Siamo scivolati inavvertitamente dall’ambito dell’economia a quello della psicologia. All’inizio eravamo tentati di individuare il patrimonio della civiltà nei beni materiali esistenti e negli ordinamenti attinenti alla loro ripartizione. Ma, una volta riconosciuto che ogni civiltà poggia sulla coercizione al lavoro e sulla rinuncia pulsionale, e che perciò inevitabilmente suscita opposizione in coloro ai quali si indirizzano queste pretese, diventa chiaro che i beni stessi, i mezzi per acquisirli e le norme relative alla loro ripartizione non possono costituire la caratteristica essenziale o unica della civiltà. Questi beni sono infatti minacciati dalla ribellione e dalla smania di distruzione di coloro che fanno parte della civiltà. Accanto ad essi compaiono ora i mezzi che possono servire a difendere la civiltà, mezzi di coercizione o di altro genere che dovrebbero riuscire a riconciliare gli uomini con la civiltà e a indennizzarli per i sacrifici cui sono costretti. Questi altri mezzi possono essere descritti come il patrimonio spirituale della civiltà.
Per attenerci a un criterio di uniformità terminologica, chiameremo “frustrazione” il fatto che una pulsione non possa esser soddisfatta, “divieto” l’ordinamento che istituisce questa frustrazione, e “privazione” la condizione prodotta dal divieto. Occorre poi distinguere tra privazioni che riguardano tutti e privazioni che non riguardano tutti, ma solo gruppi, classi, o anche individui singoli. Le prime sono le più antiche: coi divieti che le istituirono, la civiltà iniziò il distacco dalla primitiva condizione animale, chi sa quante migliaia di anni fa. Con nostra sorpresa abbiamo scoperto che queste privazioni sono ancora avvertite come tali e costituiscono tuttora il nocciolo dell’ostilità contro la civiltà. Ai desideri pulsionali cui a causa di esse siamo soggetti viene data nuova vita con ogni bambino che nasce; c’è una categoria di esseri umani, i nevrotici, che già a queste frustrazioni reagiscono con l’asocialità. Tali desideri pulsionali sono quelli dell’incesto, del cannibalismo e della voglia di uccidere. Suona strano mettere insieme qui desideri nel cui rifiuto tutti gli uomini sembrano concordi con desideri in relazione ai quali – se ammetterli o frustrarli – vi è così aspra contesa nella nostra civiltà; tuttavia, dal punto di vista psicologico tale accostamento è legittimo. L’atteggiamento della civiltà verso questi tre più antichi desideri pulsionali non è, d’altra parte, affatto uniforme: soltanto il cannibalismo appare vietato a tutti e, a una considerazione non analitica, del tutto superato; possiamo invece avvertire ancora, di là dal divieto, la forza dei desideri incestuosi, e, date certe condizioni, l’omicidio è ancora esercitato, anzi imposto, dalla nostra civiltà. Non è escluso che la civiltà futura si sviluppi in modo tale che determinati soddisfacimenti di desiderio oggi del tutto possibili appaiano tanto inaccettabili quanto lo è oggi quello del cannibalismo.
Già in queste antichissime rinunce pulsionali compare un fattore psicologico che conserva una notevole importanza anche per tutte le rinunce ulteriori. Non è vero che dai tempi più remoti la psiche umana non abbia subito alcuna evoluzione e che, in contrasto con i progressi della scienza e della tecnica, sia oggi ancora quella che era all’inizio della storia. Possiamo qui indicare uno di questi progressi della psiche. È conforme all’orientamento della nostra evoluzione che la coercizione esterna venga a poco a poco interiorizzata, poiché una particolare istanza psichica, il Super-io dell’uomo, la assume fra i suoi imperativi.417 Ogni bambino ci presenta il processo di una trasformazione siffatta, che è quella che gli permette di diventare un essere morale e sociale. Questo rafforzamento del Super-io è un patrimonio psicologico che per la civiltà ha un valore grandissimo. Gli individui in cui ha avuto luogo diventano, da nemici della civiltà, suoi portatori. Quanto più numerosi essi sono nell’ambito di una civiltà, tanto più questa civiltà è sicura, e tanto prima potrà fare a meno dei mezzi di coercizione esterna. La misura di tale interiorizzazione è assai diversa, secondo i singoli divieti pulsionali. Nel caso delle sopra menzionate più antiche pretese della civiltà, se prescindiamo dall’indesiderata eccezione dei nevrotici, l’interiorizzazione appare raggiunta in misura notevole. Le cose cambiano se ci volgiamo alle altre richieste pulsionali. Osserviamo allora con sorpresa e preoccupazione che, quanto a esse, la maggioranza degli uomini obbedisce ai divieti della civiltà solo sotto la pressione della coercizione esterna, ossia solo là dove questa può farsi valere e fino a quando è temibile. Ciò si applica anche alle cosiddette pretese morali della civiltà, determinate allo stesso modo per tutti. La maggior parte di ciò che sperimentiamo in fatto di umana disonestà ha a che fare con questo. Innumerevoli uomini civili, che indietreggerebbero inorriditi di fronte all’omicidio o all’incesto, se sono sicuri di rimanere impuniti, non si precludono il soddisfacimento della loro avidità, della loro smania aggressiva, delle loro bramosie sessuali, e non si astengono dal danneggiare gli altri con la menzogna, l’inganno, la calunnia; e così è certamente stato sempre, fin dagli albori della civiltà.
Venendo alle restrizioni concernenti soltanto determinate classi della società, troviamo in esse condizioni durissime, che nessuno del resto ha mai contestato. C’è da attendersi che queste classi neglette invidino ai più fortunati i loro privilegi e facciano di tutto per sbarazzarsi di quel tanto di privazione in più cui devono sottostare. Dove ciò non è possibile, si affermerà all’interno di tale civiltà un malcontento durevole, in grado di condurre a pericolose ribellioni. Ma, se una civiltà non ha superato lo stadio in cui il soddisfare un certo numero di suoi membri ha come presupposto l’oppressione di altri membri, forse della maggioranza di essi (ed è il caso di tutte le civiltà contemporanee), è comprensibile che gli oppressi sviluppino un’intensa ostilità contro la stessa civiltà che essi producono con il loro lavoro, ma dei cui beni ricevono una parte insufficiente. Non possiamo dunque attenderci, dagli oppressi, una interiorizzazione dei divieti della civiltà; anzi, essi non sono disposti a riconoscere tali divieti, i loro sforzi tendono a distruggere la civiltà medesima e a eliminarne se mai gli stessi presupposti. Nei riguardi della civiltà l’ostilità di queste classi è talmente palese, che di fronte ad essa l’ostilità più latente degli strati sociali avvantaggiati non è neppure stata notata. È inutile aggiungere che una civiltà che lascia insoddisfatti un così gran numero di suoi membri spingendoli alla rivolta, non ha prospettive – né merita – di durare a lungo.
La misura d’interiorizzazione delle prescrizioni della civiltà, il che, espresso in termini popolari e non psicologici, coincide con il livello morale dei suoi membri, non è l’unico bene di ordine psichico che occorre considerare ai fini della valutazione di una civiltà. Accanto a esso va considerato il patrimonio d’ideali e di creazioni artistiche di una civiltà, vale a dire i soddisfacimenti che da questi si possono trarre.
Si sarà fin troppo proclivi a includere gli ideali di una civiltà nel patrimonio psichico di questa, intendendosi per ideali i valori che essa considera più elevati e persegue al di sopra di ogni altra cosa. Sembra, a prima vista, che questi ideali determinino le opere realizzate nell’ambito della civiltà; in realtà le cose potrebbero svolgersi nel modo seguente: gli ideali potrebbero formarsi sulla base dei primi successi consentiti dall’azione congiunta di doti interne e di circostanze esterne favorevoli a una certa civiltà, e questi primi successi potrebbero poi diventare i punti fermi idealizzati in vista del raggiungimento di successi ulteriori. Il soddisfacimento che l’ideale dona ai partecipi di una civiltà è dunque di natura narcisistica, poggia sull’orgoglio per un buon risultato che è stato raggiunto. Ma perché il soddisfacimento sia completo, è necessario il confronto con altre civiltà, dedicatesi ad altre realizzazioni e creatrici di altri ideali. In virtù di tali differenze ogni civiltà si arroga il diritto di disprezzare le altre. Gli ideali propri di ogni civiltà divengono in tal modo causa di divisione e di inimicizia tra ambiti civili diversi, cosa che risulta evidente soprattutto fra le nazioni.
Il soddisfacimento narcisistico derivante da un ideale civile è anche vivo in quelle forze che, nell’ambito di una certa civiltà, si contrappongono efficacemente all’ostilità che essa stessa suscita. Possono prender parte a questo soddisfacimento non soltanto le classi privilegiate, che godono i benefici di tale civiltà, ma anche gli oppressi, in quanto l’autorizzazione a disprezzare coloro che ne restano esclusi li risarcisce del danno subito all’interno del proprio stesso ambito. Uno è un misero plebeo, tormentato dai debiti e dal servizio militare, ma in compenso è un Romano, e in quanto tale partecipa al compito di dominare altre nazioni e di prescrivere loro le leggi. Questa identificazione degli oppressi con la classe che li domina e li sfrutta rientra tuttavia in un contesto più ampio. Gli oppressi possono del resto risultare affettivamente legati a questa classe dominante, e, nonostante l’ostilità, possono scorgere nei loro padroni i loro ideali. Se tali relazioni, sostanzialmente soddisfacenti, non sussistessero, rimarrebbe incomprensibile il fatto che tante civiltà abbiano perdurato così a lungo, a dispetto dell’ostilità legittima di grandi masse di uomini.
Di tipo diverso è il soddisfacimento che i membri di una certa civiltà ricavano dall’arte: esso, tuttavia, rimane di regola precluso alle masse, che sono impegnate in un lavoro spossante e non hanno usufruito di un’istruzione personale. Come da tempo abbiamo appreso,418 l’arte offre soddisfacimenti sostitutivi per le più antiche rinunce imposte dalla civiltà (ancora oggi sono le rinunce più profondamente sentite) e contribuisce perciò come null’altro a riconciliare l’uomo con i sacrifici da lui sostenuti in nome della civiltà stessa. Le creazioni dell’arte promuovono d’altronde i sentimenti d’identificazione, di cui ogni ambito civile ha tanto bisogno, consentendo sensazioni universalmente condivise e apprezzate; esse giovano però anche al soddisfacimento narcisistico allorché raffigurano le realizzazioni di una certa civiltà alludendo in modo efficace ai suoi ideali.
Non abbiamo ancora menzionato la parte forse più importante dell’inventario psichico di una civiltà. Si tratta, nel senso più lato, delle sue rappresentazioni religiose, ossia, per usare un termine di cui forniremo in seguito la legittimazione (vedi par. 6, in OSF, vol. 10), delle sue illusioni.