Per conseguenza la sua opinione sulla funzione svolta dalla sessualità nella vita psichica della ragazza divergerà notevolmente da quella del suo medico.

Per il ristabilimento della malata, Breuer stabilì con lei un rapporto suggestivo particolarmente intenso, che può fornirci un ottimo modello di quel che oggi chiamiamo “traslazione”. Ora, io ho fondati motivi per supporre che dopo l’eliminazione di tutti i sintomi Breuer dovette scoprire la motivazione sessuale di questa traslazione in base a nuovi indizi, pur sfuggendogli la natura generale di tale inaspettato fenomeno; sicché a questo punto, come colpito da un untoward event [contrattempo], egli troncò l’indagine.501 Di ciò Breuer non m’informò direttamente, ma mi fornì ripetutamente accenni sufficienti per giustificare quest’illazione. Quando poi io sostenni, con sempre maggiore risolutezza, l’importanza della sessualità nell’etiologia delle nevrosi, egli fu il primo a dimostrarmi quella reazione di rifiuto indignato che in seguito mi doveva divenire tanto familiare, ma che allora non avevo ancora imparato a riconoscere come un destino per me inesorabile.

Il fatto che nel corso di ogni trattamento di nevrosi si instauri una traslazione affettuosa o ostile, improntata a grossolana sessualità, traslazione che né il medico né il paziente desiderano o sollecitano, mi è sempre apparso come la prova più inconfutabile che le forze motrici della nevrosi derivano dalla vita sessuale. L’argomento è ancora lungi dall’essere apprezzato con la dovuta serietà, poiché, se lo fosse, alle indagini in questo campo non rimarrebbe aperta che un’unica strada. Esso è comunque rimasto decisivo per i miei convincimenti, accanto e al di là dei risultati specifici del lavoro analitico.

Una consolazione per la cattiva accoglienza che la mia tesi dell’etiologia sessuale delle nevrosi aveva trovato anche in seno alla più ristretta cerchia di amici – non tardò infatti a formarsi un vuoto intorno alla mia persona – stava tuttavia nella certezza che mi battevo per un’idea nuova e originale. Un giorno però mi si presentarono simultaneamente alcuni ricordi che turbarono questa soddisfazione, consentendomi in cambio un’illuminante incursione nei processi dell’attività creativa e nella natura dell’umano sapere. L’idea di cui mi si addossava la responsabilità non era nient’affatto nata in me. Essa mi era stata prospettata da tre persone la cui opinione poteva contare sul mio rispetto più profondo: da Breuer stesso, da Charcot, e dal ginecologo della nostra università, Chrobak, forse il più eminente dei nostri medici viennesi.502 Questi tre uomini mi avevano suggerito un’idea che, a stretto rigore, essi stessi non possedevano. Due di essi rinnegarono il loro contributo quando più tardi glielo rammentai; il terzo (il grande maestro Charcot) avrebbe probabilmente fatto lo stesso, se mi fosse stato concesso di rivederlo. Comunque queste tre identiche opinioni che io avevo ascoltato senza comprenderle, avevano sonnecchiato in me per anni, fino al giorno in cui si ridestarono come conoscenza apparentemente originale.503

Mentre un giorno, giovane medico ospedaliero, accompagnavo Breuer in una passeggiata per la città, gli si avvicinò un uomo che aveva urgenza di parlargli. Io rimasi indietro, e quando Breuer fu di nuovo libero m’informò, col suo fare amichevolmente didattico, che si trattava del marito di una sua paziente, il quale era venuto a portargli un’informazione su di lei. La donna, aggiunse, si comportava in società in modo talmente strano che gli era stata affidata affinché egli ne iniziasse il trattamento come caso nervoso. In fin dei conti, concluse, si tratta sempre di segreti d’alcova. Chiesi sorpreso cosa intendesse dire: mi spiegò il termine “alcova” (letto coniugale) perché non capiva come la cosa potesse essermi apparsa tanto inaudita.

Alcuni anni dopo, durante una delle serate in cui Charcot riceveva, mi trovai accanto al venerato maestro, proprio nel momento in cui egli stava raccontando a Brouardel504 una storia molto interessante tratta dalla sua pratica del giorno. Non udii bene l’inizio, ma gradualmente il racconto avvinse la mia attenzione. Una giovane coppia di sposi del lontano Oriente, lei molto sofferente, l’uomo impotente o assai poco abile. “Tâchez donc, – sentii ripetere Charcot, – je vous assure, vous y arriverez” [Su, provate, vi assicuro che ci riuscirete]. Brouardel, che parlava a voce meno alta, deve poi aver espresso la propria meraviglia che in tali circostanze si presentassero sintomi come quelli della donna in questione, perché improvvisamente Charcot esclamò con grande animazione: “Mais dans des cas pareils c’est toujours la chose génitale, toujours... toujours... toujours” [Ma in casi simili si tratta sempre di genitali, sempre... sempre... sempre]. E ciò dicendo incrociò le mani sul ventre saltellando varie volte su e giù con la vivacità che gli era propria. So che per un attimo caddi in preda a uno stupore quasi paralizzante dicendo a me stesso: “Ma se lo sa, perché non lo dice mai?” Ma presto l’impressione fu dimenticata; tutto il mio interesse fu assorbito dall’anatomia cerebrale e dalla riproduzione sperimentale di paralisi isteriche.

Un anno dopo iniziavo a Vienna la mia attività medica come docente di neuropatologia, e per tutto quanto concerneva l’etiologia delle nevrosi ero rimasto innocente e ignorante come solo da un promettente giovane accademico è lecito attendersi; un bel giorno mi giunse un gentile invito di Chrobak a prendere in cura una sua paziente, alla quale, data la sua nuova posizione di professore universitario, non poteva dedicare tempo sufficiente. Giunsi prima di lui dalla malata, e appresi che soffriva di incomprensibili attacchi d’angoscia, che potevano essere alleviati solo se le si fornivano precise informazioni sul luogo in cui si trovava il suo medico in ogni momento della giornata. Quando giunse Chrobak mi prese in disparte, e mi rivelò che l’angoscia della paziente dipendeva dal fatto che nonostante fosse sposata da diciotto anni, era ancora virgo intacta. Il marito era assolutamente impotente. Al medico, in questi casi, egli diceva, non resta altro che far scudo con la propria reputazione all’avversa sorte familiare e tollerare che, stringendosi nelle spalle, la gente dica di lui: “Un altro incapace, se durante tutti questi anni non l’ha rimessa a posto.” L’unica ricetta contro tali sofferenze, egli aggiunse, ci è ben nota, ma non possiamo prescriverla. Essa è la seguente:

Recipe.

Penis normalis
dosim
repetatur!

Di una simile ricetta non avevo mai sentito parlare, e mi veniva da scuotere il capo per il cinismo del mio benefattore.

Ho svelato l’illustre origine dell’idea scellerata non certo perché voglio rovesciarne la responsabilità su altri. So bene che altro è enunciare un’idea una o più volte sotto forma di fugace aperçu, altro è considerarla seriamente, prenderla alla lettera, portarla avanti nonostante una gran quantità di elementi particolari la contraddicano, e conquistarle la sua posizione tra le verità riconosciute. È la stessa differenza che esiste tra un lieve flirt e un matrimonio legittimo, con tutti i suoi doveri e le sue difficoltà. Épouser les idées de... [Sposare le idee di...] è espressione di uso corrente, almeno in francese.

Tra gli altri fattori che grazie al mio lavoro si aggiunsero al procedimento catartico trasformandolo nella psicoanalisi, mi preme sottolineare la teoria della rimozione e della resistenza, l’introduzione della sessualità infantile, e l’interpretazione e l’uso dei sogni al fine della conoscenza dell’inconscio.

Sono certo di aver elaborato autonomamente la teoria della rimozione; non so di alcuna fonte che mi abbia influenzato e avvicinato ad essa, e per lungo tempo ho ritenuto che si trattasse di una concezione originale fino a quando Rank ha segnalato il passo del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer ove il filosofo tenta una spiegazione della follia.505 Ciò che là è detto circa la riluttanza ad accettare ciò che della realtà risulta penoso, coincide così perfettamente con il contenuto del mio concetto di rimozione, che ancora una volta ho potuto ringraziare le lacune della mia cultura che mi avevano permesso di fare una scoperta. Altri, infatti, hanno letto quel brano senza soffermarvisi, senza fare questa scoperta, e forse lo stesso sarebbe capitato a me se negli anni giovanili avessi trovato più gusto nella lettura di autori filosofici. Più tardi mi sono interdetto l’alto godimento delle opere di Nietzsche con il deliberato obiettivo di non essere ostacolato da nessun tipo di rappresentazione anticipatoria nella mia elaborazione delle impressioni psicoanalitiche. In compenso dovevo esser disposto – e lo sono di buon grado – a rinunciare ad ogni pretesa di priorità in quei casi – e non sono rari – in cui la faticosa indagine psicoanalitica non può far altro che confermare le nozioni intuitivamente acquisite dai filosofi.506

La teoria della rimozione è dunque il pilastro su cui poggia l’edificio della psicoanalisi. Essa costituisce l’elemento più essenziale della psicoanalisi e non è altro che l’espressione teorica di un’esperienza ripetibile a volontà se si procede all’analisi di un nevrotico senza l’ausilio dell’ipnosi. Accade in questo caso di avvertire una resistenza che si oppone al lavoro analitico e adduce a pretesto un venir meno della memoria al fine di renderlo vano. L’applicazione dell’ipnosi cela necessariamente questa resistenza; perciò la storia della psicoanalisi vera e propria ha inizio soltanto con l’innovazione tecnica della rinuncia all’ipnosi. La valutazione teorica del fatto che questa resistenza coincide con un’amnesia conduce poi inevitabilmente a quella concezione dell’attività psichica inconscia che è propria della psicoanalisi, e che in ogni modo si distingue notevolmente dalle speculazioni filosofiche sull’inconscio. Si può dire quindi che la dottrina psicoanalitica è un tentativo di rendere intelligibili due fatti che si sperimentano in modo sorprendente e inatteso quando ci si sforza di ricondurre i sintomi morbosi di un nevrotico alle loro fonti nell’ambito della sua vita passata: l’esperienza della traslazione e quella della resistenza. Ogni orientamento della ricerca che riconosca questi due fatti e li assuma come punto di partenza per il proprio lavoro ha diritto di chiamarsi psicoanalisi, anche se giunge a risultati diversi dai miei. Chi invece voglia prendere in considerazione altri aspetti del problema e si discosti da queste due ipotesi di fondo, difficilmente – se si ostina a dirsi psicoanalista – si sottrarrà all’accusa di mimetizzarsi per usurpare la proprietà altrui.

Mi ribellerei molto energicamente se qualcuno volesse annoverare la teoria della rimozione e della resistenza tra le premesse anziché tra i risultati della psicoanalisi. Tali premesse di natura genericamente psicologica e biologica esistono e sarebbe opportuno che di esse si trattasse in altra sede; ma la teoria della rimozione è un’acquisizione del lavoro psicoanalitico, ottenuta in maniera legittima come inferenza teorica di un numero indefinitamente grande di esperienze.

Una acquisizione dello stesso genere, solo molto posteriore nel tempo, fu la scoperta della sessualità infantile, della quale nei primi anni dell’indagine analitica, che ancora procedeva per tentativi, non si faceva parola. In un primo tempo ci si accorse soltanto che l’effetto di impressioni attuali doveva essere ricondotto a eventi del passato. Tuttavia il ricercatore trova spesso di più di quanto vorrebbe. Si fu indotti a risalire sempre più addietro in questo passato, e infine si sperò di potersi arrestare alla pubertà, epoca del tradizionale risveglio degli impulsi sessuali. Invano, poiché le tracce conducevano ancora più indietro, all’infanzia e ai primi anni di essa. Durante questo cammino fu necessario superare un errore che per poco non sarebbe divenuto fatale per la giovane scienza. Sotto l’influsso della teoria traumatica dell’isteria che si rifaceva a Charcot, facilmente si tendeva a considerare reali ed etiologicamente significativi i resoconti dei malati, secondo cui i loro sintomi dovevano esser fatti risalire a esperienze sessuali passive subite durante i primi anni dell’infanzia, vale a dire, in parole povere, alla seduzione. Quando questa etiologia crollò per la sua intrinseca inverosimiglianza e perché era in contrasto con circostanze sicuramente accertabili, seguì uno stadio di totale perplessità. L’analisi aveva portato correttamente all’individuazione di tali traumi sessuali infantili, e tuttavia questi non corrispondevano al vero. Si era dunque perduto il terreno della realtà. A quel tempo avrei volentieri rinunciato a portare avanti l’impresa come aveva fatto il mio venerato predecessore Breuer in occasione della sua indesiderata scoperta. Forse perseverai soltanto perché non avevo ormai alcuna possibilità di intraprendere qualcosa di diverso. Alla fine mi convinsi che quando si viene delusi nelle proprie aspettative non si ha diritto di lasciarsi prendere dalla disperazione, e bisogna invece sottoporre a revisione queste aspettative. Se gli isterici riconducono i loro sintomi a traumi inventati, la novità consiste appunto nel fatto che essi creano tali scene nella loro fantasia, e questa realtà psichica pretende di essere presa in considerazione accanto alla realtà effettiva. A questa riflessione seguì ben presto la scoperta che queste fantasie sono destinate a mascherare, abbellire e porre su un piano più alto l’attività autoerotica dei primi anni dell’infanzia; e dietro alle fantasie apparve allora in piena luce la vita sessuale del bambino in tutta la sua estensione.507

In questa attività sessuale dei primi anni dell’infanzia anche alla costituzione congenita veniva finalmente attribuita la parte che le spetta. Disposizione ed esperienza si allacciavano qui in un’inscindibile unità etiologica per due ordini di ragioni: la disposizione innalzava le impressioni a traumi capaci di produrre stimoli e fissazioni – impressioni che altrimenti, essendo del tutto banali, sarebbero rimaste inefficaci –; le esperienze, d’altra parte, ridestavano fattori della disposizione che senza di esse avrebbero sonnecchiato a lungo senza forse svilupparsi mai. L’ultima parola sulla questione dell’etiologia traumatica fu detta più tardi da Abraham, che fece notare come proprio la peculiare costituzione sessuale del bambino abbia la virtù di provocare esperienze sessuali di tipo particolare, cioè i traumi.508

Le mie affermazioni iniziali sulla sessualità infantile si fondavano quasi esclusivamente sui risultati dell’analisi condotta su individui adulti, analisi che si spinge a ritroso verso il loro passato. Mi mancava allora l’opportunità di compiere le mie osservazioni direttamente sui bambini. Fu perciò un trionfo eccezionale quando alcuni anni dopo fu possibile confermare la maggior parte dei miei risultati mediante l’osservazione e l’analisi diretta di bambini in tenera età, trionfo che gradualmente fu sminuito dalla considerazione che la scoperta era tale che in verità ci si sarebbe dovuti vergognare d’averla fatta. Quanto più ci s’inoltrava nell’osservazione del bambino, tanto più ovvi risultarono i fatti in questione, ma tanto più strana altresì la circostanza che ci si fosse presa tanta pena per trascurarli.

Una convinzione così certa dell’esistenza e dell’importanza della sessualità infantile si ottiene invero solo se si procede a ritroso a partire dai sintomi e dalle peculiarità dei nevrotici fino a giungere alle loro fonti ultime, la cui scoperta spiega e modifica ciò che in essi è esplicabile e suscettibile di mutamento. Capisco che si giunga a risultati diversi se, come recentemente ha fatto C. G. Jung, ci si forma prima una rappresentazione teorica della natura della pulsione sessuale, e, a partire da questa, si vuole poi comprendere la vita del bambino. Tale rappresentazione non può essere scelta se non in modo arbitrario o in base a considerazioni marginali, e corre il rischio di divenire inadeguata al campo cui si intende applicarla. Certo anche la via analitica conduce alla fin fine ad alcune difficoltà e oscurità relative alla sessualità e al suo rapporto con la vita dell’individuo nel suo complesso; ma questi problemi non si possono eliminare mediante speculazioni; essi sono destinati a sussistere finché osservazioni di altra natura o compiute in ambiti diversi non li risolvono.

Circa l’interpretazione dei sogni mi bastano poche parole. Essa mi si presentò come primo frutto dell’innovazione tecnica che avevo adottato dopo essermi risolto, sulle tracce di un oscuro presentimento, a sostituire l’ipnosi con le associazioni libere. La mia brama di sapere non era volta fin dall’inizio all’intelligenza dei sogni. Non conosco influssi che abbiano guidato il mio interesse o che mi abbiano fornito una soccorrevole aspettativa. Prima che i miei rapporti con Breuer si interrompessero non ebbi praticamente il tempo di informarlo, sia pure con una frase soltanto, di essere ormai in grado di tradurre i sogni. Come conseguenza di questo modo in cui avvenne la scoperta il simbolismo del linguaggio onirico fu più o meno l’ultimo aspetto che del sogno mi divenne accessibile, dal momento che le associazioni del sognatore poco contribuiscono alla conoscenza dei simboli. Poiché avevo conservato l’abitudine di studiare le cose prima di consultare i libri, potei impadronirmi del simbolismo del sogno prima che mi capitasse sottocchio la pubblicazione di Scherner.509 Soltanto più tardi ho apprezzato in tutta la sua portata questo mezzo di espressione del sogno, grazie anche all’influsso dei lavori di Wilhelm Stekel, autore che ha esordito in modo altamente meritorio, ma che in seguito è andato completamente fuori strada.510 La stretta connessione fra l’interpretazione psicoanalitica dei sogni e l’antica arte, un tempo tenuta in gran pregio, d’interpretare i sogni mi si palesò soltanto molti anni dopo. Ritrovai la parte più peculiare e significativa della mia teoria del sogno, quella che riconduce la deformazione onirica a un conflitto interno, a una sorta d’insincerità interiore, in un autore al quale era sì rimasta estranea la medicina ma non la filosofia, il famoso ingegnere J. Popper, che sotto il nome di Lynkeus aveva pubblicato nel 1899 le Phantasien eines Realisten.511

L’interpretazione dei sogni divenne per me consolazione e punto di riferimento durante quei primi difficili anni dell’analisi, quando contemporaneamente dovevo venire a capo della tecnica, dei fenomeni clinici e della terapia delle nevrosi, quando mi trovavo del tutto isolato e spesso temevo di perdere nell’intrico dei problemi e nell’accumularsi delle difficoltà l’orientamento e la fiducia. La verifica della mia ipotesi secondo cui una nevrosi deve diventare intelligibile attraverso l’analisi spesso si faceva attendere nei malati per un periodo di lunghezza sconcertante; nei loro sogni invece, che si lasciavano intendere come fenomeni analoghi ai loro sintomi, questa ipotesi veniva confermata quasi invariabilmente.

Solo questi successi mi permisero di perseverare. Mi sono perciò abituato a misurare l’intelligenza di un praticante psicologo in base al suo atteggiamento nei confronti dei problemi dell’interpretazione dei sogni, e mi sono compiaciuto di osservare che la maggior parte degli avversari della psicoanalisi evitavano addirittura d’inoltrarsi su questo terreno o si comportavano con grande goffaggine quando ci si provavano. Ho compiuto la mia autoanalisi, la cui necessità non tardò a svelarmisi, con l’aiuto di una serie di sogni che mi avevano accompagnato attraverso tutte le vicissitudini degli anni della mia infanzia, e ancor oggi sono dell’opinione che per un buon sognatore e per persone non troppo anormali questa specie di analisi possa bastare.512

Svolgendo la storia dello sviluppo della psicoanalisi ritengo di aver mostrato, meglio che con una descrizione sistematica, che cosa sia la psicoanalisi stessa. Non riconobbi in un primo tempo la particolare natura delle mie scoperte. Sacrificai senza esitare la mia incipiente popolarità di medico e l’affluenza dei nevrotici al mio ambulatorio perché mi ero messo a indagare sistematicamente sugli elementi sessuali che avevano causato le loro nevrosi, cosa che mi permise di fare una serie di esperienze che consolidarono definitivamente la mia convinzione circa l’importanza pratica del fattore sessuale. Ignaro mi presentai alla Società viennese di psichiatria e neurologia, a quel tempo presieduta da von Krafft-Ebing, come un oratore che si attende di venir ricompensato con l’interessamento e il riconoscimento dei colleghi per i danni materiali che si è deliberatamente procurato.513 Consideravo le mie scoperte alla stregua di ordinari contributi alla scienza e speravo che gli altri le accogliessero come tali. Il silenzio che si levò dopo le mie comunicazioni, il vuoto che si creò intorno alla mia persona, le allusioni che mi furono indirizzate mi fecero comprendere a poco a poco che le asserzioni sulla funzione della sessualità nell’etiologia delle nevrosi non potevano contare sulla stessa accoglienza che viene riservata a contributi scientifici di altro genere. Compresi che d’ora innanzi avrei fatto parte di quelli che “hanno scosso il sonno del mondo”, secondo l’espressione di Hebbel,514 e che non mi era concesso far conto né sull’obiettività né sull’indulgenza. Ma poiché andava rafforzandosi la mia convinzione sull’esattezza di massima delle mie osservazioni e conclusioni, e siccome la fiducia nel mio giudizio e il mio coraggio morale erano tutt’altro che scarsi, l’esito di questa situazione non poteva esser dubbio. Mi decisi a credere che mi era toccata la fortuna di scoprire alcuni fatti e connessioni di particolare importanza, e mi trovai pronto ad assumermi il destino che talvolta è connesso con tali scoperte.

Questo destino me lo immaginavo nel modo seguente: sarei probabilmente riuscito a provvedere a me stesso grazie ai successi terapeutici del nuovo trattamento, ma fin quando fossi stato in vita la scienza non si sarebbe accorta di me. Alcuni decenni dopo un altro si sarebbe immancabilmente imbattuto nelle medesime cose per le quali i tempi non sono attualmente maturi, sarebbe riuscito a ottenere il giusto riconoscimento per averle scoperte e mi avrebbe così dato la gloria che spetta ai precursori inevitabilmente avversati dalla sorte. Nel frattempo, come Robinson, m’installai sulla mia isola solitaria nella maniera più confortevole possibile. Se, dalle tribolazioni e dagli assilli del presente, mi volto a guardare quegli anni di solitudine, quello mi appare un tempo bello ed eroico; lo “splendido isolamento”515 non mancava di vantaggi e di attrattive. Non ero costretto a leggere pubblicazioni, né ad ascoltare oppositori malinformati, non ero sottoposto ad alcun influsso, non subivo alcuna pressione. Imparai a domare le inclinazioni speculative e, seguendo il consiglio indimenticabile del mio maestro Charcot, a guardare e riguardare le stesse cose fino a che non cominciavano a parlare da sé.516 Le mie pubblicazioni, che con una certa fatica riuscii a collocare, potevano rimanere molto indietro rispetto al mio sapere, potevano venire rimandate a piacere, dal momento che non vi era nessuna controversa “priorità” da difendere. L’Interpretazione dei sogni, ad esempio, essenzialmente già pronta all’inizio del 1896,517 fu stesa soltanto nell’estate del 1899. Il trattamento di “Dora” fu concluso alla fine del 1899518 e la storia della sua malattia fu fissata nel corso dei quindici giorni seguenti; ma la sua pubblicazione avvenne soltanto nel 1905. Nel frattempo i miei scritti non venivano recensiti nelle riviste specializzate o, se in via eccezionale ciò accadeva, erano respinti con derisoria o compassionevole superiorità. All’occasione qualche collega non mancava di indirizzarmi, in una delle sue pubblicazioni, un’osservazione assai breve e non troppo lusinghiera, come ad esempio: cocciuto, estremista, molto strano. Avvenne una volta che un assistente della clinica di Vienna, presso la quale tenevo il mio corso semestrale, mi chiese il permesso di assistervi. Ascoltò con attenzione senza mai intervenire; ma dopo l’ultima lezione si offrì di accompagnarmi fuori. Durante questa passeggiata mi rivelò che, d’accordo col suo capo, egli aveva scritto un libro contro la mia teoria, ma che deplorava molto di averne approfondito la conoscenza soltanto grazie alle mie lezioni, poiché altrimenti si sarebbe espresso diversamente a proposito di molte cose. Invero egli si era informato presso la clinica se prima non dovesse leggere l’Interpretazione dei sogni, ma gliel’avevano sconsigliato, dicendo che non ne valeva la pena. Egli stesso paragonò poi l’edificio della mia teoria, così come ora l’aveva intesa, per la solidità della sua compagine interna, con la Chiesa cattolica. Poiché mi sta a cuore la salvezza della mia anima voglio supporre che in questa dichiarazione fosse implicito un certo apprezzamento. Concluse però che era troppo tardi per rivedere il suo libro, perché ormai era già stampato. Il collega in questione non ha in seguito ritenuto necessario informare minimamente il suo prossimo di aver mutato opinione riguardo alla mia psicoanalisi; ha preferito anzi, in qualità di recensore abituale di una rivista medica, seguirne lo sviluppo con noterelle facete.519

Quel tanto che avevo di suscettibilità personale fu in quegli anni smussata a mio vantaggio. Fui risparmiato però dall’amareggiamento grazie a una circostanza che non soccorre tutti gli inventori solitari. Costoro infatti si torturano abitualmente nella ricerca delle ragioni del disinteresse o del rifiuto dei loro contemporanei, atteggiamenti che essi avvertono penosamente in contrasto con la certezza delle proprie convinzioni. Ciò mi fu risparmiato, perché la dottrina psicoanalitica mi permetteva di comprendere questo comportamento del mio prossimo come conseguenza necessaria delle fondamentali ipotesi analitiche. Se era vero che le situazioni da me svelate sono tenute lontane dalla coscienza dei malati da resistenze interne di tipo affettivo, era inevitabile che queste resistenze si instaurassero anche nelle persone sane non appena, grazie a un intervento esterno, esse venivano poste a confronto con il materiale rimosso. Che esse sapessero giustificare il rifiuto affettivo con motivazioni intellettuali non era sorprendente. Con la stessa frequenza ciò accadeva ai malati, e gli argomenti addotti (gli argomenti sono comuni come le more, per parlare con Falstaff)520 erano gli stessi e non proprio dei più sagaci. La differenza stava solo nel fatto che per i malati disponevamo di mezzi di pressione perché si avvedessero delle loro resistenze e le superassero, mentre per i sedicenti sani eravamo privi di tale ausilio. In qual modo si potessero indurre questi sani a riesaminare freddamente e con obiettività scientifica tutta la questione, era un problema aperto, per la cui soluzione la cosa migliore era dare tempo al tempo. Nella storia della scienza si era potuta fare spesso la seguente costatazione: la stessa asserzione che in un primo tempo non aveva provocato che contestazioni, successivamente era stata accolta senza bisogno di nuove prove in suo favore.

Tuttavia nessuno potrà attendersi che in quegli anni, in cui ero l’unico rappresentante della psicoanalisi, si sia sviluppato in me un particolare rispetto per il giudizio del mondo o una qualche propensione alla remissività intellettuale.

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