Se ora passiamo in rassegna le persone e le cose, le impressioni, gli eventi e le situazioni capaci di destare in noi con particolare forza e nitidezza il senso del perturbante, la prima cosa da fare è scegliere un esempio calzante. Jentsch ha rilevato come caso particolarmente adatto il “dubbio che un essere apparentemente animato sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato”, e si è richiamato all’impressione provocata da figure di cera, da pupazzi e da automi. Egli annovera in questa categoria il senso perturbante destato dagli attacchi epilettici e dalle manifestazioni di pazzia, in quanto fenomeni che suscitano nello spettatore il sospetto che processi automatici, meccanici, possano celarsi dietro l’immagine consueta degli esseri viventi. Ora, pur senza essere convinti del tutto di questa opinione di Jentsch, vogliamo tuttavia ricollegarci ad essa per la nostra ricerca personale, perché, nel brano che segue, egli richiama la nostra attenzione su un poeta che è riuscito come nessun altro a produrre effetti perturbanti.
“Uno degli espedienti più sicuri per provocare senza difficoltà effetti perturbanti mediante il racconto”, scrive Jentsch, “consiste nel tenere il lettore in uno stato d’incertezza sul fatto che una determinata figura sia una persona o un automa, facendo in modo, però, che questa incertezza non focalizzi l’attenzione del lettore, affinché costui non venga indotto ad analizzare subito la situazione e a chiarirla, perché in tal caso, come abbiamo detto, questo particolare effetto emotivo svanirebbe facilmente. E. T. A. Hoffmann ha effettuato a più riprese con successo questa manovra psicologica nei suoi racconti fantastici.”
Questa osservazione, senza dubbio esatta, si riferisce soprattutto al racconto Il mago sabbiolino,62 che fa parte della raccolta dei Notturni,63 e dal quale la figura della bambola Olimpia è passata nel primo atto dell’opera di Offenbach I racconti di Hoffmann. Devo dire però – e spero che la maggior parte dei lettori di questo racconto condividano il mio parere – che il motivo della bambola dotata di vita apparente, cioè di Olimpia, non è affatto il solo al quale si debba attribuire l’effetto incomparabilmente perturbante del racconto, e neppure quello a cui far risalire principalmente tale effetto. Non giova neppure, a questo effetto perturbante, che il narratore stesso volga leggermente al satirico l’episodio di Olimpia e lo usi per schernire la sopravvalutazione amorosa cui soggiace il giovane protagonista. Al centro del racconto si trova piuttosto un altro elemento, che è poi quello che dà il titolo al racconto e che viene costantemente richiamato nei passi decisivi: il motivo del “mago sabbiolino” che strappa gli occhi ai bambini.
Nonostante la sua felicità presente, lo studente Nathaniel (dai cui ricordi d’infanzia prende le mosse il racconto fantastico) non può liberarsi dai ricordi legati alla morte misteriosa e spaventevole dell’amato padre. Certe sere la madre aveva l’abitudine di spedire i bimbi a letto di buon’ora con l’ammonimento: “Arriva il mago sabbiolino”; e il bambino udiva davvero ogni volta il passo pesante di un visitatore che, per quella sera, si accaparrava il padre. Interpellata sul mago sabbiolino, la madre ne negava l’esistenza: “Non è che un modo di dire”, affermava. Ma c’era una bambinaia in grado di dare notizie più precise: “È un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro negli occhi manciate di sabbia, tanto che gli occhi sanguinanti balzano fuori dalla testa. Allora li getta nel sacco e li porta nella mezzaluna e li dà da beccare ai suoi piccoli, che stanno nel nido e hanno il becco ricurvo come le civette, col quale squarciano gli occhi dei bambini cattivi.”
Sebbene il piccolo Nathaniel fosse abbastanza grande e intelligente per respingere questi particolari orripilanti attribuiti alla figura del mago sabbiolino, tuttavia la paura di quest’ultimo si radicò profondamente in lui. Stabilì di appurare che aspetto avesse costui, e una sera in cui il “mago” era atteso si nascose nello studio del padre. Allora riconobbe nel visitatore l’avvocato Coppelius, una personalità repellente che i bambini cercavano di evitare quando, di tanto in tanto, era ospite a pranzo, e identificò questo Coppelius con il temuto mago sabbiolino. Ai fini degli sviluppi ulteriori di questa scena, il poeta insinua già un dubbio: siamo di fronte a un primo delirio del bambino in preda all’angoscia o a un resoconto che, nel mondo ove si svolge il racconto, dobbiamo considerare reale? Il padre e l’ospite si danno da fare intorno a un braciere fiammeggiante. Il piccolo, che sta spiando, quando ode Coppelius chiamare: “Occhi, qui! occhi, qui!”, si tradisce con un grido ed è afferrato da Coppelius, che vorrebbe, con granelli incandescenti tratti dalla fiamma, cospargere i suoi occhi per poi gettarli nel braciere. Il padre implora che gli occhi del figlio siano risparmiati. Un profondo svenimento e una lunga malattia concludono l’episodio. Coloro che hanno deciso di dare un’interpretazione razionalistica della figura del mago sabbiolino non mancheranno di riconoscere in questa fantasia del bambino l’influenza persistente del racconto fatto dalla bambinaia. Anziché granelli di sabbia, sono granelli incandescenti che debbono venir gettati negli occhi del fanciullo: in tutti e due i casi, lo scopo è di far balzar fuori gli occhi. Durante una visita successiva del “mago”, un anno dopo, il padre è ucciso da un’esplosione che ha luogo nello studio. L’avvocato Coppelius scompare senza lasciar traccia.
Divenuto ormai studente, Nathaniel crede di riconoscere la figura spaventevole della sua infanzia in un ottico ambulante italiano, Giuseppe Coppola, che nella città universitaria gli offre in vendita degli occhiali da sole e, al suo rifiuto, ribatte: “Ah, niente occhiali, niente occhiali!... ho anche begli occhi, begli occhi!” Il raccapriccio dello studente si placa allorché gli “occhi” che l’ottico gli offre si rivelano innocui occhiali da vista. Egli compra da Coppola un cannocchiale tascabile e con questo comincia a scrutare nella casa di fronte, dove abita il professor Spallanzani e in cui scorge la bella figlia di costui, Olimpia, misteriosamente laconica e immobile. Ben presto se ne innamora così ardentemente da dimenticare la sua saggia e prosaica fidanzata. Ma Olimpia è un automa nel quale Spallanzani ha inserito il meccanismo e Coppola – il mago sabbiolino – gli occhi. Lo studente arriva mentre i due stanno litigando per la loro opera. L’ottico è riuscito a impossessarsi della bambola di legno priva degli occhi, e il meccanico, Spallanzani, getta sul petto di Nathaniel gli occhi sanguinanti di Olimpia che giacevano al suolo, e dice che Coppola li ha rubati a lui, Nathaniel. Costui viene colto da un nuovo attacco di follia nel cui delirio la reminiscenza della morte del padre si congiunge con la recente impressione: “Oh-oh-oh! Cerchio di fuoco, cerchio di fuoco! gira, cerchio di fuoco, allegro, allegro! Bambolina di legno, ehi, bella bambolina, gira!” Così dicendo, egli si getta sul professore, il presunto padre di Olimpia, con l’intenzione di strangolarlo.
Risollevatosi da una lunga, grave malattia, Nathaniel sembra finalmente guarito. Ha intenzione di sposare la sua fidanzata, che ha ritrovata. Un giorno attraversano la città: l’alta torre del palazzo comunale getta un’ombra gigantesca sulla piazza del mercato. La ragazza propone al fidanzato di salire sulla torre, mentre il fratello di lei, che accompagna la coppia, resta in strada. Giunti in cima alla torre, l’attenzione di Clara è attratta da qualcosa di strano che si muove sulla strada. Nathaniel osserva la stessa scena col cannocchiale di Coppola, che s’è ritrovato in tasca, è preso di nuovo dalla sua follia e, gridando: “Bambolina di legno, gira!”, vuol gettare la ragazza nel vuoto. Richiamato dalle grida della fanciulla, il fratello la salva e si affretta a riportarla giù. In cima, intanto, l’invasato corre qua e là continuando a gridare: “Cerchio di fuoco, gira!”, frase di cui conosciamo l’origine. Tra le persone che si affollano in basso spicca l’avvocato Coppelius, riapparso improvvisamente. Possiamo ammettere che sia stata la vista del suo approssimarsi a provocare lo scoppio di follia di Nathaniel. I presenti vogliono salire sulla torre per impadronirsi dell’invasato, ma Coppelius ride: “Aspettate, aspettate, verrà giù da solo!” D’improvviso Nathaniel si arresta, si avvede di Coppelius e si getta dalla ringhiera con un grido acutissimo: “Begli occhi, begli occhi!” Quando giace sul lastrico della strada con la testa squarciata, il mago sabbiolino è scomparso nella folla.
Questo breve riassunto non lascia certo sussistere alcun dubbio sul fatto che il senso del perturbante sia legato direttamente alla figura del mago sabbiolino, ossia all’idea di vedersi sottratti gli occhi, e che un’incertezza intellettuale, come Jentsch la intende, non abbia niente a che vedere con questo effetto. Il dubbio concernente l’animazione, pur valido nel caso di Olimpia, la bambola, non entra minimamente in campo in quest’altro aspetto, più intenso, del perturbante. È vero, il narratore inizialmente desta in noi una sorta di incertezza impedendoci in un primo tempo, e certamente non senza intenzione, di indovinare se ci introdurrà nel mondo reale o in un mondo fantastico di sua invenzione. Egli ha il diritto incontestabile di fare o l’una o l’altra cosa, e se ha deciso per esempio di inscenare l’azione in un mondo popolato di spiriti, demoni e spettri, come ha fatto Shakespeare nell’Amleto, nel Macbeth e, in un altro senso, nella Tempesta e nel Sogno d’una notte d’estate, dobbiamo arrenderci alle sue intenzioni e considerare reale il mondo da lui ideato per tutto il tempo in cui gli dedicheremo la nostra attenzione. Ma, nel corso del racconto hoffmanniano, questo dubbio scompare; ci accorgiamo che il narratore vuole far sì che noi stessi guardiamo attraverso gli occhiali o il cannocchiale dell’ottico demoniaco, e che anzi, forse, il narratore stesso in prima persona ha guardato attraverso tale strumento. La conclusione della storia chiarisce definitivamente che l’ottico Coppola è realmente l’avvocato Coppelius64 e quindi anche il mago sabbiolino.
Non è più questione, qui, di “incertezza intellettuale”. Sappiamo ora che ciò che ci si vuole rappresentare non sono le fantasie di un folle dietro le quali ci sia dato di riconoscere, nella nostra razionalistica superiorità, le cose come stanno; e comunque l’impressione perturbante non è minimamente diminuita da questa chiarificazione. Una “incertezza intellettuale” non contribuisce quindi per nulla alla comprensione di questo effetto perturbante.
L’esperienza psicoanalitica ci avverte, invece, che siamo di fronte a una tremenda angoscia infantile, causata dalla prospettiva di un danno agli occhi o della loro perdita. Questa apprensione sussiste in molti adulti, i quali non temono alcuna lesione organica quanto quella che può colpire gli occhi. Del resto, non si usa forse dire che si custodirà qualcosa come la pupilla dei propri occhi? Lo studio dei sogni, delle fantasie e dei miti ci ha inoltre insegnato che la paura per gli occhi, l’angoscia di perdere la vista, è abbastanza spesso un sostituto della paura dell’evirazione. Anche l’autoaccecarsi di quel mitico criminale che fu Edipo non è altro che una forma mitigata della pena dell’evirazione, la sola che – secondo la legge del taglione – sarebbe stata adeguata al suo caso.65
Si può cercare di rifiutare, in base a una mentalità razionalistica, questa derivazione del timore per gli occhi dalla paura dell’evirazione, e trovare comprensibile che un organo prezioso come l’occhio sia protetto da un grandissimo timore; addirittura – facendo un altro passo avanti – si può affermare che dietro la paura dell’evirazione non si nasconde nessun segreto particolarmente profondo e nessun altro significato. Ma, così facendo, non si viene comunque a capo della relazione sostitutiva che pur si manifesta nel sogno, nella fantasia e nel mito tra occhio e membro virile, né si riesce a contrastare l’impressione che un sentimento particolarmente intenso e oscuro sorga proprio contro la minaccia di esser privati dell’attributo sessuale, e che solo questo sentimento conferisce risonanza all’idea della perdita di altri organi. Ogni dubbio ulteriore scompare poi quando si vengono a conoscere, dalle analisi compiute su nevrotici, le particolarità del “complesso di evirazione” e quando ci si rende conto che esso ha una parte straordinaria nella loro vita psichica.
Non consiglierei comunque a nessun avversario della concezione psicoanalitica di richiamarsi proprio al racconto hoffmanniano del Mago sabbiolino per sostenere che la paura per gli occhi è qualcosa di indipendente dal complesso di evirazione. Perché infatti, qui, questa paura viene posta in relazione strettissima con la morte del padre? Perché il mago sabbiolino compare ogni volta in veste di disturbatore dell’amore? È lui che divide l’infelice studente dalla fidanzata e dall’amico più caro, il fratello di lei, è lui che annienta il secondo oggetto del suo amore, la bella bambola di nome Olimpia, e, proprio quando il giovane sta per riunirsi felicemente con la sua Clara, che ha riconquistato, è lui che lo costringe al suicidio. Questi e molti altri tratti del racconto appaiono arbitrari e privi di un significato preciso se si respinge la relazione tra il timore per i propri occhi e l’evirazione, mentre diventano estremamente significativi se al mago sabbiolino si sostituisce il padre temuto, dal quale ci si aspetta l’evirazione.66
Oseremmo dunque ricondurre l’elemento perturbante rappresentato dal mago sabbiolino all’angoscia propria del complesso di evirazione infantile. Ma non appena ci sfiora l’idea che un simile fattore infantile stia all’origine del sentimento perturbante, ci viene naturale tentare di attribuire la stessa genesi anche ad altri aspetti del perturbante. Nel Mago sabbiolino si trova l’altro motivo della bambola che sembra viva, già rilevato da Jentsch. Secondo questo studioso, una condizione particolarmente favorevole al sorgere di sentimenti perturbanti si verifica quando si desta un’incertezza intellettuale se qualcosa sia o non sia vivente, o quando ciò che è privo di vita si rivela troppo simile a ciò che è vivo. Si vede subito, però, che con le bambole non ci allontaniamo di molto dal mondo infantile. Ricordiamo che i bambini, nell’età dei loro primi giuochi, non distinguono nettamente ciò che è vivo da ciò che non lo è, e in particolare trattano volentieri le loro bambole come esseri viventi. Anzi, a volte, sentiamo raccontare da certe pazienti di essere state, ancora all’età di otto anni, persuase che bastasse rivolgere alle loro bambole uno sguardo particolare, il più possibile penetrante, perché quelle diventassero vive. Anche qui, dunque, è facile dimostrare il fattore infantile; ma, cosa singolare, nel caso del mago sabbiolino si trattava del ridestarsi di un’antica angoscia infantile, mentre nel caso della bambola vivente l’angoscia non c’entra, la bimba non s’era spaventata alla vista della bambola che diventava viva, anzi forse aveva desiderato che ciò accadesse. La fonte del sentimento perturbante non sarebbe dunque in questo caso una paura infantile, bensì un desiderio infantile o anche semplicemente una credenza infantile. Sembra una contraddizione, ma è possibile che si tratti soltanto di una molteplicità, che potrebbe diventarci utile in seguito.
Hoffmann è un maestro ineguagliato del perturbante nell’ambito della letteratura. Il suo racconto Gli elisir del diavolo67 rivela un complesso garbuglio di motivi romanzeschi ai quali saremmo tentati di attribuire l’effetto perturbante che scaturisce dalla narrazione. Il contenuto del racconto è troppo denso e intricato per tentare di darne un riassunto. Alla fine del racconto, quando al lettore vengono illustrate le premesse dell’azione che fino a quel momento erano state tenute celate, ciò che ne risulta per lui non è una dilucidazione bensì uno stato di completo smarrimento. Il narratore ha ammassato troppe cose simili tra loro, e benché l’impressione esercitata dall’insieme non ne soffra, ne soffre invece la comprensione. Bisogna accontentarsi di estrarre, tra i motivi che esercitano un effetto perturbante, quelli di maggior rilievo, per indagare se anch’essi possano esser ricondotti a fonti infantili. Tali sono il motivo del “sosia” in tutte le sue gradazioni e configurazioni, ossia la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, debbono venire considerati identici; l’accentuazione di questo rapporto mediante la trasmissione immediata di processi psichici dall’una all’altra di queste persone – fenomeno che noi chiameremmo telepatia – così che l’una è compartecipe della conoscenza, dei sentimenti e delle esperienze dell’altra; l’identificazione del soggetto con un’altra persona sì che egli dubita del proprio Io o lo sostituisce con quello della persona estranea; un raddoppiamento dell’Io, quindi, una suddivisione dell’Io, una permuta dell’Io; un motivo del genere è infine il perpetuo ritorno dell’uguale,68 la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose, e perfino degli stessi nomi attraverso più generazioni che si susseguono.
Il motivo del sosia è stato oggetto di un esame approfondito in un lavoro omonimo di Otto Rank.69 Si indagano colà le relazioni tra il sosia e l’immagine riprodotta dallo specchio, tra il sosia e l’ombra, il genio tutelare, la credenza nell’anima e la paura della morte, ma anche si mette chiaramente in luce la sorprendente storia dell’evoluzione di questo motivo. Il sosia rappresentava infatti, in origine, un baluardo contro la scomparsa dell’Io, una “energica smentita del potere della morte” (Rank), e probabilmente il primo sosia del corpo fu l’anima “immortale”. La creazione di un simile doppione, come difesa dall’annientamento, trova riscontro in quella raffigurazione del linguaggio onirico che ama esprimere l’evirazione mediante raddoppiamento o moltiplicazione del simbolo genitale:70 essa diventa, nella civiltà dell’antico Egitto, la spinta all’arte di modellare l’immagine del defunto in un materiale che duri nel tempo. Ma queste rappresentazioni sono sorte sul terreno dell’amore illimitato per se stessi, del narcisismo primario che domina la vita psichica sia del bambino che dell’uomo primitivo, e, col superamento di questa fase, muta il segno del sosia, da assicurazione di sopravvivenza esso diventa un perturbante presentimento di morte.
La rappresentazione del sosia non scompare necessariamente insieme con questo narcisismo dei primordi; essa può acquisire infatti un contenuto nuovo traendolo dalle fasi di sviluppo successive dell’Io. Nell’Io prende forma lentamente un’istanza particolare, capace di opporsi al resto dell’Io, un’istanza che serve all’autosservazione e all’autocritica, che effettua il lavoro della censura psichica e che ci diventa nota come “coscienza morale”. Nel caso patologico del delirio di essere osservati questa istanza si isola, si scinde dall’Io, diventa osservabile da parte del medico. Il fatto che esista una istanza del genere, che può trattare il resto dell’Io come un oggetto, il fatto cioè che l’uomo sia capace di autosservazione, consente di conferire un nuovo contenuto alla vecchia rappresentazione del sosia e di assegnarle compiti diversi e disparati, in primo luogo tutto ciò che all’autocritica appare come appartenente all’antico e superato narcisismo dei tempi remoti.71
Comunque, nell’idea del sosia, accanto a questo contenuto che la critica dell’Io reputa sconveniente, possono essere incorporate ogni sorta di possibilità non realizzate che il destino potrebbe tenere in serbo e alle quali la fantasia vuole ancora aggrapparsi, e inoltre tutte le aspirazioni dell’Io che per sfavorevoli circostanze esterne non hanno potuto realizzarsi, oltre a tutte le decisioni della volontà che sono state represse e che hanno prodotto l’illusione del libero arbitrio.72
Tuttavia, dopo aver considerato la motivazione manifesta della figura del sosia, dobbiamo dirci che niente di tutto ciò ci rende comprensibile il senso di straordinario turbamento che promana da tale figura; inoltre, in base alla nostra conoscenza dei processi patologici della psiche, possiamo aggiungere che niente di questo contenuto potrebbe spiegare la tendenza difensiva mediante la quale esso viene proiettato fuori dell’Io come un che di estraneo. Dunque, il carattere perturbante del sosia può trarre origine soltanto dal fatto che il sosia stesso è una formazione appartenente a tempi psichici remoti e ormai superati, nei quali tale formazione aveva comunque un significato più amichevole. Il sosia è diventato uno spauracchio così come gli dei, dopo la caduta della loro religione, si sono trasformati in demoni.73
Le altre forme di turbamento dell’Io a cui ricorre Hoffmann sono facilmente classificabili in base al modello del motivo del sosia. Si tratta di un recedere a determinate fasi che il sentimento dell’Io ha percorso durante la sua evoluzione, di una regressione a tempi in cui non erano ancora nettamente tracciati i confini tra l’Io e il mondo esterno e tra l’Io e gli altri. Credo che questi motivi concorrano a produrre il senso del perturbante, anche se non è facile definire con precisione quale parte essi abbiano in questo processo.
Non tutti forse riconosceranno in un altro fattore, la ripetizione di avvenimenti consimili, una fonte del sentimento perturbante. Stando alle mie osservazioni, in determinate condizioni e combinata con circostanze particolari, essa evoca indubbiamente un sentimento del genere, che inoltre ci ricorda l’impotenza di certi stati onirici. Una volta, mentre percorrevo in un assolato pomeriggio estivo le strade sconosciute e deserte di una cittadina italiana, capitai in un quartiere sul cui carattere non potevano esserci dubbi. Alle finestre delle casette non si vedevano che donne imbellettate, e mi affrettai a svoltare appena possibile abbandonando la stradina. Ma, dopo aver vagato senza meta per un bel po’, improvvisamente mi ritrovai nella medesima strada, dove la mia presenza incominciò ad attirare l’attenzione, e la mia rapida ritirata ebbe un’unica conseguenza: dopo qualche altro giro vizioso mi ritrovai per la terza volta nel medesimo luogo. A questo punto mi colse un sentimento che non posso definire altro che perturbante, e fui contento quando – rinunciando ad altri giri esplorativi – mi ritrovai nella piazza che avevo lasciato poco prima. Altre situazioni che con quella ora descritta hanno in comune il ritorno non intenzionale, ma che per tutto il resto sono completamente diverse, provocano cionondimeno questo stesso senso di impotenza e di turbamento. Ciò accade, per esempio, quando in una foresta montana ci si smarrisce magari perché sorpresi dalla nebbia, e, a dispetto di tutti gli sforzi per giungere a una strada segnata o almeno nota, si ritorna ogni volta nello stesso luogo, contraddistinto da una determinata conformazione. O quando si procede a tentoni in una stanza sconosciuta immersa nel buio cercando la porta o l’interruttore e, in questa ricerca, si torna a urtare per l’ennesima volta contro lo stesso mobile; va detto però che Mark Twain, esagerando grottescamente questa situazione, l’ha trasformata in un evento di irresistibile comicità.74
Vi è poi un’altra serie di esperienze che ci permettono anch’esse di riconoscere senza fatica che soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato soltanto di “caso”. Così, per esempio, nessuno presta particolare attenzione se, depositando il soprabito al guardaroba, si vede porgere una contromarca con un certo numero – mettiamo 62 – o se trova che la cabina che gli è stata assegnata sul battello porta questo numero. Ma l’impressione cambia se queste due circostanze, di per sé irrilevanti, si susseguono l’una all’altra e capita d’imbattersi nel numero 62 più volte nello stesso giorno; tanto più poi se si dovesse addirittura osservare che in tutto ciò che reca l’indicazione di un numero – indirizzi, camere d’albergo, posti in treno e così via – il numero che compare è sempre il medesimo, in tutto o in parte. Una cosa del genere la troveremmo “perturbante” e chi non fosse solidamente corazzato contro le tentazioni della superstizione si sentirebbe incline ad attribuire a questo ostinato ritorno del medesimo numero un significato misterioso, a vedervi magari un segno dell’età che gli sarà consentito di raggiungere.75 La stessa cosa ci capiterebbe se, proprio mentre siamo impegnati nello studio delle opere del grande fisiologo Ewald Hering, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, ricevessimo da paesi diversi due lettere firmate con questo stesso nome, mentre fino a quel momento non ci era mai successo di avere rapporti con altri che si chiamassero così. Uno scienziato d’ingegno ha intrapreso poco tempo fa il tentativo di subordinare coincidenze di questo tipo a determinate leggi,76 il che dovrebbe cancellare la sensazione di turbamento che esse suscitano. Non oso dire se sia riuscito o meno nel suo intento.
Qui mi limito ad accennare al modo in cui il turbamento causato dal ritorno di eventi analoghi può essere fatto risalire alla vita psichica dell’infanzia, per il resto rinviando il lettore a una descrizione esauriente, già pronta, che ho inserito in un contesto diverso.77 Intendo dire che nell’inconscio psichico è riconoscibile il predominio di una coazione a ripetere che procede dai moti pulsionali: questa coazione dipende probabilmente dalla natura più intima delle pulsioni stesse, è abbastanza forte da imporsi a dispetto del principio di piacere, fornisce a determinati aspetti della vita psichica un carattere demoniaco, si esprime ancora assai chiaramente negli impulsi dei bambini in tenera età e domina una parte di ciò che avviene durante il trattamento analitico dei nevrotici. L’insieme di queste considerazioni ci induce a supporre che sarà avvertito come elemento perturbante tutto ciò che può ricordare questa profonda coazione a ripetere.
Ora però mi sembra che sia giunto il momento di abbandonare queste disquisizioni, sulle quali è comunque difficile esprimere un giudizio, per cercare invece qualche esempio che presenti inequivocabilmente un carattere perturbante e dalla cui analisi sia lecito attendersi una parola definitiva sulla validità della nostra ipotesi.
Nell’Anello di Policrate78 l’ospite si allontana inorridito perché nota che ogni desiderio dell’amico si realizza immediatamente e ogni sua preoccupazione viene istantaneamente scacciata dal fato. Per l’ospite l’amico è diventato “perturbante”, perché, come egli stesso ci informa, chi è troppo fortunato deve temere l’invidia degli dei; ma è una spiegazione, questa, che resta impenetrabile ai nostri occhi, essendo il suo significato velato dal linguaggio mitologico. Rifacciamoci perciò a un altro esempio tratto da situazioni molto meno eccezionali. Nel tracciare la storia clinica di un uomo affetto da nevrosi ossessiva, ho riferito che questo malato aveva trascorso una volta un certo periodo in un istituto idroterapico e che da questo soggiorno aveva tratto un grande giovamento.79 Egli fu tuttavia tanto intelligente da attribuire questo successo non alle virtù curative dell’acqua, bensì alla posizione della sua camera, attigua a quella di una compiacente infermiera. Quando tornò per la seconda volta nell’istituto chiese che gli venisse assegnata la stessa camera, ma si sentì rispondere che era già occupata da un vecchio signore, e alla notizia sfogò il proprio malumore con queste parole: “Che gli venga un colpo!” Due settimane dopo il vecchio signore ebbe effettivamente un colpo. Per il mio paziente questa fu un’esperienza “perturbante”. Tale impressione di turbamento sarebbe stata ancora più forte se tra quella esclamazione e l’infortunio fosse trascorso un periodo di tempo assai più breve, o se egli fosse stato in grado di riferire molte altre coincidenze simili. In effetti, portare queste conferme non gli creò il minimo imbarazzo; ma non lui soltanto, tutti i nevrotici ossessivi che ho studiato erano in grado di raccontare di sé cose analoghe. Essi non si sorprendevano affatto di incontrare regolarmente la persona alla quale avevano appena pensato, magari a distanza di un lungo periodo di tempo; era cosa consueta per loro ricevere al mattino una lettera da un amico quando, la sera prima, avevano detto: “È da un po’ che non sento più parlare del tale”; e, soprattutto, era raro che si verificassero incidenti o casi di morte senza che poco prima ciò fosse loro balenato in mente. Esprimevano abitualmente questo dato di fatto con la massima semplicità, affermando di avere dei “presentimenti” i quali, “perlopiù”, si rivelavano fondati.
Una delle forme più perturbanti e più diffuse di superstizione è la paura del “malocchio”, di cui un oculista di Amburgo, Seligmann, ha fornito una trattazione approfondita.80 Sulla provenienza di questa paura non sembra vi siano mai stati dubbi. Chi possiede qualcosa di prezioso e al tempo stesso di perituro teme l’invidia del prossimo, in quanto proietta sugli altri l’invidia che egli proverebbe se si trovasse al loro posto. Questi moti dell’animo si tradiscono con lo sguardo anche quando ci si vieta di esprimerli a parole, e, se vi è chi spicca tra gli altri per caratteristiche ben evidenti, specie se indesiderate, subito sorge il sospetto che la sua invidia raggiungerà un’intensità particolare e che questa intensità verrà poi anche mandata ad effetto. Si teme perciò un’intenzione segreta di nuocere e si suppone, basandosi su determinati indizi, che questa intenzione disponga anche della forza per attuarsi.
Gli esempi di perturbante che ho citati per ultimi dipendono da un principio che, accogliendo un suggerimento di un paziente,81 ho chiamato la “onnipotenza dei pensieri”. Ora non possiamo più dire di non sapere su che terreno ci stiamo muovendo. L’analisi dei casi in cui compare l’elemento perturbante ci ha ricondotti all’antica concezione del mondo propria dell’animismo; tale concezione era caratterizzata dagli spiriti umani che popolavano il mondo, dalla sopravvalutazione narcisistica dei propri processi psichici, dall’onnipotenza dei pensieri e dalla tecnica della magia che su questa onnipotenza era costruita, dall’attribuzione di poteri magici accuratamente graduati a persone e cose estranee (mana), nonché da tutte le creazioni con le quali il narcisismo illimitato di quella fase dell’evoluzione si opponeva alle esigenze irrecusabili della realtà. Sembra che noi tutti, nella nostra evoluzione individuale, abbiamo attraversato una fase corrispondente a questo animismo dei primitivi, che questa fase non sia stata superata da nessuno di noi senza lasciarsi dietro residui e tracce ancora suscettibili di manifestarsi, e che tutto ciò che oggi ci appare “perturbante” risponda alla condizione di sfiorare tali residui di attività psichica animistica e di spingerli a estrinsecarsi.82 E qui cadono opportune due osservazioni alle quali vorrei affidare il contenuto essenziale di questa piccola ricerca. Anzitutto, se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con un’emozione, di qualunque tipo essa sia, viene trasformato in angoscia qualora abbia luogo una rimozione, ne segue che tra le cose angosciose dev’essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna. Questo tipo di cose angosciose costituirebbero appunto il perturbante, e non ha importanza sapere se ciò che ora è perturbante era fonte di angoscia fin dalle origini o era invece latore di un altro affetto. Secondariamente, se questa è realmente la natura segreta del perturbante, allora comprendiamo perché l’uso linguistico consente al Heimliche di trapassare nel suo contrario, l’Unheimliche (qui, par. 1): infatti questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e ad essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione. Il rapporto con la rimozione ci chiarisce ora anche la definizione di Schelling [ibid.], secondo la quale il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato.
Non ci resta altro, ora, che mettere alla prova quanto abbiamo acquisito applicandolo alla spiegazione di altri casi di perturbante.
A molti uomini appare perturbante in sommo grado ciò che ha rapporto con la morte, con i cadaveri e con il ritorno dei morti, con spiriti e spettri. Abbiamo visto [ibid.] che alcune lingue moderne non possono rendere le parole tedesche “una casa unheimlich” che con un’espressione [“a haunted house”] che noi renderemmo con la seguente circonlocuzione: “una casa abitata dagli spettri”. A dire il vero avremmo potuto iniziare la nostra ricerca con questo esempio di perturbante, che è forse di tutti il più spiccato, ma non l’abbiamo fatto perché, in questo caso, il perturbante è troppo strettamente frammisto con l’orrido e coincide in parte con esso. Ma è raro trovare un ambito in cui il nostro modo di pensare e di sentire sia cambiato così poco dai tempi primordiali, in cui l’elemento antico si sia conservato così bene sotto una scorza sottile, come nella nostra relazione con la morte. Due fattori contribuiscono a determinare questa situazione di stallo: la forza delle nostre reazioni emotive originarie e la scarsa certezza delle nostre conoscenze scientifiche. La biologia non è ancora riuscita a decidere se la morte sia il destino ineluttabile di ogni essere vivente o soltanto un caso che si verifica di norma, ma che forse potrebbe essere evitato.83 La proposizione: “Tutti gli uomini sono mortali” fa infatti bella mostra di sé nei trattati di logica come modello di asserzione universale, ma nessuna la considera tale e ora come in passato è estranea al nostro inconscio l’idea della nostra stessa mortalità. Le religioni continuano a contestare l’importanza di un fatto irrecusabile,84 la morte individuale, e postulano la prosecuzione dell’esistenza oltre il termine della vita; i poteri statali giudicano impossibile conservare l’ordine morale tra i viventi se si rinuncia a correggere la vita terrena con un aldilà migliore; sui tabelloni delle nostre metropoli i manifesti annunciano conferenze in cui gli oratori vogliono insegnarci come metterci in contatto con le anime dei defunti, ed è innegabile che parecchi dei cervelli più fini e dei pensatori più acuti tra gli uomini di scienza hanno ritenuto, specie verso la fine della loro esistenza terrena, che tale rapporto sia possibile. Poiché quasi tutti noi su questo argomento abbiamo ancora la stessa mentalità dei selvaggi, non c’è neppure da stupirsi se il timore primitivo nei confronti dei morti è ancora così forte in noi e pronto a estrinsecarsi non appena qualcosa lo faccia affiorare. Probabilmente questo timore ha ancora il significato antico secondo cui il morto è diventato nemico dei sopravvissuti e mira a prenderli con sé come compagni della sua nuova esistenza. Potremmo chiederci piuttosto, data questa immutabilità del nostro atteggiamento verso la morte, che ne è della rimozione, il prodursi della quale è una condizione necessaria affinché l’elemento primitivo possa riemergere come alcunché di perturbante. Ma anche questa condizione sussiste: ufficialmente le persone cosiddette colte non credono più alla possibilità che i defunti diventino visibili in forma di spiriti, ne hanno collegato l’eventuale apparizione a condizioni insolite e raramente realizzabili; e l’atteggiamento emotivo verso il morto, originariamente ambivalente e ambiguo al massimo grado, si è andato smorzando, per gli strati superiori della vita psichica, nell’atteggiamento univoco della pietà.85
A questo punto saranno sufficienti alcune integrazioni perché con l’animismo, la magia e l’incantesimo, l’onnipotenza dei pensieri, la relazione con la morte, la ripetizione involontaria e il complesso di evirazione abbiamo più o meno esaurito l’ambito dei fattori che trasformano l’angoscioso in perturbante.
Anche di un uomo vivo diciamo che è perturbante, e precisamente quando gli attribuiamo cattive intenzioni. Ma questo non basta, dobbiamo ancora aggiungere che queste sue intenzioni di nuocerci si realizzeranno con l’aiuto di particolari poteri. Lo “iettatore”86 è un buon esempio di questa figura perturbante viva nella superstizione dei popoli neolatini, che Albrecht Schäffer – con poetica intuizione e profonda comprensione psicoanalitica – ha trasformato in una figura simpatica nel suo libro Josef Montfort [1918]. Ma questi poteri segreti ci riportano sul terreno proprio dell’animismo. È il presentimento di questi poteri misteriosi che rende così perturbante Mefistofele agli occhi della pia Margherita:
Sie
fühlt, dass ich ganz sicher ein Genie,
Vielleicht wohl gar der Teufel bin...
[Lei sente che io di certo un
genio
sono, forse anche il Diavolo.]87
L’effetto perturbante del mal caduco e della follia ha la stessa origine. Il profano vede qui l’estrinsecazione di forze che non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di percepire oscuramente la presenza in angoli remoti della propria personalità. Con spirito consequenziale e sostanzialmente corretto dal punto di vista psicologico, il Medioevo aveva attribuito tutte queste manifestazioni morbose all’azione di demoni. E certo non mi stupirei di sentir dire che la psicoanalisi, la quale mira a mettere in luce queste forze occulte, è diventata a cagione di ciò essa stessa perturbante per molte persone. In un caso in cui riuscii a far guarire una ragazza inferma da molti anni – eppure la guarigione non fu molto rapida – ho sentito dire io stesso una cosa del genere dalla madre della ragazza molto tempo dopo la guarigione della figlia.
Membra staccate dal corpo, una testa mozzata, una mano recisa dal braccio come in una fiaba di Hauff,88 piedi che danzano da soli come nel libro citato di Schäffer, sono tutte cose che hanno un che di straordinariamente perturbante, specie se ad esse si attribuisce, come in quest’ultimo esempio, anche un’attività indipendente. Sappiamo già che la sensazione di turbamento che queste cose suscitano deriva dalla loro prossimità al complesso di evirazione. Alcuni vorrebbero attribuire la palma del perturbante all’idea di venir seppelliti in stato di morte apparente. Sennonché la psicoanalisi ci ha insegnato che questa fantasia terrificante non è che la trasformazione di un’altra fantasia, che non aveva in origine nulla di spaventevole, ma che era anzi il portato di una certa lascivia: mi riferisco alla fantasia della vita intrauterina.89
Aggiungiamo ancora qualche considerazione generale che, a rigore, è già contenuta nelle nostre precedenti affermazioni sull’animismo e sulle modalità di lavoro dell’apparato psichico già sorpassate, ma che sembra meritare una particolare sottolineatura: e cioè che spesso e volentieri ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato, e via di questo passo. Qui poggia anche buona parte del turbamento suscitato dalle pratiche magiche. L’elemento infantile, che domina anche la vita psichica dei nevrotici, è presente in questo caso come eccessiva accentuazione della realtà psichica rispetto alla realtà materiale, tratto questo che si ricollega all’onnipotenza dei pensieri. Durante la guerra mondiale, in pieno blocco, mi capitò nelle mani un numero della rivista inglese “Strand Magazine”, nella quale, tra altri articoli abbastanza superflui, lessi il racconto seguente. Una giovane coppia va ad abitare in un appartamento ammobiliato in cui si trova un tavolo dalla forma strana, con coccodrilli intagliati nel legno. Ogni sera si diffonde nell’abitazione un puzzo insopportabile, caratteristico; nel buio i giovani inciampano contro qualcosa, credono di vedere un non so che di indefinibile che guizza sulla scala; per farla breve, sono portati a immaginare che, data la presenza del tavolo, la casa sia abitata da coccodrilli fantasma o che nell’oscurità i mostri di legno si animino, o cose del genere. Era una storia parecchio scipita, ma l’effetto perturbante che provocava era davvero notevole.
A conclusione di questa serie certo incompleta di esempi, dobbiamo citare un’esperienza che traiamo dal lavoro psicoanalitico e che, se non dipende da una coincidenza casuale, fornisce il più valido supporto alla nostra concezione del perturbante. Succede spesso che individui nevrotici dichiarino che l’apparato genitale femminile rappresenta per loro un che di perturbante. Questo perturbante (Unheimliche) è però l’accesso all’antica patria (Heimat) dell’uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora. “Amore è nostalgia”,90 dice un’espressione scherzosa, e quando colui che sogna una località o un paesaggio pensa, sempre sognando: “Questo luogo mi è noto, qui sono già stato” è lecita l’interpretazione che inserisce al posto del paesaggio l’organo genitale o il corpo della madre.91 Anche in questo caso, quindi, unheimlich è ciò che un giorno fu heimisch [patrio], familiare. E il prefisso negativo “un” è il contrassegno della rimozione.92