Capitolo 11
Aggiunte

Nel corso di queste discussioni sono stati sfiorati diversi temi che abbiamo dovuto accantonare prematuramente. Essi devono ora essere riuniti insieme per ricevere quella parte di attenzione alla quale hanno diritto.

A. MODIFICAZIONI DI VEDUTE GIÀ ESPOSTE

a. Resistenza e controinvestimento

In base a una parte importante della teoria della rimozione sappiamo che quest’ultima non è un processo che si effettua una volta per tutte, giacché anzi richiede un dispendio permanente [di energia]. Se questo venisse a mancare, la pulsione rimossa, la quale è continuamente alimentata dalle proprie fonti, si aprirebbe di nuovo la stessa via dalla quale è stata respinta a forza, e la rimozione andrebbe incontro a un insuccesso, oppure dovrebbe essere ripetuta un numero indefinito di volte.347 Così, dalla natura continuativa della pulsione, proviene la richiesta fatta all’Io di assicurare la sua azione di difesa mediante un dispendio permanente [di energia]. Questa azione a difesa della rimozione è ciò che nei nostri sforzi terapeutici avvertiamo come resistenza. E la resistenza presuppone ciò che io ho indicato come controinvestimento. Un tale controinvestimento può essere costatato con tutta evidenza nella nevrosi ossessiva, nella quale si manifesta sotto forma di alterazione dell’Io, di formazione reattiva nell’Io, di rafforzamento di quell’atteggiamento che si oppone alla tendenza pulsionale da rimuovere (compassione, scrupolosità, pulizia). Tutte queste formazioni reattive della nevrosi ossessiva sono esagerazioni di tratti di carattere normali, sviluppatisi durante l’epoca di latenza. È molto più difficile dimostrare il controinvestimento nell’isteria, dove pure, in base alle aspettative teoriche, esso è altrettanto indispensabile. Anche qui non si può non riconoscere una certa alterazione dell’Io determinata da formazioni reattive, e anzi in alcune circostanze questo fenomeno è talmente vistoso da imporsi all’attenzione come il sintomo principale della malattia. In tal maniera viene risolto, per esempio, il conflitto d’ambivalenza nell’isteria: l’odio contro una persona amata viene tenuto a bada con un eccesso di tenerezza e di apprensione per essa. Va notato, tuttavia, che a differenza della nevrosi ossessiva queste formazioni reattive non mostrano la natura generale dei tratti di carattere, rimanendo confinate ad alcuni particolari tipi di relazioni. L’isterica, per esempio, la quale tratta con eccessiva tenerezza i suoi bambini che in fondo odia, non diventa per ciò in generale più disposta ad amare di altre donne, e neppure più tenera nei confronti di altri bambini. La formazione reattiva dell’isteria si attiene saldamente a un determinato oggetto, e non assurge a disposizione generale dell’Io. Per la nevrosi ossessiva proprio questa generalizzazione, l’allentarsi delle relazioni oggettuali e la facilità con cui si sposta la scelta oggettuale sono invece segni caratteristici.

Un’altra specie di controinvestimento sembra essere più commisurata alla qualità particolare dell’isteria. Il moto pulsionale rimosso può essere attivato (reinvestito) da due parti: anzitutto dall’interno, mediante il rafforzarsi della pulsione ad opera delle sue fonti interne di eccitamento, e, in secondo luogo, dall’esterno, mediante la percezione di un oggetto desiderato dalla pulsione stessa. Il controinvestimento isterico è rivolto di preferenza verso l’esterno contro una percezione pericolosa, prende la forma di una speciale vigilanza che evita, per mezzo di restrizioni dell’Io, situazioni nelle quali tale percezione dovrebbe aver luogo, e ottiene di sottrarre l’attenzione alla percezione qualora questa emerga malgrado tutto. Autori francesi (Laforgue)348 hanno recentemente indicato questa prestazione tipica dell’isteria col termine speciale di “scotomizzazione”.349 Questa tecnica di controinvestimento è, più ancora che nell’isteria, appariscente nelle fobie, il cui interesse è concentrato sull’allontanarsi sempre più dalla possibilità della percezione temuta. Il contrasto, nella direzione del controinvestimento, tra isteria e fobie da un lato, e nevrosi ossessiva dall’altro, sembra significativo, anche se non è assoluto. Esso ci induce a supporre che tra la rimozione e il controinvestimento esterno, come tra la regressione e il controinvestimento interno (alterazione dell’Io determinata da formazione reattiva) vi sia una connessione più intima. La difesa dalla percezione pericolosa è d’altronde un compito generale delle nevrosi. Diversi comandi e divieti della nevrosi ossessiva debbono servire allo stesso scopo.

Già in passato abbiamo detto una volta350 che la resistenza, che siamo chiamati a superare nell’analisi, è opera dell’Io, il quale si attiene ai suoi controinvestimenti. L’Io trova difficile rivolgere la propria attenzione a percezioni e rappresentazioni che si è prescritto sin qui di evitare; o riconoscere come a lui pertinenti impulsi che rappresentano esattamente l’opposto di quelli che gli sono familiari come cosa sua. La nostra lotta contro la resistenza nell’analisi si basa su questa concezione. Noi rendiamo cosciente la resistenza se essa, come accade sovente, è inconscia in conseguenza della connessione con il rimosso; le opponiamo argomentazioni logiche quando o dopo che è diventata cosciente; promettiamo all’Io vantaggi e premi se rinunzia alla resistenza. Sulla resistenza dell’Io non v’è dunque nulla da dubitare né da rettificare. Per contro ci si domanda se essa sola esaurisca la condizione di fatto di fronte alla quale ci troviamo nell’analisi. Sappiamo per esperienza che l’Io ha delle difficoltà nel rendere reversibili le rimozioni anche dopo aver fatto il progetto di abbandonare le sue resistenze, e la fase di strenui sforzi che segue a tale lodevole intento l’abbiamo chiamata fase di “rielaborazione”.351 Non è difficile a questo punto riconoscere il fattore dinamico che rende necessaria e comprensibile una tale rielaborazione. E non può essere che così dato che, una volta abolita la resistenza dell’Io, resta da superare la forza della coazione a ripetere, cioè l’attrazione dei modelli inconsci sul processo pulsionale rimosso, e non vi è nulla da obiettare se si vuole indicare questo fattore come resistenza dell’inconscio. Che queste rettifiche non ci disturbino; se promuovono di un tantino la nostra intelligenza dei fatti esse sono le benvenute; e non c’è da vergognarsi se arricchiscono, senza confutarla, la nostra visione precedente, magari limitando una generalizzazione o ampliando una concezione troppo ristretta.

Non è da credere che con queste rettifiche noi abbiamo ottenuto una completa veduta d’insieme sulla specie di resistenze in cui ci si imbatte nell’analisi. Approfondendo ulteriormente l’indagine osserviamo anzi che abbiamo da lottare contro cinque tipi di resistenze, che provengono da tre parti, e cioè dall’Io, dall’Es e dal Super-io, laddove l’Io risulta esser la fonte di tre di queste forme, diverse nella loro dinamica. La prima di queste tre resistenze dell’Io è la resistenza di rimozione trattata poc’anzi [vedi cap. 11, par. A, sottopar. a, in OSF, vol. 10], e sulla quale vi è pochissimo di nuovo da dire. Da essa si distingue la resistenza di traslazione, che è della stessa natura, ma che nell’analisi si manifesta in modo diverso e molto più perspicuo, dato che essa è riuscita a stabilire una relazione con la situazione analitica o con la persona dell’analista, e ha perciò potuto ravvivare in un certo senso ex novo una rimozione che doveva invece essere semplicemente ricordata.352 Ancora una resistenza dell’Io, di tutt’altra natura però, è quella che proviene dal tornaconto della malattia, e che si fonda sull’inclusione del sintomo nell’Io [vedi cap. 3, in OSF, vol. 10]. Essa corrisponde alla lotta che l’Io conduce contro la rinunzia a un soddisfacimento o a una facilitazione. La quarta specie di resistenza – quella dell’Es – l’abbiamo attribuita or ora alla necessità della rielaborazione. La quinta resistenza, quella del Super-io, la cui esistenza è stata riconosciuta per ultima, è la più oscura anche se non sempre la più debole; sembra che scaturisca dal sentimento di colpa o dal bisogno di punizione; questa resistenza ostacola qualsiasi successo, e perciò anche la guarigione attraverso l’analisi.353

b. Angoscia da trasformazione di libido

La concezione dell’angoscia proposta in questo saggio si allontana alquanto da quella che mi era sembrata giusta sinora. Prima io consideravo l’angoscia come una reazione generale dell’Io nelle condizioni del dispiacere, cercavo ogni volta di giustificarne la comparsa dal punto di vista economico354 e ritenevo, appoggiandomi sull’indagine delle nevrosi attuali, che la libido (eccitamento sessuale) ripudiata dall’Io o non utilizzata, trovasse una scarica diretta nella forma dell’angoscia. Non si può trascurare il fatto che queste diverse asserzioni non si accordano bene tra loro, o che quantomeno non derivano necessariamente una dall’altra. Inoltre sembrava che esistesse una relazione particolarmente intima tra angoscia e libido, relazione che ancora una volta non si armonizzava col carattere generale dell’angoscia come reazione di dispiacere.

L’obiezione a questo modo di vedere nacque dalla nostra tendenza a fare dell’Io l’unica sede dell’angoscia; essa fu dunque una delle conseguenze della scomposizione dell’apparato psichico da me tentata in L’Io e l’Es. In base alla concezione precedente, veniva spontaneo considerare la libido del moto pulsionale rimosso come la fonte dell’angoscia; in base alla nuova concezione una parte molto maggiore in questa angoscia doveva averla l’Io. Quindi: angoscia dell’Io o angoscia della pulsione (dell’Es). Poiché l’Io lavora con energia desessualizzata, nella nuova concezione anche il nesso fra angoscia e libido non fu più così intimo. Spero di esser riuscito almeno a definire con chiarezza i termini della contraddizione, e a tracciare con precisione i lineamenti delle questioni controverse.

La tesi di Rank, che all’inizio era anche la mia,355 secondo la quale l’affetto d’angoscia è una conseguenza del processo della nascita e una ripetizione della situazione vissuta allora, rese necessario un riesame del problema dell’angoscia. Con la concezione rankiana della nascita come trauma, della condizione angosciosa come reazione di scarica ad esso, e di ogni nuovo affetto d’angoscia come tentativo di “abreagire” il trauma in modo sempre più completo, non ho certo fatto grandi passi avanti. Divenne necessario risalire dalla reazione d’angoscia alla situazione di pericolo che le stava dietro. Con l’introduzione di questo fattore la trattazione si arricchì di nuovi punti di vista. La nascita diventò il modello di tutte le successive situazioni di pericolo, subentranti nelle nuove condizioni della mutata forma d’esistenza e della progressiva evoluzione psichica. Il suo significato specifico fu però anche limitato a questa relazione esemplare con il pericolo. L’angoscia provata alla nascita divenne ora il modello di uno stato affettivo che doveva condividere il destino di altri affetti. Esso si riproduceva o automaticamente in situazioni analoghe alla sua situazione d’origine, come forma di reazione inappropriata, dopo essere stato appropriato nella prima situazione di pericolo; oppure l’Io otteneva potere su questo affetto e lo riproduceva esso stesso, servendosene come segnale del pericolo e come mezzo per suscitare l’intervento del meccanismo piacere-dispiacere. L’aspetto biologico dell’affetto d’angoscia ottenne il riconoscimento che meritava giacché fu individuata nell’angoscia la reazione generale alla situazione di pericolo; la parte spettante all’Io come sede dell’angoscia fu confermata, essendo stata assegnata all’Io la funzione di produrre l’affetto d’angoscia secondo i suoi bisogni. All’angoscia, nella vita ulteriore, furono così attribuiti due “modi di origine”: uno involontario, automatico, sempre giustificato dal punto di vista economico, e occorrente ogniqualvolta si fosse riprodotta una situazione di pericolo analoga a quella della nascita; l’altro, per il quale bastava la minaccia incombente di una situazione simile, perché l’Io producesse angoscia al fine, appunto, di evitare quella situazione. In questo secondo caso l’Io si sottoponeva all’angoscia come a una specie di vaccino, per sottrarsi, mediante una lieve manifestazione morbosa, a un attacco patologico non attenuato. L’Io si rappresentava in certo qual modo vivacemente la situazione di pericolo, tendendo innegabilmente a limitare quest’esperienza penosa a un’allusione, a un segnale. Come accada che le diverse situazioni di pericolo si sviluppino l’una dopo l’altra pur rimanendo geneticamente legate è già stato esposto dettagliatamente [vedi il cap. 8, in OSF, vol. 10]. Forse riusciremo a fare un altro passo avanti nella comprensione dell’angoscia se affronteremo il problema del rapporto fra angoscia nevrotica e angoscia reale [vedi il cap. 11, par. B, in OSF, vol. 10].

La nostra precedente ipotesi di una trasformazione diretta della libido in angoscia è diventata ai nostri occhi meno interessante. Se la prendiamo in esame lo stesso, dobbiamo però distinguere fra diversi casi. Essa non entra in considerazione per l’angoscia che l’Io provoca come segnale; e neppure in tutte le situazioni di pericolo che muovono l’Io a introdurre una rimozione. L’investimento libidico del moto pulsionale rimosso esperimenta – come si vede nel modo più chiaro nell’isteria di conversione – una utilizzazione diversa dalla trasformazione in angoscia e dalla scarica come tale. D’altro canto, nell’ulteriore discussione della situazione di pericolo, incontreremo un caso di sviluppo d’angoscia che verosimilmente dev’essere giudicato in maniera diversa [ibid.].

c. Rimozione e difesa

In rapporto con le discussioni sul problema dell’angoscia ho ripreso un concetto – o più modestamente, un termine – del quale mi ero servito esclusivamente trent’anni fa, all’inizio dei miei studi, e che poi avevo lasciato cadere. Intendo il termine “processo di difesa”.356 Lo sostituii in seguito col termine “rimozione”, ma il rapporto tra i due rimase indeterminato. Adesso sono del parere che ritornare al vecchio concetto di difesa presenti un sicuro vantaggio a patto che si stabilisca che esso dev’essere la designazione generale per tutte le tecniche di cui l’Io si avvale nei suoi conflitti che possono eventualmente sfociare nella nevrosi; mentre “rimozione” rimane il nome di uno speciale fra questi metodi di difesa, che abbiamo conosciuto in un primo tempo meglio degli altri in conseguenza della direzione presa dalle nostre ricerche.

Anche una semplice innovazione terminologica è giustificata qualora sia l’espressione di un nuovo modo di trattare un argomento, o possa dar luogo a un ampliamento delle nostre vedute. La riassunzione del concetto di difesa e la restrizione del concetto di rimozione tengono conto di un dato di fatto, che pur essendo noto da tempo, ha però acquistato in significato grazie ad alcune nuove scoperte. Le nostre prime esperienze sulla rimozione e sulla formazione sintomatica furono fatte in relazione all’isteria; vedemmo che il contenuto percettivo di esperienze eccitanti, e il contenuto rappresentativo di formazioni ideative patogene vengono dimenticati ed esclusi dalla riproduzione nella memoria; abbiamo riconosciuto perciò nell’allontanamento dalla coscienza una caratteristica principale della rimozione isterica. In seguito abbiamo studiato la nevrosi ossessiva, e abbiamo trovato che in questa affezione gli eventi patogeni non vengono dimenticati. Essi rimangono coscienti, ma vengono – in un modo del quale non riusciamo ancora a farci un’idea precisa – “isolati”, dimodoché vien raggiunto pressappoco lo stesso risultato che si ottiene con l’amnesia isterica. La differenza, tuttavia, è abbastanza grande da giustificare la nostra idea che il processo mediante il quale la nevrosi ossessiva mette da parte una pretesa pulsionale non possa essere lo stesso che si riscontra nell’isteria. Ricerche ulteriori ci hanno insegnato che nella nevrosi ossessiva, sotto l’influsso della lotta in cui l’Io è impegnato, si ottiene una regressione dei moti pulsionali a una fase precedente della libido, regressione che non rende certo superflua una rimozione, ma che agisce palesemente nello stesso senso di questa. Abbiamo visto inoltre che nella nevrosi ossessiva il controinvestimento, di cui possiamo presumere l’esistenza anche nell’isteria, assolve, sotto forma di alterazione reattiva dell’Io, una funzione particolarmente importante nella protezione dell’Io, e abbiamo rivolto la nostra attenzione al processo dell’“isolamento”, che si procura un’espressione sintomatica diretta e del quale non riusciamo ancora a individuare la tecnica; il nostro interesse è stato inoltre attirato dal procedimento – da definirsi magico – del “rendere non avvenuto”, sulla cui tendenza difensiva non possono esservi dubbi, ma che non ha più alcuna somiglianza col processo della “rimozione”. Queste esperienze sono un motivo sufficiente per ripristinare il vecchio concetto di difesa, che può abbracciare tutti questi processi aventi un’uguale tendenza – cioè la protezione dell’Io dalle pretese pulsionali – e per sussumervi la rimozione come un caso particolare. Il significato di una tale denominazione aumenta qualora si consideri la possibilità che un approfondimento dei nostri studi possa dimostrare un’intima connessione tra particolari forme della difesa e determinate affezioni, come, per esempio, tra la rimozione e l’isteria. La nostra aspettativa si dirige inoltre verso la possibilità di un’altra significativa dipendenza. Può facilmente darsi che l’apparato psichico, prima della differenziazione netta tra l’Io e l’Es, prima della formazione di un Super-io, adoperi metodi di difesa diversi da quelli che usa dopo aver raggiunto questi stadi di organizzazione.

B. AGGIUNTA CIRCA L’ANGOSCIA

L’affetto d’angoscia ha alcune caratteristiche il cui studio promette qualche chiarimento ulteriore. L’angoscia [Angst] ha un’innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e dinanzi a qualche cosa. Possiede un carattere di indeterminatezza e di mancanza d’oggetto; nel parlare comune, quando essa ha trovato un oggetto, le si cambia nome, sostituendolo con quello di paura [Furcht].357 L’angoscia, poi, oltre alla relazione col pericolo, ne ha un’altra con la nevrosi, a spiegar la quale noi da tempo ci affatichiamo. Sorge la questione perché le reazioni d’angoscia non siano tutte nevrotiche, perché ne riconosciamo tante come normali; e infine la differenza tra angoscia reale e angoscia nevrotica richiede una valutazione più approfondita.

Cominciamo con l’ultimo compito. Il nostro progresso è consistito nel risalire dalla reazione angosciosa alla situazione di pericolo. Se applichiamo lo stesso metodo al problema dell’angoscia reale, la sua soluzione ci riuscirà facile. Il pericolo reale è un pericolo che conosciamo, l’angoscia reale è angoscia di fronte a questo pericolo. L’angoscia nevrotica è angoscia di fronte a un pericolo che non conosciamo. Il pericolo nevrotico è dunque un pericolo ancora da scoprire; l’analisi ci ha insegnato che esso è un pericolo pulsionale. Portando alla coscienza questo pericolo sconosciuto all’Io, noi annulliamo la differenza tra angoscia reale e angoscia nevrotica, e possiamo trattare quest’ultima alla stessa stregua della prima.

Di fronte al pericolo reale noi sviluppiamo due tipi di reazione: quella affettiva (l’accesso d’angoscia) e l’azione protettiva. È presumibile che nel caso di pericolo pulsionale accada la stessa cosa. Noi conosciamo il caso dell’azione congiunta e adeguata delle due reazioni, per cui una dà il segnale del subentrare dell’altra; ma conosciamo anche il caso inadeguato allo scopo, quello della paralisi da angoscia, in cui una reazione si estende a spese dell’altra.

Vi sono casi in cui i caratteri dell’angoscia reale e dell’angoscia nevrotica appaiono commisti. Il pericolo è conosciuto e reale, ma l’angoscia di fronte ad esso è smisuratamente grande, più grande di come, a nostro giudizio, dovrebbe essere. In questo sovrappiù si tradisce l’elemento nevrotico. Questi casi non introducono però alcun elemento di principio nuovo. L’analisi mostra che al pericolo reale conosciuto si riallaccia un pericolo pulsionale sconosciuto.

Se non ci accontentiamo di aver ricondotto l’angoscia al pericolo riusciamo a procedere di un tratto ancora. Qual è il nucleo, il significato della situazione di pericolo? Chiaramente la valutazione delle nostre forze rapportate all’entità del pericolo, l’ammissione della nostra impotenza di fronte ad esso: impotenza materiale quando si tratta di un pericolo reale, impotenza psichica quando si tratta di un pericolo pulsionale. Il nostro giudizio verrà guidato, al riguardo, da esperienze veramente vissute; se nella sua valutazione esso sbaglia, ciò non conta ai fini del risultato. Chiamiamo traumatica una simile situazione vissuta di impotenza; abbiamo allora un buon motivo per distinguere la situazione traumatica dalla situazione di pericolo.

È ora un progresso importante nella nostra autoconservazione se una tale situazione traumatica d’impotenza non è solo vagamente attesa, ma prevista e aspettata sapendo di che si tratta. La situazione nella quale sono contenuti gli elementi che determinano una simile aspettativa, può chiamarsi la situazione di pericolo, ed è in essa che vien dato il segnale d’angoscia. Ciò significa: io mi aspetto che si verifichi una situazione d’impotenza; oppure: la situazione presente mi ricorda una delle esperienze traumatiche precedentemente vissute. Perciò io anticipo questo trauma e mi comporto come se esso fosse già presente, fintantoché c’è ancora tempo di respingerlo. L’angoscia è dunque da un lato aspettazione del trauma, dall’altro ripetizione attenuata di esso. I due caratteri che ci hanno colpito a proposito dell’angoscia scaturiscono dunque da fonti diverse. La relazione dell’angoscia con l’attesa appartiene alla situazione di pericolo, la sua indeterminatezza e mancanza d’oggetto appartengono alla situazione traumatica d’impotenza, situazione che viene anticipata nella situazione di pericolo.

In base allo svolgimento della serie angoscia-pericolo-impotenza (trauma), possiamo riassumere così l’esposizione precedente: la situazione di pericolo è la situazione riconosciuta, ricordata, attesa, d’impotenza. L’angoscia è la reazione originaria all’impotenza vissuta nel trauma, reazione la quale, in seguito, è riprodotta nella situazione di pericolo come segnale d’allarme. L’Io, che ha vissuto passivamente il trauma, ripete ora attivamente una riproduzione attenuata dello stesso, nella speranza di poterne orientare autonomamente lo sviluppo. Noi sappiamo che il bambino si comporta in questo stesso modo verso tutte le impressioni che gli risultano penose, riproducendole nel gioco; attraverso questo modo di passare dalla passività all’attività egli cerca di padroneggiare psichicamente le impressioni della sua vita.358 Se questo dev’essere il senso di una “abreazione” del trauma, non c’è più nulla da obiettare in merito [vedi cap. 10, in OSF, vol. 10]. Il fattore decisivo rimane comunque il primo spostamento della reazione d’angoscia dalla sua origine nella situazione d’impotenza all’aspettazione di essa, la situazione di pericolo. Seguono quindi gli ulteriori spostamenti, dal pericolo all’elemento che lo determina, la perdita dell’oggetto e le modificazioni di tale perdita già prese in esame.

L’“abituar male” un bambino piccolo ha la conseguenza indesiderata che il pericolo della perdita dell’oggetto – dell’oggetto quale protezione contro tutte le situazioni d’impotenza – viene innalzato al di sopra di tutti gli altri pericoli. Ciò favorisce quindi il rimanere indietro nell’infanzia, età alla quale son proprie tanto l’impotenza motoria quanto quella psichica.

Non abbiamo sinora avuto occasione di considerare l’angoscia reale in modo diverso da quella nevrotica. Ma sappiamo bene qual è la differenza: il pericolo reale minaccia da un oggetto esterno, quello nevrotico da una pretesa pulsionale. Sino al punto in cui questa pretesa pulsionale è qualche cosa di reale, anche l’angoscia nevrotica può essere considerata come fondata sulla realtà. Abbiamo capito che ciò che appare come una relazione particolarmente intima tra angoscia e nevrosi si riconduce al fatto che l’Io si difende con l’aiuto della reazione d’angoscia contro il pericolo pulsionale come contro il pericolo reale esterno, ma che però questo orientamento dell’attività difensiva, in virtù di una imperfezione dell’apparato psichico, sbocca nella nevrosi. Abbiamo anche maturato la convinzione che la pretesa pulsionale spesso diventa un pericolo (interno) per l’unico motivo che il suo soddisfacimento porterebbe con sé un pericolo esterno, e dunque perché questo pericolo interno ne rappresenta uno esterno.

D’altra parte anche il pericolo esterno (reale) deve aver trovato una qualche interiorizzazione se è destinato a diventare significativo per l’Io; dev’essere riconosciuto nella sua relazione con una situazione vissuta d’impotenza.359 Gli uomini non sembrano possedere affatto, o solo in misura assai modesta, una cognizione istintiva del pericolo che minaccia dall’esterno. I bambini piccoli fanno continuamente cose che li mettono in pericolo di vita, e proprio per questo non possono fare a meno dell’oggetto protettore. In rapporto alla situazione traumatica, contro la quale si è completamente indifesi, pericolo esterno e interno, pericolo reale e pretesa pulsionale coincidono. Se l’Io in un caso prova un dolore che non vuole cessare, e in un altro un accumulo di bisogni che non può trovare soddisfacimento, la situazione economica è la stessa in entrambi i casi, e l’impotenza motoria trova espressione nell’impotenza psichica.

Le enigmatiche fobie infantili [vedi cap. 8, in OSF, vol. 10] meritano di essere menzionate ancora una volta. Alcune tra esse – stare solo, oscurità, persone estranee le abbiamo intese come reazione al pericolo della perdita dell’oggetto; per altre – piccoli animali, temporali e simili – si potrebbe forse sostenere che esse siano le pallide vestigia di una preparazione congenita ai pericoli reali così chiaramente sviluppata presso altri animali. Di questa eredità arcaica, è conforme allo scopo, per gli esseri umani, solo quella parte che si riferisce alla perdita oggettuale. Quando queste fobie infantili si fissano, si rafforzano e durano fino a tarda età, l’analisi dimostra che il loro contenuto si è posto in collegamento con pretese pulsionali, divenendo anche il rappresentante di pericoli interni.

C. ANGOSCIA, DOLORE E LUTTO

Della psicologia dei processi emotivi si sa talmente poco che mi sento autorizzato a chiedere per le osservazioni qui di seguito presentate un giudizio il più possibile indulgente. Il problema sorge a proposito del punto seguente: Abbiamo dovuto dire che l’angoscia si verifica come reazione al pericolo della perdita dell’oggetto. Ebbene, noi conosciamo già una reazione alla perdita dell’oggetto: il lutto. Dunque: quando tale perdita conduce all’angoscia, e quando al lutto? Nel lutto, del quale ci siamo già occupati in precedenza,360 un aspetto rimaneva del tutto incompreso: la sua particolare dolorosità [vedi cap. 7, in OSF, vol. 10]. Che la separazione dall’oggetto sia dolorosa, ci appare tuttavia assolutamente ovvio. Quindi il problema si complica ulteriormente. Quand’è che la separazione dall’oggetto genera angoscia, quando lutto e quando, magari, soltanto dolore?

Diciamo subito che al momento presente non abbiamo alcuna prospettiva di riuscire a rispondere a questi interrogativi. Ci limiteremo pertanto ad alcune precisazioni e a qualche vago suggerimento.

Il nostro punto di partenza sarà di nuovo una situazione che crediamo di capire: quella del lattante che scorge una persona estranea in luogo di sua madre. Egli manifesterà l’angoscia che noi abbiamo ricondotto al pericolo della perdita dell’oggetto. Tale angoscia, però, è ben più complicata e merita una discussione più approfondita. Non vi è alcun dubbio circa l’angoscia del poppante, ma l’espressione del suo volto e la reazione del pianto fanno supporre che inoltre egli provi dolore. Sembra che confluisca in lui qualche cosa che poi più tardi verrà separato. Il poppante non può ancora distinguere la mancanza temporanea dalla perdita duratura; se una volta non riceve l’impressione del viso della madre, si comporta come se non dovesse rivederla mai più, e ha bisogno di ripetute esperienze rassicuranti per imparare che a questo sparire della madre suole seguire la sua ricomparsa. La madre perfeziona questa conoscenza, per lui così importante, eseguendo col bambino il gioco ben noto di nascondergli il proprio viso e poi riscoprirlo per farlo felice.361 È così che in un certo senso il bambino impara a provare un anelito non accompagnato da disperazione.

La situazione in cui il bambino avverte la mancanza della madre non è per lui – dato il suo fraintendimento – una situazione di pericolo, ma è invece una situazione traumatica o, più esattamente, è una situazione traumatica se egli in quel momento avverte un bisogno che la madre dovrebbe soddisfare; si trasforma in situazione di pericolo qualora questo bisogno non sia attuale. La prima condizione d’angoscia, che l’Io stesso introduce, è dunque quella della perdita della percezione, che viene uguagliata a quella della perdita dell’oggetto. Una perdita d’amore non entra ancora in considerazione. Più tardi, l’esperienza insegna che l’oggetto, pur rimanendo presente, può esser diventato cattivo per il bambino, e ora la perdita d’amore da parte dell’oggetto diventa un nuovo, molto più durevole pericolo, e una nuova condizione d’angoscia.

La situazione traumatica della mancanza della madre si scosta in un punto decisivo dalla situazione traumatica della nascita. Al momento della nascita non esisteva alcun oggetto, quindi di nessun oggetto poteva essere avvertita la mancanza. L’angoscia era l’unica reazione che aveva luogo. Da allora, ripetute situazioni di soddisfacimento hanno creato l’oggetto madre, che adesso in caso di bisogno riceve un intenso investimento che potremmo chiamare “nostalgico”. La reazione del dolore è da mettere in rapporto con questa nuova situazione. Il dolore è dunque la reazione propria alla perdita dell’oggetto, l’angoscia la reazione al pericolo che tale perdita implica, e, in uno spostamento ulteriore, la reazione al pericolo della perdita dell’oggetto in quanto tale.

Anche del dolore sappiamo pochissimo. L’unico elemento sicuro ci è dato dal fatto che il dolore, anzitutto e di regola, sorge quando uno stimolo che colpisce la periferia riesce a far breccia nello scudo che protegge dagli stimoli e agisce ora come uno stimolo pulsionale assillante, contro il quale le azioni muscolari, che altrimenti sono efficaci in quanto sottraggono allo stimolo il luogo stimolato, non hanno alcun potere.362 Se il dolore, invece di provenire da un punto dell’epidermide, deriva da un organo interno, la situazione non cambia; è solo una parte della periferia interna che è subentrata a quella esterna. Il bambino ha evidentemente occasione di compiere simili esperienze dolorose, le quali sono indipendenti dalle sue esperienze di bisogno. Questa condizione d’insorgenza del dolore sembra avere però ben poca affinità con una perdita oggettuale; anche il fattore, essenziale per il dolore, della stimolazione periferica, manca completamente nella situazione di nostalgica bramosia del bambino. Eppure, se la lingua ha creato il concetto del dolore interno, psichico, e ha decisamente paragonato le sensazioni di perdita d’oggetto al dolore corporeo, ciò non può essere privo di senso.

Nel dolore corporeo si produce un investimento elevato, che possiamo chiamare narcisistico, delle zone dolenti del corpo;363 tale investimento aumenta costantemente e agisce sull’Io in un modo per così dire svuotante.364 È noto che nel caso di dolori in organi interni, noi percepiamo rappresentazioni spaziali e di altro tipo, relative a queste parti del corpo, che di solito non compaiono nel rappresentarsi cosciente. Anche la singolare circostanza che nel caso in cui la psiche sia distratta da un interesse di altra specie, neppure i dolori corporei più intensi vengono avvertiti (non si può dire in questo caso: rimangono inconsci), si spiega con la concentrazione dell’investimento sulla rappresentanza psichica della parte corporea che fa male. Ebbene, l’analogia che ha permesso la trasposizione della sensazione dolorosa nel campo psichico, sembra essere questa. L’intenso e, a causa della sua insaziabilità, sempre crescente investimento nostalgico sull’oggetto mancante (perduto) produce condizioni economiche analoghe a quelle generate dall’investimento doloroso della parte lesa del corpo, e rende possibile prescindere da ciò che alla periferia determina il dolore corporeo! Il passaggio dal dolore fisico al dolore psichico corrisponde alla trasformazione da un investimento narcisistico a un investimento oggettuale. La rappresentazione oggettuale, altamente investita dal bisogno pulsionale, riveste la funzione del luogo del corpo investito dall’aumento degli stimoli. La permanenza del processo d’investimento e l’impossibilità d’inibirlo producono uno stato uguale all’impotenza psichica. Quando la sensazione di dispiacere allora insorgente, anziché esprimersi nella forma reattiva dell’angoscia, ha il carattere specifico, ma non ulteriormente descrivibile, del dolore, viene spontaneo ascrivere questo fenomeno a un fattore utilizzato ancora troppo poco nella spiegazione, e cioè all’alto livello delle situazioni d’investimento e di legamento caratterizzanti questi processi che danno luogo a sensazioni di dispiacere.

Conosciamo ancora un’altra reazione emotiva alla perdita d’oggetto: il lutto. A questo punto la sua spiegazione non presenta più alcuna difficoltà. Il lutto subentra sotto l’influsso dell’esame di realtà, il quale esige categoricamente che ci si debba distaccare dall’oggetto, dato che esso non esiste più.365 Al lutto è affidato il compito di eseguire questa retrocessione dall’oggetto in tutte le situazioni in cui quest’ultimo era stato fatto segno di un elevato investimento. Il carattere doloroso di questa separazione si adatta quindi alla spiegazione già data, essendo un effetto dell’elevato e inappagabile investimento nostalgico dell’oggetto nel mentre si riproducono quelle situazioni in cui il legame con esso ha da esser sciolto.

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