Capitolo 3
Considerazioni teoriche
Breuer
Nella “Comunicazione preliminare” che introduce questi studi, abbiamo esposto le concezioni alle quali fummo condotti dalle nostre osservazioni, e credo, in sostanza, di doverle mantenere. La “Comunicazione preliminare” però è così breve e concisa, che in gran parte vi poteva essere solo accennato ciò che intendevamo. Sia quindi lecito, ora che le storie cliniche hanno fornito prove per le nostre concezioni, di esporre queste ultime più per esteso. Naturalmente anche qui non si vuole e non si può trattare tutto sull’isteria; ma quei punti che nella “Comunicazione preliminare” vennero insufficientemente motivati ed ebbero troppo poco rilievo saranno oggetto di una discussione un po’ più approfondita, più chiara, e forse anche limitatrice.
In queste discussioni si parlerà poco del cervello e niente affatto delle molecole. I fatti psichici si devono trattare col linguaggio della psicologia, anzi non potrebbe essere altrimenti. Se invece di “rappresentazione” volessimo dire “eccitamento della corteccia”, quest’ultima espressione avrebbe per noi un senso solo in quanto nel travestimento riconosciamo la persona ben nota, tacitamente ripristinando la “rappresentazione”. Giacché, mentre le rappresentazioni sono continuamente oggetto della nostra esperienza e ci sono ben note in tutte le loro sfumature, l’“eccitamento della corteccia” per noi è piuttosto un postulato, un oggetto di conoscenza futura, sperata. Quella sostituzione di termini appare un’inutile mascherata. Si voglia dunque perdonare l’uso quasi esclusivo della terminologia psicologica.
Ancora di un’altra cosa devo chiedere venia in anticipo. Quando una scienza progredisce rapidamente, pensieri dapprima espressi da un singolo ben presto diventano di dominio pubblico. Così nessuno che oggi tenti di esporre le proprie vedute sull’isteria e sulla sua base psichica riesce a evitare di pronunciare e ripetere una quantità di pensieri altrui, che appunto dal possesso individuale passano a quello collettivo. È pressoché impossibile costatare sempre chi li abbia espressi per primo, e vi è sempre il pericolo di ritenere prodotto proprio ciò che già è stato detto da altri. Così si voglia scusare se qui si fanno poche citazioni e non si distingue rigorosamente tra il proprio e l’altrui. Ben poco di quel che si verrà esponendo nelle pagine seguenti ha la pretesa dell’originalità.
1. I fenomeni isterici sono tutti ideogeni?
Abbiamo parlato nella “ Comunicazione preliminare” del meccanismo psichico dei “fenomeni isterici”, non dell’“isteria”, perché per esso e per la teoria psichica dei sintomi isterici in genere non volevamo pretendere una validità illimitata. Non crediamo che tutti i fenomeni dell’isteria si determinino nella maniera da noi esposta e nemmeno che tutti siano ideogeni, vale a dire condizionati da rappresentazioni. Ci differenziamo in ciò da Moebius, che nel 1888 propose la definizione secondo cui sono isterici tutti quei fenomeni morbosi che sono causati da rappresentazioni.207 In seguito questa affermazione è stata illustrata nel senso che solo una parte dei fenomeni morbosi corrisponderebbe nel contenuto alle rappresentazioni causali, e cioè quelli prodotti da suggestione estranea e autosuggestione; per esempio quando l’idea di non poter muovere il braccio ne determinava una paralisi. Un’altra parte dei fenomeni isterici sarebbe bensì causata da rappresentazioni, ma non corrisponderebbe loro nel contenuto; per esempio quando in una delle nostre osservazioni la paralisi del braccio veniva prodotta dalla vista di oggetti a forma di serpe [vedi cap. 2, par. 1, in OSF, vol. 1].
Moebius, con quella definizione, non vuole affatto propugnare un cambiamento nella nomenclatura, per cui d’ora in avanti solo i fenomeni morbosi ideogeni (determinati da rappresentazioni) sarebbero da chiamare isterici; egli pensa invece che tutti i fenomeni morbosi isterici siano ideogeni. “Perché molto spesso le rappresentazioni sono cause dei fenomeni isterici, noi crediamo che lo siano sempre.” Egli chiama ciò un’induzione analogica; io lo chiamerei piuttosto una generalizzazione, la cui giustificazione deve essere ancora esaminata.
Ovviamente prima di ogni discussione si deve stabilire che cosa s’intenda per isteria. Ritengo l’isteria un quadro clinico trovato empiricamente, proveniente dall’osservazione, esattamente come la tisi polmonare tubercolosa. Tali sindromi ottenute empiricamente vengono purificate, approfondite, spiegate dal progresso della nostra conoscenza; ma né devono né possono esserne dissolte. La ricerca etiologica ha mostrato che i diversi processi parziali della tisi polmonare sono condizionati da differenti cause di malattia: il tubercolo, dal Bacillus Kochii; lo sfacelo del tessuto, la formazione delle caverne, la febbre settica, da altri microbi. Cionondimeno la tisi turbercolosa rimane un’unità clinica e non sarebbe corretto distruggerla attribuendole soltanto le modificazioni di tessuto “specificamente tubercolose”, determinate dal bacillo di Koch, e staccandone le altre. Così pure deve rimanere conservata l’unità clinica dell’isteria anche se risulta che i suoi fenomeni sono determinati da cause differenti, gli uni da un meccanismo psichico, gli altri senza un siffatto meccanismo.
Tale, secondo la mia convinzione, è effettivamente il caso. Soltanto una parte dei fenomeni isterici è ideogena, e l’accettazione della definizione di Moebius spacca in due l’unità clinica dell’isteria, anzi anche l’unità di un medesimo sintomo in un medesimo malato.
Sarebbe un’induzione del tutto analoga all’induzione analogica di Moebius supporre che, siccome molto spesso rappresentazioni e percezioni provocano l’erezione, esse sole lo facciano sempre e anche gli stimoli periferici provochino quel fenomeno vasomotorio soltanto per via indiretta, tramite la psiche. Sappiamo che sarebbe un errore, eppure alla base di quest’induzione starebbero certamente altrettanti fatti di quanti ne stanno alla base dell’asserzione di Moebius riguardante l’isteria. Per analogia con un grande numero di fenomeni fisiologici, come la secrezione della saliva e delle lacrime, la modificazione dell’attività cardiaca e simili, è da supporre come possibile e verosimile che un medesimo fenomeno possa essere provocato tanto da rappresentazioni quanto da stimoli periferici o altri, ma non psichici. Il contrario richiede dimostrazione e a questa manca ancora moltissimo. Anzi, pare certo che molti dei fenomeni chiamati isterici non vengano causati unicamente da rappresentazioni.
Osserviamo un caso banalissimo. Una donna, a ogni emozione, presenta sul collo, sul petto e sul volto un eritema dapprima maculato, poi confluente. Ciò è dovuto a rappresentazioni e quindi, secondo Moebius, è un fenomeno isterico. Lo stesso eritema si manifesta, sebbene con diffusione minore, in caso di stimolo alla cute, per contatto, ecc. Ciò allora non sarebbe isterico. Così, un fenomeno certamente del tutto unitario una volta apparterrebbe all’isteria e un’altra volta no. Si può dubitare addirittura se questo fatto, l’eretismo dei vasomotori, si debba annoverare fra i fenomeni specificamente isterici, o se non si debba piuttosto attribuirlo al semplice “nervosismo”. Ma, secondo Moebius, quella scissione di un fenomeno unitario dovrebbe comunque avvenire e solo l’eritema avente causa affettiva dovrebbe essere chiamato isterico.
Del tutto analogo è il caso dei dolori isterici che hanno tanta importanza pratica. Certamente questi spesso sono determinati direttamente da rappresentazioni; sono “allucinazioni di dolore”. Se li studiamo un po’ meglio, risulta che per la loro formazione una grande vivacità della rappresentazione non basta, ma occorre uno stato particolarmente anormale degli apparati di percezione e di conduzione del dolore, come per la formazione dell’eritema affettivo occorre l’anormale eccitabilità dei vasomotori. L’espressione “allucinazione di dolore” indica certamente la natura di questa nevralgia nel modo più pregnante, ma ci costringe anche a estendere ad essa le vedute che ci siamo formate in generale nei riguardi dell’allucinazione. Non è qui il luogo di discuterle in dettaglio. Professo l’opinione che la “rappresentazione”, l’immagine mnestica da sola, senza eccitamento dell’apparato di percezione, non raggiunga mai, anche nella sua maggiore vivacità e intensità, il carattere dell’esistenza obiettiva che costituisce l’allucinazione.208
Ciò vale già per le allucinazioni sensorie e ancora più per le allucinazioni di dolore. Al sano, infatti, non pare possibile procurare al ricordo di un dolore fisico nemmeno quella vivacità, lontana approssimazione della percezione reale, che pure si può raggiungere nelle immagini mnestiche ottiche e acustiche. Persino nello stato allucinato normale della persona sana, nel sonno, non si sognano mai dolori, credo, se non esiste una reale percezione di dolore. L’eccitamento “retrogrado” dell’apparato di percezione, proveniente dall’organo della memoria mediante rappresentazioni, è quindi, come norma, ancora più difficile per il dolore che per le percezioni della vista e dell’udito.209 Se nell’isteria si verificano con tanta facilità allucinazioni di dolore, dobbiamo statuire un’anormale eccitabilità dell’apparato percettore del dolore.
Ora, questa è posta in essere non soltanto da rappresentazioni ma anche da stimoli periferici, esattamente come l’eretismo dei vasomotori dianzi considerato.
Osserviamo giornalmente che, nella persona normale dal punto di vista nervoso, dolori periferici vengono determinati da fenomeni patologici, non di per sé dolorosi, in altri organi; così, il mal di capo da modificazioni relativamente insignificanti del naso e delle cavità nasali secondarie; nevralgie dei nervi intercostali e brachiali dal cuore, e così via. Se in un malato sussiste quell’anormale eccitabilità che abbiamo dovuto postulare quale condizione per l’allucinazione di dolore, essa per così dire è disponibile anche per le irradiazioni or ora menzionate. Le irradiazioni che si verificano anche nei non nervosi diventano più intense, e se ne formano di tali che riscontriamo, bensì, soltanto nei nevropatici, ma che si basano sullo stesso meccanismo. Così, ritengo, il dolore all’ovaia dipende da condizioni dell’apparato genitale. Che ciò sia per tramite psichico esigerebbe dimostrazione, e questa non è data dal fatto che tale dolore, come qualunque altro, si può produrre quale allucinazione nell’ipnosi, o che il dolore all’ovaia può essere anche di origine psichica. Esso insomma si forma come l’eritema o come una delle secrezioni normali, sia per cause psichiche sia per cause puramente somatiche. Dobbiamo chiamare isterico solo il primo tipo: i casi di cui conosciamo l’origine psichica? Dovremmo allora separare il dolore all’ovaia osservato comunemente dal complesso sintomatico isterico, cosa piuttosto difficile da ammettere.
Se, dopo un lieve trauma di un’articolazione, si sviluppa gradualmente una grave artralgia, in questo fenomeno vi è certamente un elemento psichico, ossia la concentrazione dell’attenzione sulla zona lesa, la quale esalta l’eccitabilità delle vie nervose interessate; ma ben difficilmente si può esprimere questo fenomeno dicendo che l’iperalgesia è determinata da rappresentazioni.
Non diversamente stanno le cose per quanto riguarda la diminuzione patologica della percezione. Non è per nulla dimostrato ed è inverosimile che l’analgesia generale o che l’analgesia di singole parti del corpo senza anestesia sia causata da rappresentazioni. E anche se dovessero confermarsi in pieno le scoperte di Binet e di Janet, in base a cui l’emianestesia sia determinata da un peculiare stato psichico, dalla scissione della psiche, ciò sarebbe certamente un fenomeno psicogeno ma non ideogeno e quindi, secondo Moebius, non sarebbe da chiamarsi isterico.
Se così, di un gran numero di fenomeni isterici caratteristici non possiamo presumere che siano ideogeni, appare giusto ridurre l’affermazione di Moebius. Non diciamo: “Sono isterici quei fenomeni morbosi che sono causati da rappresentazioni”, ma soltanto: “Moltissimi dei fenomeni isterici, probabilmente più di quanti attualmente sappiamo, sono ideogeni.” Tuttavia la modificazione morbosa fondamentale, comune a tutti i casi e che permette tanto a rappresentazioni quanto anche a stimoli non psicologici di agire in senso patogeno, è un’anormale eccitabilità del sistema nervoso.210 In che misura questa, a sua volta, sia di origine psichica, è un’altra questione.
Se dunque solo una parte dei fenomeni isterici è probabilmente ideogena, sono appunto questi che si possono chiamare specificamente isterici, e il loro studio, la scoperta della loro origine psichica costituisce il più essenziale progresso recente nella teoria della malattia. Si pone ora l’ulteriore domanda: come si formano, qual è il “meccanismo psichico” di questi fenomeni?
Di fronte a questo interrogativo i due gruppi di sintomi ideogeni distinti da Moebius [vedi cap. 3, par. 1, in OSF, vol. 1] si comportano in modo essenzialmente diverso. Quelli nei quali il fenomeno morboso corrisponde come contenuto alla rappresentazione stimolante, sono relativamente comprensibili e chiari. Se la rappresentazione di una voce udita fa sì che questa non solo riecheggi sommessamente a un “udito interiore”, come nella persona sana, ma venga percepita in modo allucinato quale percezione auricolare obiettiva e reale, ciò corrisponde a fenomeni noti della vita normale (sogno) ed è ben comprensibile supponendo un’eccitabilità anormale. Noi sappiamo che in ogni movimento volontario la rappresentazione del risultato da raggiungere provoca la corrispondente contrazione muscolare; e non è del tutto incomprensibile che la rappresentazione dell’impossibilità della contrazione impedisca il movimento (paralisi suggestiva).
La situazione è diversa nel caso di quei fenomeni che non hanno alcuna logica connessione con la rappresentazione causale (anche per essi la vita normale offre delle analogie, come ad esempio l’arrossire di vergogna). Come si verificano? Perché nella persona malata una rappresentazione provoca proprio quel determinato movimento o quella determinata allucinazione del tutto irrazionale e non corrispondente?
Ritenemmo, nella “Comunicazione preliminare”, di poter dire qualche cosa su tale rapporto causale, in base alle nostre osservazioni. Ma nel corso dell’esposizione abbiamo introdotto senz’altro e utilizzato il concetto di “eccitamento che defluisce o deve venire abreagito”.211 Questo concetto, che riveste importanza fondamentale per il nostro tema e per la dottrina delle nevrosi in generale, sembra però richiedere e meritare un’indagine più approfondita. Prima di accingermi ad essa, mi devo scusare per riandare qui ai problemi fondamentali del sistema nervoso. Questa “discesa verso le Madri”212 ha sempre qualcosa di opprimente; ma il tentativo di scavare la radice di un fenomeno porta appunto inevitabilmente sempre ai problemi fondamentali, che non si possono evitare. Possa pertanto incontrare un giudizio indulgente l’astrusità delle considerazioni che seguono!
2. L’eccitamento tonico intracerebrale. Gli affetti
A. Conosciamo due stati estremi del sistema nervoso centrale, il sonno senza sogno e lo stato pienamente vigile. Costituiscono la transizione fra di essi stati di minore lucidità in tutte le gradazioni. A noi qui non interessa la questione dello scopo e del fondamento fisico del sonno (condizioni chimiche o vasomotorie), ma della differenza essenziale fra i due stati.
Del sonno profondo, privo di sogni, nulla possiamo dire direttamente, perché appunto dallo stato di perfetta incoscienza rimane preclusa qualsiasi osservazione ed esperienza. Dello stato affine, del sonno accompagnato da sogni, sappiamo però che in esso intendiamo compiere movimenti volontari, come parlare, camminare, ecc., ma senza che vengano provocate volontariamente le corrispondenti contrazioni muscolari, come nella veglia; sappiamo poi che stimoli sensori forse vengono percepiti (dato che spesso entrano a far parte del sogno), ma non appercepiti, vale a dire non diventano osservazioni coscienti; sappiamo che rappresentazioni insorgenti non rendono attuali, come nella veglia, tutte le rappresentazioni collegate con esse, esistenti nella coscienza potenziale, ma che grandi masse di esse rimangono non eccitate (come quando parliamo con un defunto, senza ricordarci del suo decesso); che anche rappresentazioni incompatibili possono sussistere contemporaneamente senza mutuamente inibirsi come nella veglia; che dunque l’associazione avviene in modo difettoso e incompleto. Possiamo sicuramente supporre che nel sonno più profondo tale abolizione delle connessioni fra gli elementi psichici sia ancora più completa, assoluta.
Per contro, nella piena veglia, ogni atto di volontà provoca il movimento correlativo, le impressioni sensorie diventano osservazioni, le rappresentazioni si associano con tutto ciò che è in possesso della coscienza potenziale. Il cervello allora è un’unità che opera con completa coesione interna.
Forse è soltanto una circonlocuzione espressiva di questi fatti, il dire che nel sonno le vie di comunicazione e di conduzione del cervello non sono praticabili per l’eccitamento degli elementi psichici (cellule corticali?), mentre nella veglia lo sono completamente.
L’esistenza di questi due stati differenti delle vie di conduzione diventa certamente comprensibile solo con l’ipotesi che, durante la veglia, esse si trovino in eccitamento tonico (tetano intercellulare di Exner);213 che questo eccitamento intracerebrale tonico ne condizioni la capacità di conduzione, e che il suo scemare e scomparire stabilisca appunto lo stato del sonno.
Noi dovremmo immaginarci una via di conduzione cerebrale non come un filo telefonico che sia elettricamente eccitato solo quando deve funzionare (cioè, qui, quando deve trasmettere un segnale); ma come una di quelle linee telefoniche attraverso le quali fluisce costantemente una corrente galvanica e che diventano ineccitabili quando questa scompare. Oppure, forse meglio, pensiamo a un impianto elettrico molto ramificato per illuminazione e trasmissione di forza motrice, ove si pretende che ogni lampadina o ogni macchina possano essere messe in funzione semplicemente stabilendo un contatto. Per rendere ciò possibile, così che tutto sia pronto al lavoro, deve sussistere anche durante il riposo in tutta la rete conduttrice una determinata tensione, e a tale scopo la dinamo deve spendere una determinata quantità di energia. Così pure esiste una certa misura di eccitamento nelle vie di conduzione del cervello in riposo, ma desto e pronto a lavorare.214
A favore di tale concetto sta il fatto che la veglia di per sé, anche senza prestazioni di lavoro, stanca e produce bisogno di sonno; implica già da sola un consumo di energia.
Immaginiamoci una persona in attesa spasmodica, ma non riguardante un particolare campo sensoriale. Abbiamo allora di fronte un cervello in riposo ma pronto ad agire. Possiamo ben supporre che in esso tutte le vie di conduzione si trovino al massimo della loro capacità conduttiva: in eccitamento tonico. Il linguaggio in modo significativo chiama questo stato, appunto, tensione. L’esperienza insegna quanto questo stato provochi sforzo e fatica, benché in esso di fatto non venga prestato alcun lavoro motorio o psichico.
Si tratta di uno stato eccezionale che, appunto a causa del grande consumo di energia, non si sopporta a lungo. Ma anche lo stato normale della veglia lucida implica una misura, oscillante entro limiti non troppo ampi, di eccitamento intracerebrale; a tutte le gradazioni della veglia, fino alla sonnolenza e al sonno reale, corrispondono gradi di eccitamento più bassi.
Una prestazione reale di lavoro del cervello implica certamente un consumo di energia maggiore della sola disponibilità al lavoro (così come l’impianto elettrico sopra richiamato a paragone deve far affluire una maggiore quantità di energia elettrica nelle linee se vengono inserite molte lampadine o macchine operatrici). In caso di funzionamento normale, non si libera un’energia maggiore di quella che subito viene consumata nell’attività. Il cervello, però, si comporta come un impianto di potenzialità limitata, tale che non potrebbe per esempio produrre nello stesso tempo grandi quantità di luce e di lavoro meccanico. Se lavora la trasmissione di forza motrice, è disponibile poca energia per l’illuminazione, e viceversa. Così vediamo che in caso di grave sforzo muscolare ci è impossibile riflettere con costanza; che la concentrazione dell’attenzione su un campo sensoriale fa scemare la capacità di prestazione degli altri organi del cervello; che dunque il cervello opera con una quantità variabile ma limitata di energia.
Il ripartirsi non uniforme dell’energia è probabilmente determinato dalla “facilitazione per attenzione” (Exner),215 cioè da un aumento della capacità conduttiva delle vie prescelte e una diminuzione di quella delle altre, cosicché nel cervello che lavora anche l’“eccitamento tonico intracerebrale” è distribuito in modo non uniforme.216
Noi svegliamo un dormiente, vale a dire esaltiamo repentinamente la quantità del suo eccitamento intracerebrale tonico, facendo agire su di lui un vivace stimolo sensorio. Se, in ciò, variazioni nel circolo sanguigno cerebrale siano termini essenziali della catena causale, se i vasi vengano dilatati primariamente dallo stimolo o se la dilatazione sia la conseguenza dell’eccitamento degli elementi cerebrali, tutto questo è indeciso. Certo è che lo stato di eccitamento che penetra attraverso una delle porte dei sensi, si diffonde da questa sul cervello, allargandosi e portando tutte le vie di conduzione a uno stato di più elevata facilitazione.
Come proceda il risveglio spontaneo, se sia sempre una e la stessa parte del cervello a entrare per prima in stato di eccitamento di veglia e se questo stato da quella parte si diffonda, o se funga da risvegliatore ora l’uno ora l’altro gruppo di elementi, è ancora completamente oscuro. Tuttavia il risveglio spontaneo, che, com’è noto, si verifica anche nella quiete e oscurità assolute senza stimoli esterni, dimostra che lo sviluppo di energia ha la sua base nel processo vitale degli elementi cerebrali stessi. Un muscolo rimane non stimolato, quiescente, anche se è stato in riposo per quanto tempo si voglia e abbia accumulato in sé il massimo delle forze di tensione. Non così gli elementi cerebrali. Possiamo supporre, certamente a ragione, che questi ristabiliscano nel sonno il proprio potenziale raccogliendo forze di tensione. Quando ciò è avvenuto fino a un certo grado, raggiungendo per così dire un certo livello, l’eccedenza defluisce nelle vie di conduzione, le facilita e produce l’eccitamento intracerebrale della veglia.
Lo stesso fenomeno lo possiamo osservare in modo istruttivo nella veglia. Se il cervello desto rimane in quiete per un tempo prolungato, senza trasformare, mediante il proprio funzionamento, forza di tensione in energia viva, si verificano il bisogno e la spinta all’azione. Il lungo riposo motorio crea il bisogno del movimento (l’insensato girovagare degli animali in gabbia) e una sensazione penosa, se questo bisogno non può essere soddisfatto. L’assenza di stimoli sensori, l’oscurità, il silenzio assoluto diventano sofferenza; la quiete mentale, l’assenza di percezioni, di rappresentazioni, di attività associativa, producono la tortura della noia. Questi sentimenti sgradevoli corrispondono a un’“eccitazione”, a un’esaltazione dell’eccitamento intracerebrale normale.
Gli elementi cerebrali interamente rigenerati, dunque, anche nella quiete liberano una certa misura di energia, la quale se inutilizzata funzionalmente aumenta l’eccitamento intracerebrale. Ciò produce una sensazione sgradevole: se ne creano sempre quando un bisogno dell’organismo non trova soddisfazione. Dato che le sensazioni qui discusse scompaiono se la quantità eccedente di eccitamento, diventata libera, viene impiegata funzionalmente, deduciamo che questa eliminazione dell’eccesso di eccitamento sia un bisogno dell’organismo, e riscontriamo qui per la prima volta il fatto che nell’organismo sussiste la “tendenza a mantenere costante l’eccitamento intracerebrale” (Freud).217
Un’eccedenza di essa opprime e disturba, e nasce l’impulso a consumarla. Se un consumo in attività sensitiva o rappresentativa non è possibile, l’eccedenza defluisce in azione motoria priva di scopo, nell’andare su e giù e cose simili, che anche in seguito vedremo essere il modo più frequente di scaricare tensioni eccessive.
È noto quanto sia grande la diversità individuale a tale riguardo: quanto le persone vivaci si distinguano in ciò dalle inerti, torpide, coloro che “non sanno star sedute ferme” da quelle che “hanno un talento innato a star sedute sul divano”; le mentalmente mobili dalle ottuse, che sopportano tempi smisurati di quiete mentale. Queste diversità, che formano il “temperamento” delle persone, sono certamente basate su profonde differenze dei rispettivi sistemi nervosi, sulla misura in cui gli elementi cerebrali funzionalmente quiescenti liberano energia.
Abbiamo parlato di una tendenza dell’organismo a mantenere costante l’eccitamento cerebrale tonico; tale tendenza però ci è comprensibile soltanto se riusciamo ad afferrare quale bisogno venga da essa soddisfatto. Comprendiamo la tendenza a mantenere costante la temperatura media dell’animale a sangue caldo, perché per esperienza sappiamo che si tratta di un optimum per la funzione degli organi. E supponiamo una cosa simile per la costanza del tenore d’acqua nel sangue, ed altro ancora. Credo che anche per il livello dell’eccitamento tonico intracerebrale si possa ammettere che abbia un optimum. A tale livello dell’eccitamento tonico, il cervello è accessibile a tutti gli stimoli esterni, i riflessi sono facilitati, ma soltanto nella misura dell’attività riflessa normale, e il patrimonio rappresentativo è accessibile all’evocazione e all’associazione in quel mutuo rapporto delle singole rappresentazioni che corrisponde alla chiarezza di giudizio; è lo stato della migliore prontezza al lavoro.
Già quell’aumento uniforme [vedi cap. 3, par. 2, in OSF, vol. 1] dell’eccitamento tonico che costituisce l’“attesa” muta le condizioni. Rende iperestetici per gli stimoli sensori, che diventano ben presto penosi, e aumenta l’eccitabilità dei riflessi oltre ciò che è utile (paurosità). Certamente, questo stato è utile per talune situazioni e taluni scopi; ma se si verifica spontaneamente, senza tali premesse, non migliora la nostra potenzialità ma la danneggia. Nella vita comune lo chiamiamo “essere nervosi”. Nel numero di gran lunga maggiore delle forme di esaltazione dell’eccitamento, si tratta però di un sovraeccitamento non uniforme, direttamente nocivo per la potenzialità. Chiamiamo ciò “eccitazione” o “agitazione”. Non è incomprensibile, ma è in analogia con altre regolazioni dell’organismo, che in quest’ultimo sussista la tendenza a tener fermo l’optimum di eccitamento e a raggiungerlo nuovamente dopo che è stato superato.
Sia concesso ritornare qui ancora una volta al paragone con un impianto di illuminazione elettrica. Anche la tensione nella rete di un siffatto impianto ha un optimum; se questo viene superato, facilmente la funzione ne sarà danneggiata, in quanto per esempio si bruceranno presto i filamenti incandescenti. Del danno arrecato all’impianto stesso dalla rottura del suo isolamento e “corto circuito” si dirà ancora, più avanti.
B. La nostra lingua, risultato dell’esperienza di molte generazioni, distingue con mirabile finezza quelle forme e quei gradi di esaltazione dell’eccitamento (Erregung) che sono ancora utili nell’attività mentale [nonostante superino l’optimum (vedi sopra il penultimo capoverso)] perché accrescono uniformemente l’energia libera di tutte le funzioni cerebrali, e le forme e gradi che le pregiudicano, perché in parte accrescono e in parte inibiscono le funzioni psichiche, in modo irregolare. Essa chiama le prime “incitamento” (Anregung), le seconde “eccitazione” (Aufregung). Una conversazione interessante, il tè, il caffè servono d’incitamento; una lite, una dose forte di alcool provocano eccitazione. Mentre l’incitamento non fa che destare la spinta all’utilizzazione funzionale dell’aumentato eccitamento, l’eccitazione cerca di scaricarsi in modi più o meno veementi, rasentanti il patologico o veramente patologici. Essa costituisce la base psicofisica degli affetti, e di questi si parlerà in seguito. Prima, tuttavia, si dirà di sfuggita anche delle cause fisiologiche, endogene, dell’esaltazione dell’eccitamento.
Sono cause siffatte, anzitutto, i grandi bisogni fisiologici e gli istinti dell’organismo, la fame di ossigeno, la fame di alimento e la sete. Dato che l’eccitazione che essi creano è accompagnata da determinate sensazioni e rappresentazioni finalizzate, non la si può osservare come esaltazione dell’eccitamento in modo altrettanto puro come quella menzionata più sopra [vedi cap. 3, par. 2, in OSF, vol. 1], che scaturisce soltanto dalla quiete degli elementi cerebrali. Essa ha sempre la sua particolare tonalità; ma non la si può non riconoscere nell’agitazione ansiosa della dispnea e nell’irrequietudine del famelico.
L’esaltazione dell’eccitamento che proviene da queste sorgenti è condizionata dalla modificazione chimica degli elementi cerebrali stessi, che s’impoveriscono di ossigeno o di energie o di acqua. Essa defluisce in vie motorie preformate, le quali portano il soddisfacimento del bisogno innescante; la dispnea, negli sforzi della respirazione; la fame e la sete, nella ricerca e nella conquista del nutrimento e dell’acqua. Il principio della costanza dell’eccitamento ben difficilmente si trova ad agire di fronte a questa eccitazione; infatti, gli interessi ai quali l’esaltazione dell’eccitamento qui serve, sono per l’organismo molto più importanti del ripristino di condizioni funzionali normali del cervello. Si vedono bensì gli animali dello zoo correre avanti e indietro agitati prima dell’ora del pasto; ma ciò potrà ben rappresentare un residuo dell’attività motoria preformata della ricerca del cibo, la quale ora, dalla cattività, è stata resa inutile, nient’altro che un mezzo per liberare il sistema nervoso dall’eccitazione.
Quando la struttura chimica del sistema nervoso è stata modificata in modo duraturo dall’adduzione continuata di sostanze estranee, anche la carenza di queste condiziona stati di eccitazione, proprio come la carenza delle sostanze nutritive normali nei sani. È il caso dell’agitazione che nasce dall’astinenza dai narcotici.
La transizione da queste esaltazioni di eccitamento endogene agli affetti psichici in senso più ristretto, è data dall’eccitamento sessuale e dall’emozione sessuale. Quale esaltazione di eccitamento del primo tipo, vaga, indefinita, priva di meta, la sessualità compare durante la pubertà. Nell’evoluzione ulteriore si forma (normalmente) un legame stabile fra questa esaltazione di eccitamento endogena, condizionata dalla funzione delle ghiandole sessuali, e la percezione o la rappresentazione dell’altro sesso; ed anzi, nel mirabile fenomeno dell’innamorarsi di una singola persona, un legame con tale rappresentazione individuale. Questa rappresentazione entra in possesso di tutta la quantità di eccitamento che viene liberata dalla pulsione sessuale; diventa una “rappresentazione affettiva”. Ciò significa che nella sua attualizzazione nella coscienza essa mette in moto l’incremento di eccitamento che di per sé proviene da un’altra sorgente, dalle ghiandole sessuali.
La pulsione218 sessuale è certamente la fonte più potente di incrementi di eccitamento di lunga durata (e in quanto tali di nevrosi); questa esaltazione di eccitamento è distribuita in modo quanto mai non uniforme sul sistema nervoso. Nei suoi gradi d’intensità più alti, risulta perturbato il decorso rappresentativo, modificato il valore relativo delle rappresentazioni; nell’orgasmo dell’atto sessuale il pensiero si spegne quasi completamente.
Anche la percezione, l’elaborazione psichica delle impressioni sensorie soffre; l’animale altrimenti timido e prudente diventa cieco e sordo al pericolo. Per contro si esalta (per lo meno nel maschio) l’intensità dell’istinto aggressivo; l’animale pacifico diventa pericoloso fintantoché l’eccitamento non si scarichi nelle attività motorie dell’atto sessuale.
C. Una perturbazione consimile dell’equilibrio dinamico nel sistema nervoso, la ripartizione non uniforme dell’eccitamento esaltato, costituisce per l’appunto il lato psichico degli affetti.
Non si vuole tentare qui né una psicologia né una fisiologia degli affetti. Solo un singolo punto importante per la patologia dovrà essere discusso, e precisamente solo per gli affetti ideogeni, per quelli che vengono provocati da percezioni e rappresentazioni. (Lange ha giustamente segnalato che gli affetti possono essere causati quasi allo stesso modo da sostanze tossiche e, come dimostra la psichiatria, in modo primario di modificazioni patologiche, così come da rappresentazioni.)219
Non occorre certamente alcuna ulteriore prova del fatto che tutte quelle perturbazioni dell’equilibrio psichico che chiamiamo affetti acuti sono accompagnati da un’esaltazione dell’eccitamento. (Negli affetti cronici, nella preoccupazione e nel cruccio, vale a dire nell’angoscia protratta, sussiste la complicazione di un grave stato di stanchezza, che lascia persistere la distribuzione non uniforme dell’eccitamento e con ciò la perturbazione dell’equilibrio, ma ne riduce il livello.) Ma questo eccitamento esaltato non si può utilizzare in attività psichica. Tutti i forti affetti pregiudicano l’associazione, il decorso delle rappresentazioni. Si “perde la testa” dalla rabbia o dallo spavento. Solo quel gruppo di rappresentazioni che ha eccitato l’affetto persiste nella coscienza con intensità massima. Così il livellamento dell’eccitazione mediante attività associativa è impossibile.
Ma gli affetti “attivi”, “stenici”, compensano l’esaltazione di eccitamento mediante scarica motoria. Il giubilare e il saltare dalla gioia, l’aumentato tono muscolare dell’ira, il discorso iroso e l’azione di vendetta, fanno defluire l’eccitamento in atti motori. Il dolore psichico lo scarica in sforzi respiratori e in un atto secretorio: il singhiozzo e il pianto. Che queste reazioni riducano e calmino l’eccitazione, è cosa dell’esperienza quotidiana. Come già accennato [vedi cap. 1, par. 2, in OSF, vol. 1], il linguaggio esprime ciò nei detti “sfogarsi piangendo, sfogarsi strepitando” ecc.; ciò che così si spende è appunto l’eccitamento cerebrale esaltato.
Solo talune di queste reazioni sono razionali, inquantoché, con esse, si può cambiare qualcosa nella situazione di fatto, come per mezzo dell’azione o del discorso compiuti nell’ira. Le altre, sono perfettamente inutili o, per meglio dire, non hanno altra utilità se non il livellamento dell’esaltazione dell’eccitamento e il ristabilimento dell’equilibrio psichico. Compiendo ciò, esse servono alla “tendenza a mantenere costante l’eccitamento [intra-]cerebrale” [ibid., cap. 3, par. 2].
Agli affetti “astenici” dello spavento e dell’angoscia manca questa scarica reattiva. Lo spavento paralizza in maniera del tutto diretta la motilità come anche l’associazione e, così pure, l’angoscia, se l’unica reazione utile dello scappare è esclusa dalla causa dell’affetto d’angoscia e dalle circostanze. L’eccitamento dello spavento scompare soltanto per il suo graduale livellarsi.
L’ira ha reazioni adeguate, corrispondenti all’occasione. Se queste sono impossibili o vengono inibite, dei surrogati ne prendono il posto. Già il discorso irato ne è un esempio. Ma anche altri atti, del tutto privi di scopo, le sostituiscono. Quando Bismarck deve reprimere davanti al re l’agitazione di collera, egli si procura poi sollievo scaraventando a terra un vaso prezioso. Questa sostituzione arbitraria di un atto motorio per mezzo di un altro corrisponde del tutto alla sostituzione dei riflessi naturali del dolore mediante altre contrazioni muscolari. Il riflesso preformato a un’estrazione di un dente è di dare uno spintone al dentista e di urlare; se, invece di ciò, contraiamo i muscoli del braccio e premiamo contro lo schienale della sedia, trasferiamo la quantità di eccitamento, liberata dal dolore, da un gruppo di muscoli a un altro [ibid., cap. 2, parr. 2 ed “Epícrisi”]. Nel violento mal di denti spontaneo che, oltre ai gemiti, non ha riflesso preformato, l’eccitamento defluisce nel correre avanti e indietro senza scopo. Così pure trasponiamo l’eccitamento della collera dalla reazione adeguata ad altre reazioni e ci sentiamo sollevati purché venga consumata tramite qualche forte innervazione motoria.
Se però una scarica siffatta dell’eccitamento è vietata del tutto all’affetto, la situazione diventa la stessa nell’ira come nello spavento e nell’angoscia: l’eccitamento intracerebrale risulta potentemente esaltato, ma non viene consumato in attività né associativa né motoria. Nella persona normale, il disturbo si compensa gradualmente; in alcuni individui però si manifestano reazioni anomale, si costituisce l’“anormale espressione delle emozioni” (Oppenheim).220
Ritengo che non susciterò il sospetto d’identificare l’eccitamento nervoso con l’elettricità se riprendo ancora una volta il paragone con un impianto elettrico. Se in tale impianto la tensione diventa esageratamente grande, sussiste il pericolo di rottura nei punti più deboli dell’isolamento. Si manifestano allora fenomeni elettrici in punti anormali; oppure, se due fili sono affiancati, si forma un corto circuito. Dato che in questi punti si verifica un cambiamento permanente, il disturbo così prodotto può ricomparire ogniqualvolta la tensione sia sufficientemente aumentata. Ha avuto luogo una “facilitazione” anormale.
Si può ben sostenere che le condizioni nel sistema nervoso siano in certo qual modo similari. Esso è un tutto internamente connesso; ma in molti punti sono inserite delle resistenze elevate, comunque non insuperabili, che impediscono la diffusione generale uniforme dell’eccitamento. Così, nella persona normale sveglia, l’eccitamento dell’organo di rappresentazione non passa agli organi di percezione; noi non alluciniamo [vedi cap. 3, par. 1, in OSF, vol. 1]. Gli apparati nervosi dei complessi organici di vitale importanza – della circolazione e della digestione – sono separati, nell’interesse della sicurezza e dell’efficienza dell’organismo, per mezzo di forti resistenze dagli organi della rappresentazione. Ne è preservata l’autonomia; essi non vengono influenzati direttamente dalle rappresentazioni. Ma le resistenze che impediscono il passaggio dell’eccitamento intracerebrale agli apparati della circolazione e della digestione hanno forza variabile con gli individui; fra l’ideale, oggigiorno raro, della persona assolutamente non “nervosa” – la cui azione cardiaca rimane costante in ogni situazione della vita e viene influenzata soltanto dal lavoro da fare, che in ogni pericolo ha costante buon appetito e digerisce – e la persona “nervosa”, alla quale ogni evento causa palpitazione e diarrea, fra questi due estremi stanno tutte le gradazioni dell’eccitabilità affettiva.
Comunque sia, nella persona normale esistono resistenze contro il passaggio dell’eccitamento cerebrale agli organi vegetativi. Esse corrispondono all’isolamento delle condutture elettriche. In quei punti in cui sono di esiguità anomala, in caso di eccitamento cerebrale con alta tensione vengono infrante, e questo – l’eccitamento affettivo – passa all’organo periferico. Nasce l’“anormale espressione delle emozioni”.
Delle due condizioni or ora nominate perché questo si dia, una è già stata discussa per esteso. È un grado elevato di eccitamento intracerebrale, cui è vietato il livellamento sia mediante decorso rappresentativo che mediante scarica motoria; e che è troppo alto perché quest’ultima possa bastare.
L’altra condizione è la debolezza anormale delle resistenze in singole vie di conduzione. Essa può risiedere nella qualità originaria dell’individuo (disposizione congenita); può essere determinata da stati di eccitamento di lunga durata, che allentano per così dire la struttura del sistema nervoso degradando tutte le resistenze (disposizione della pubertà); o da influenze che indeboliscono, come malattia o denutrizione (disposizione degli stati di esaurimento). La resistenza di singole vie di conduzione può venire ridotta dalla precedente malattia dell’organo interessato, per cui furono facilitate le vie verso e dal cervello. Un cuore malato soggiace più fortemente all’influsso di un affetto che non il cuore sano. “Ho nell’addome una cassa di risonanza”, mi disse una donna che soffriva di parametrite cronica, “ogni avvenimento ridesta il mio antico dolore” (disposizione per malattia locale).
Gli atti motori nei quali si scarica normalmente l’eccitamento degli affetti sono ordinati e coordinati, benché spesso anche inutili. Ma l’eccitamento troppo forte può aggirare i centri di coordinamento o li può infrangere, defluendo in moti elementari. Nel lattante, oltre all’atto respiratorio dell’urlare, gli affetti provocano e si esprimono soltanto in contrazioni muscolari non coordinate di questo tipo elementare: nell’inarcarsi e nello sgambettare. Col progredire dello sviluppo, la muscolatura subisce sempre di più il dominio della coordinazione e della volontà. Ma l’opistòtono, che rappresenta il massimo sforzo motorio dell’intera muscolatura del corpo, e i movimenti clonici del dibattersi e del dimenar le gambe, rimangono per tutta la vita le forme di reazione per i casi di eccitamento massimo del cervello: sia per l’eccitamento puramente fisico dell’attacco epilettico, sia per la scarica di affetti massimi in crampi più o meno epilettoidi (la parte puramente motoria dell’attacco isterico).
Tali reazioni affettive anormali fanno bensì parte dell’isteria; si verificano però anche al di fuori di questa malattia; esse indicano un grado più o meno elevato di nervosità, non l’isteria. Tali fenomeni si possono chiamare isterici solo quando si manifestano non quali conseguenze di un affetto che sebbene di alto grado sia obiettivamente fondato, ma in modo apparentemente spontaneo quali fenomeni morbosi. Di questi ultimi, molte osservazioni e così anche le nostre hanno dimostrato che sono basati su ricordi i quali rinnovano l’affetto originario, o per meglio dire: lo rinnoverebbero se appunto quelle reazioni non si fossero già formate.
Verosimilmente, in tutte le persone di una certa mobilità mentale, nello stato di tranquillità psichica un flusso di rappresentazioni e ricordi scorre sommessamente attraverso la coscienza; per lo più con così scarsa vivacità delle rappresentazioni, che queste non lasciano traccia nella memoria e non si può poi dire come sia occorsa l’associazione. Ma, se emerge una rappresentazione che in origine era collegata con un forte affetto, questo si rinnova con maggiore o minore intensità. La rappresentazione così “accentuata” affettivamente entra allora nella coscienza con chiarezza e vivacità. L’intensità dell’affetto che un ricordo può suscitare è assai variabile, a seconda della misura in cui il ricordo è stato esposto alle varie influenze “usuranti”; soprattutto, a seconda della misura in cui l’affetto originario è stato “abreagito”. Nella “Comunicazione preliminare” abbiamo indicato [vedi cap. 1, par. 2, in OSF, vol. 1] in che diverso grado, per esempio, l’affetto d’ira per un’offesa ricevuta venisse ridestato dal ricordo se quest’offesa fosse stata ripagata o piuttosto tollerata in silenzio. Se il riflesso psichico nell’occasione originale si era realmente verificato, il ricordo suscita una quantità di eccitamento molto più esigua.221 Nel caso contrario il ricordo torna costantemente a portare sulle labbra le parole di rampogna che allora furono represse e che avrebbero costituito il riflesso psichico di quello stimolo.
Se l’affetto originale non si è scaricato nel riflesso normale, ma in un riflesso “anormale”, anche questo viene ridestato dal ricordo; l’eccitamento che parte dalla rappresentazione affettiva viene “convertito” in un fenomeno somatico (Freud).222
Se mediante frequente ripetizione tale riflesso anormale diventa del tutto facilitato, l’efficacia delle rappresentazioni suscitatrici vi si può esaurire, a quanto pare, con compiutezza tale che l’affetto stesso o emerge con intensità minima o non si forma affatto; allora, la “conversione isterica” è compiuta. La rappresentazione, però, che ora non ha più effetti psichici, può sfuggire all’individuo o il suo emergere può venire tosto dimenticato, come avviene con altre rappresentazioni non accompagnate da affetto.
Siffatta sostituzione di un eccitamento cerebrale – che dovrebbe determinare una rappresentazione – con un eccitamento di vie periferiche, diventa forse più accettabile ricordando il comportamento inverso nel caso di assenza di un riflesso preformato. Scelgo un esempio assai banale, il riflesso dello sternuto. Se uno stimolo nella mucosa del naso per un motivo qualunque non suscita questo riflesso preformato, nasce, com’è noto, un senso di eccitamento e di tensione. È l’eccitamento che non può defluire per le vie motorie e che ora, inibendo ogni altra attività, si diffonde per il cervello. Questo banalissimo esempio offre lo schema per il processo in caso d’assenza di riflessi psichici anche i più complessi. La sopradescritta eccitazione dovuta alla pulsione di vendetta è sostanzialmente la stessa cosa; e possiamo seguire il processo stesso fin nelle più elevate sfere delle azioni umane. Goethe non riesce a venire a capo di un’esperienza fintantoché non l’ha risolta in attività poetica. In lui è questa, che costituisce il riflesso preformato di un affetto, e fintantoché non si compie, sussiste la penosa esaltazione di eccitamento.
L’eccitamento intracerebrale e il processo eccitativo nelle vie periferiche sono di grandezza reciproca; il primo cresce quando e fintantoché non viene suscitato un riflesso, diminuisce e scompare quando si è convertito in eccitamento dei nervi periferici. Appare così anche comprensibile il fatto che non si abbia affetto osservabile quando la rappresentazione che lo dovrebbe suscitare provoca immediatamente un riflesso anormale in cui l’eccitamento in corso di formazione tosto defluisce. La “conversione isterica” è allora completa, l’eccitamento, intracerebrale in origine, dell’affetto si è convertito nel processo eccitativo di vie periferiche; la rappresentazione originariamente affettiva adesso non provoca più l’affetto, ma soltanto il riflesso anormale.223
Con questo abbiamo fatto un passo avanti, oltre l’“anormale espressione delle emozioni”. Il fenomeno isterico (riflesso anormale) non appare ideogeno, persino ai malati intelligenti e buoni osservatori, perché la rappresentazione causale non è, più, accentuata affettivamente e non si distingue più dalle altre rappresentazioni e rimembranze; appare come fenomeno puramente somatico, apparentemente senza radice psichica.
Ora, da che cosa viene determinata la scarica dell’eccitamento affettivo, tanto da creare un riflesso anormale e non un altro qualsiasi? A tale quesito, le nostre osservazioni rispondono, per molti casi, che anche questa scarica obbedisce al “principio di minor resistenza”, svolgendosi su quelle vie le cui resistenze sono già state ridotte da circostanze concorrenti. Ne fa parte il caso già dianzi discusso [vedi cap. 3, par. 3, in OSF, vol. 1] in cui un determinato riflesso sia facilitato da una malattia somatica; per esempio, se qualcuno soffre spesso di dolori cardiaci, questi vengono provocati anche dall’affetto. Oppure un riflesso è facilitato dal fatto che la rispettiva innervazione muscolare fu oggetto di specifico intendimento nell’istante dell’emozione primitiva; così Anna O. (primo caso clinico) nell’emozione di spavento cerca di allungare il braccio destro [ibid., cap. 2, par. 1], immobile per effetto di paralisi da compressione, per scacciare il serpente; a partire da allora il tetano del braccio destro viene provocato dalla vista di tutti gli oggetti serpiformi. Oppure [ibid.] essa nell’emozione converge fortemente gli occhi per riconoscere le lancette dell’orologio, ed ecco che lo strabismo convergente diventa uno dei riflessi di quell’emozione, e così via.
È questo l’effetto della contemporaneità, che del resto domina anche la nostra associazione normale; ogni percezione dei sensi ne richiama alla coscienza un’altra la quale in origine si era manifestata simultaneamente alla prima (esempio scolastico dell’immagine visiva di una pecora e del belato, ecc.). Se con l’affetto primitivo era esistita contemporaneamente una vivace impressione sensoria, questa viene nuovamente provocata dal rinnovarsi dell’affetto, e precisamente, dato che qui si tratta dello scaricarsi di un’eccitamento eccessivo, non come ricordo ma come allucinazione. Quasi tutti i nostri casi clinici ne offrono degli esempi. Un esempio del genere è dato da una donna che vive un affetto doloroso mentre soffre di violento dolore ai denti per una periostite, e poi ogni rinnovamento di quell’affetto, anzi il solo ricordo di esso, provoca una nevralgia sottorbitale [ibid., cap. 2, parr. 5 ed “Epícrisi”].
Tale è la facilitazione dei riflessi anormali secondo le leggi generali dell’associazione. Talvolta però (invero solo nei gradi piuttosto alti d’isteria) tra l’affetto e i suoi riflessi stanno delle vere serie di rappresentazioni associate; è questa la determinazione mediante simbolismo. Si tratta spesso di giuochi di parole ridicoli, di assonanze, che collegano l’affetto e il suo riflesso, ma ciò avviene solo in stati simili al sogno, con sminuita capacità di critica, e sta già al di fuori del gruppo di fenomeni qui considerato.
In moltissimi casi la determinazione rimane incomprensibile, perché la nostra intelligenza dello stato psichico e la nostra conoscenza delle rappresentazioni che erano attuali all’atto della formazione del fenomeno isterico spesso è estremamente incompleta. Ma possiamo presumere che il processo non sia del tutto dissimile da quello che ci appare con chiarezza nei casi più favorevoli.
Alle esperienze che suscitarono l’affetto originario, il cui eccitamento poi fu convertito in un fenomeno somatico, diamo il nome di traumi psichici, e ai fenomeni morbosi così insorti diamo il nome di sintomi isterici di origine traumatica (la designazione “isteria traumatica” è già adottata per i fenomeni che, quali conseguenze di lesioni del corpo, traumi in senso ristretto, costituiscono una parte della “nevrosi traumatica”).
In perfetta analogia con l’insorgenza dei fenomeni isterici traumaticamente determinati, si ha la conversione isterica di quell’eccitamento psichico che sorge non da stimoli esterni, non dall’inibizione di riflessi psichici normali, ma dall’inibizione del decorso delle associazioni. Esempio elementare e paradigma di ciò è l’eccitamento che nasce dal fatto di non ricordare un nome, di non riuscire a risolvere un indovinello e simili. Se ci vien detto il nome, o la parola dell’indovinello, l’eccitamento svanisce, chiudendosi la catena delle associazioni, proprio come quando si chiude una catena di riflessi. L’intensità dell’eccitamento che deriva dall’intoppo di una serie di associazioni, è proporzionale all’interesse che ha la serie per noi, vale a dire alla misura in cui smuove la nostra volontà. Dato però che nella ricerca di una soluzione del problema o simili viene sempre prestato un lavoro grande seppure senza successo, anche il forte eccitamento trova un suo impiego e non spinge alla scarica, per cui non diventa mai patogeno.
Lo diventa tuttavia quando il decorso delle associazioni viene inibito dal fatto che rappresentazioni equivalenti sono incompatibili fra di loro; come, per esempio, quando nuovi pensieri vengono a conflitto con complessi rappresentativi saldamente radicati. È di tale natura il tormento del dubbio religioso, cui tante persone soggiacciono e molte di più soggiacevano. Anche in tal caso, l’eccitamento, e con esso il dolore psichico (l’impressione sgradevole), crescono fino a un livello notevole soltanto quando entra in giuoco un interesse della volontà dell’individuo, quando il dubbioso si crede minacciato nella sua felicità, nella salvezza della propria anima. Questo è, tuttavia, sempre il caso quando il conflitto sussiste fra il complesso fisso, inculcato con l’educazione, delle rappresentazioni morali e il ricordo di azioni proprie o anche solo pensieri che con esse sono inconciliabili: ossia, il tormento della coscienza. L’interesse della volontà di gioire della propria personalità, di essere in pace con essa, entra in azione esaltando al massimo l’eccitamento dell’inibizione delle associazioni. Che un siffatto conflitto di rappresentazioni inconciliabili agisca in senso patogeno, è cosa dell’esperienza quotidiana. Si tratta per lo più di rappresentazioni e di fatti della vita sessuale: della masturbazione in adolescenti moralmente sensibili, della consapevolezza dell’inclinazione per un uomo estraneo in una donna di severi costumi. Anzi, spessissimo è sufficiente il primo manifestarsi di semplici sensazioni e rappresentazioni sessuali, da solo, a creare mediante il conflitto con la rappresentazione saldamente radicata della purezza morale uno stato di eccitamento di alto grado.224
Da tale stato derivano usualmente conseguenze psichiche; l’umore patologico, stati d’angoscia (Freud).225 Talvolta, però, da un concorso di circostanze viene determinato un fenomeno somatico anomalo, nel quale l’eccitamento si scarica: il vomito, quando il sentimento d’insudiciamento morale produce un senso di ribrezzo fisico; una tosse nervosa come in Anna O. [vedi cap. 2, par. 1, in OSF, vol. 1], quando la coscienza angosciata provoca un crampo della glottide, e così via.226
L’eccitamento che viene prodotto da rappresentazioni molto vivaci e da rappresentazioni inconciliabili ha una reazione normale, adeguata: la comunicazione verbale. Troviamo tale impulso, in comica esagerazione, nell’aneddoto del barbiere di Mida che grida il suo segreto227 alle canne palustri; lo troviamo, quale uno dei fondamenti di un’istituzione storica grandiosa, nella confessione verbale cattolica. La comunicazione dà sollievo, scarica la tensione anche quando non è fatta di fronte al sacerdote e non è seguita dalla assoluzione. Se all’eccitamento tale via d’uscita viene preclusa, esso si converte talvolta in un fenomeno somatico proprio come l’eccitamento degli affetti traumatici, e noi possiamo indicare tutto il gruppo di fenomeni isterici che hanno questa origine, con Freud, come fenomeni isterici da ritenzione.228
Quanto fin qui esposto circa il meccanismo psichico di formazione dei fenomeni isterici si presta alla critica di schematizzare e di rappresentare il processo come più semplice di quanto in realtà non sia. Perché in una persona sana, non originariamente nevropatica, si formi un autentico sintomo isterico, con la sua apparente indipendenza dalla psiche e la sua esistenza somatica indipendente, devono quasi sempre concorrere molteplici circostanze.
Il caso seguente può servire da esempio della natura complicata di questo processo. Un ragazzo dodicenne, già sofferente di pavor nocturnus e figlio di padre molto nervoso, tornò a casa da scuola, un giorno, non sentendosi bene. Lamentava disfagia, vale a dire riusciva a deglutire solo a fatica, e mal di capo. Il medico di famiglia presunse come causa un’angina. Ma anche dopo parecchi giorni il suo stato non migliorava. Il ragazzo non voleva mangiare, vomitava quando lo si costringeva, si trascinava in giro stanco e svogliato, voleva sempre stare a letto e deperì molto fisicamente. Quando lo vidi dopo cinque settimane, dava l’impressione di essere un fanciullo ombroso, chiuso in sé, ed ebbi la convinzione che il suo stato avesse una causa fisica. Alle insistenti domande, rispose indicando una causa banale, una severa reprimenda del padre, la quale, ovviamente, non era la vera ragione della malattia. Anche dalla scuola nulla si poté sapere. Promisi d’imporgli, in un secondo tempo, la comunicazione nell’ipnosi. Ma non fu necessario. Accadde che la madre, saggia ed energica, gli rivolgesse la parola con durezza, ed egli cominciò a raccontare tra fiotti di lacrime. Una volta, nel rincasare dalla scuola, era entrato in un orinatoio e là un uomo gli aveva presentato il pene pretendendo da lui che lo prendesse in bocca. Scappò terrorizzato, e non gli accadde altro. Ma da quel momento fu malato. Con l’istante della confessione il suo stato cedette il passo al perfetto benessere. – Per produrre il fenomeno dell’anoressia, della disfagia, del vomito, occorrevano qui parecchi fattori: la costituzione nervosa innata, lo spavento, l’irruzione della sessualità nella sua forma più brutale nell’animo del fanciullo e, quale fattore determinante, la rappresentazione della ripugnanza. La malattia dovette la sua durata al silenzio, che negava all’eccitamento la sua scarica naturale.
Come in questo caso, così devono sempre cooperare più fattori perché in una persona sino allora sana si formi un sintomo isterico; quest’ultimo è sempre “sovradeterminato”, secondo l’espressione di Freud.229
Può considerarsi una sovradeterminazione siffatta anche il fatto che lo stesso affetto venga provocato da più occasioni ripetute. Il malato e il suo ambiente riferiscono il sintomo isterico solo all’ultima occasione, la quale tuttavia, nella maggioranza dei casi, ha reso soltanto manifesto ciò che da altri traumi era già stato quasi del tutto compiuto.
Una giovane ragazza230 ebbe il suo primo attacco isterico, al quale fece seguito una serie di altri attacchi, quando nell’oscurità un gatto le saltò sulla spalla. Parve semplice effetto dello spavento. Un’indagine più precisa, tuttavia, mostrò che la fanciulla diciassettenne, eccezionalmente bella e poco sorvegliata, negli ultimi tempi era stata oggetto di molteplici insidie più o meno brutali e in tal modo era lei stessa venuta ad eccitarsi sessualmente (disposizione). Sulla medesima scala buia alcuni giorni prima era stata aggredita di sorpresa da un giovanotto ai cui approcci ella si era sottratta a fatica. Fu questo il trauma psichico vero e proprio, il cui effetto era stato solo reso manifesto dal gatto. Ma in quanti casi un gatto del genere passa per causa efficiens perfettamente sufficiente?
Per tale affermarsi della conversione grazie a una ripetizione dell’affetto, non è sempre necessaria una pluralità di occasioni esteriori; spesso basta anche il rinnovarsi dell’affetto nel ricordo, se quest’ultimo si presenta subito dopo il trauma, prima che l’affetto si sia affievolito, in ripetizione rapida e frequente. Basta questo, quando l’affetto è stato molto forte. È così nelle isterie traumatiche nel senso ristretto del termine. Nei giorni successivi a un incidente ferroviario, per esempio, si rivive nel sonno e nella veglia la scena di terrore, sempre col rinnovarsi dell’affetto terrificante, finché, dopo tale periodo di “elaborazione psichica” Charcot [vedi cap. 2, parr. 4 ed “Epícrisi”, in OSF, vol. 1]) o di incubazione, non si sia perfezionata la conversione in un fenomeno somatico (benché qui cooperi un altro fattore di cui si dirà in seguito).
Ordinariamente, però, la rappresentazione affettiva soggiace all’usura, a tutte quelle influenze toccate nella “Comunicazione preliminare” [ibid., cap. 1, par. 2], che poco alla volta la privano del suo valore affettivo.231 Il suo riemergere determina una misura sempre minore di eccitamento, e con ciò il ricordo perde il potere di contribuire alla produzione di un fenomeno somatico. La facilitazione del riflesso anormale svanisce e con ciò si ripristina lo status quo ante.
Gli influssi “usuranti” sono però tutti effetti dell’associazione, del pensare, correzione ad opera di altre rappresentazioni. Questa correzione diventa impossibile quando la rappresentazione affettiva venga sottratta al “rapporto associativo”; e, in un caso siffatto, detta rappresentazione conserva tutto il suo valore affettivo. Poiché, a ogni rinnovarsi, si libera sempre l’intera somma di eccitamento dell’affetto primitivo, la facilitazione di un riflesso anormale iniziato in passato finalmente si compie; o quella già compiuta si conserva e si stabilizza. Il fenomeno della conversione isterica allora risulta perfettamente stabilito in modo permanente.
Conosciamo, dalle nostre osservazioni, due forme di tale esclusione di rappresentazioni affettive dalle associazioni.
La prima è la “difesa”,232 la repressione arbitraria di rappresentazioni penose, dalle quali la persona si sente minacciata nella propria gioia di vivere o nella stima di sé stessa. Freud ha parlato di tale processo nella sua comunicazione Le neuropsicosi da difesa (1894) e nei casi clinici da lui qui presentati; è un processo che certamente riveste altissima importanza patologica. Invero non è comprensibile come mai una rappresentazione possa venire arbitrariamente rimossa dalla coscienza; ma noi conosciamo con precisione il corrispondente processo positivo: la concentrazione dell’attenzione su una rappresentazione; eppure anche qui non possiamo dire come lo compiamo. Ora, le rappresentazioni alle quali la coscienza volta le spalle, alle quali non si pensa, restano anche sottratte all’usura conservando intatto il loro valore affettivo.
Abbiamo inoltre trovato che un altro genere di rappresentazioni rimane sottratto all’usura ad opera del pensiero, non perché non le si voglia, ma perché non le si può ricordare; perché esse originariamente insorsero e vennero dotate di affetto in stati per i quali nella coscienza vigile esiste amnesia, cioè in stati ipnotici o simili all’ipnosi. Questi ultimi paiono rivestire altissima importanza per la dottrina dell’isteria e meritano perciò una discussione un po’ più approfondita.233
Quando nella “Comunicazione preliminare” asserimmo: “base e condizione dell’isteria è l’esistenza di stati ipnoidi” [vedi cap. 1, par. 3, in OSF, vol. 1], trascurammo che Moebius nel 1890 aveva già detto esattamente la stessa cosa. “Presupposto dell’azione (patogena) delle rappresentazioni è, da un canto, una disposizione innata, vale a dire la disposizione isterica, e un particolare stato d’animo dall’altro. Di questo stato d’animo ci si può fare solo un’idea imprecisa. Deve essere simile a quello ipnotico, deve corrispondere a un certo vuoto della coscienza, nel quale a una rappresentazione che si presenti non venga opposta alcuna resistenza da parte di altre e in cui, per così dire, sia libero il trono per la prima che capita. Sappiamo che uno stato siffatto, oltre che mediante ipnotizzazione, può venir provocato da scosse emotive (spavento, ira, ecc.) e da influssi che esauriscono (insonnia, fame, ecc.).”234
Il problema alla cui soluzione Moebius cercava di approssimarsi, è quello della formazione di fenomeni somatici mediante rappresentazioni. Egli, a tale proposito, ricorda la facilità con cui tale formazione avviene nell’ipnosi, e ritiene analoga l’azione degli affetti. Il nostro modo di vedere, alquanto differente, circa questa azione degli affetti è stato ampiamente esposto [vedi cap. 3, par. 2, punti B e C, in OSF, vol. 1]. Non occorre perciò che io mi addentri qui oltre nella difficoltà che si riscontra per il fatto che Moebius assume nell’ira un “vuoto della coscienza”235 (che sussiste in realtà nello spavento e nell’angoscia protratta), e dica quanto sia difficile in generale stabilire un’analogia fra lo stato di eccitamento nell’affetto e la quiete nell’ipnosi. Ritorneremo però più avanti [ibid., cap. 3, par. 4] sulle proposizioni di Moebius, le quali, penso, contengono un’importante verità.
Per noi, l’importanza degli stati simili all’ipnosi, “ipnoidi”, sta inoltre e anzitutto nell’amnesia e nel suo potere di determinare quella scissione della psiche di cui si dirà tra breve e che è di significato fondamentale per la “grande isteria”. Tale importanza noi attribuiamo loro tuttora. Devo tuttavia limitare essenzialmente la nostra proposizione. La conversione – la formazione ideogena dei fenomeni somatici – si compie anche al di fuori degli stati ipnoidi e, per la formazione di complessi di rappresentazioni che sono esclusi dai rapporti associativi, Freud ha trovato nell’amnesia volontaria della difesa una seconda fonte, indipendente dagli stati ipnoidi. Ma, con questa limitazione, penso tuttora che questi ultimi siano causa e condizione di molte e anzi della maggior parte delle isterie grandi e complicate.
Fra gli stati ipnoidi si annoverano naturalmente soprattutto le autoipnosi reali, che si distinguono dalle artificiali soltanto per la loro genesi spontanea. Le troviamo in talune isterie pienamente sviluppate, con frequenza variabile e con varia durata, spesso in rapidissima alternanza con lo stato della veglia normale (vedi i Casi clinici 1 e 2). A motivo del loro contenuto rappresentativo, paragonabile ai sogni, meritano spesso il nome di delirium hystericum. Nella veglia, per i processi interni di questi stati sussiste un’amnesia più o meno completa, mentre nell’ipnosi artificiale essi vengono perfettamente ricordati. I risultati psichici di tali stati, le associazioni in essi formate, sono appunto sottratti dall’amnesia a qualsiasi correzione del pensiero vigile. E dato che nell’autoipnosi la critica e il controllo tramite altre rappresentazioni sono ridotti e, di solito, quasi del tutto scomparsi, possono sgorgare da essa le rappresentazioni deliranti più pazze e rimanere intatte per lungo tempo. Nasce così, quasi soltanto in stati siffatti, un’alquanto complicata e irrazionale “relazione per così dire simbolica tra il fatto originario e il fenomeno patologico” [vedi cap. 1, par. 1, in OSF, vol. 1], la quale, invero, spesso si basa sulle più risibili assonanze e associazioni verbali. Alla acriticità degli stati autoipnotici si deve il fatto che ne nascano tanto spesso autosuggestioni, quando, per esempio, dopo un attacco isterico rimane una paralisi. Per altro, forse per caso, nelle nostre analisi non ci siamo praticamente mai imbattuti in questo tipo di genesi di un fenomeno isterico. Li troviamo sempre determinati, anche nell’autoipnosi, dallo stesso processo come al di fuori di essa, dalla conversione di un eccitamento affettivo.
Questa “conversione isterica” si compie nell’autoipnosi, comunque, più facilmente che non nella veglia, così come del resto nell’ipnosi artificiale con tanto maggiore facilità le rappresentazioni suggestive si realizzano somaticamente quali allucinazioni e movimenti. Ma il processo della conversione dell’eccitamento è nondimeno, nella sostanza, il medesimo che fu esposto più sopra. Una volta accaduto, il fenomeno somatico si ripete quando affetto e autoipnosi nuovamente s’incontrano. E sembra che lo stato ipnotico venga allora provocato dall’affetto stesso. Così in un primo tempo, fintantoché l’ipnosi si alterna puramente con la veglia perfetta, il sintomo isterico rimane limitato allo stato ipnotico e viene rafforzato dalla ripetizione in quest’ultimo; inoltre, la rappresentazione che dà la spinta rimane protetta contro la correzione del pensiero vigile e della sua critica, appunto perché nella veglia lucida essa non emerge mai.
Così in Anna O. [ibid., cap. 2, par. 1] la contrattura del braccio destro, che nell’autoipnosi si era associata con l’affetto d’angoscia e con la rappresentazione del serpente, rimase limitata per quattro mesi ai momenti dello stato ipnotico (o, se questo termine non dovesse apparire adatto per assenze di durata brevissima, dello stato ipnoide), ma ripetendosi spesso. Lo stesso avveniva con altre conversioni compiute nello stato ipnoide, e così in perfetta latenza si costituì quel grande complesso di fenomeni isterici che apparve manifesto quando lo stato ipnoide divenne permanente.
Nella veglia lucida i fenomeni così formatisi si manifestano soltanto quando si è compiuta la scissione della psiche, di cui si dirà più avanti, e l’alternarsi degli stati desti e ipnoidi è stato sostituito dalla coesistenza dei complessi, normale e ipnoide, di rappresentazioni.
Esistono tali stati ipnoidi già prima della malattia e come vengono a costituirsi? Ne so dire ben poco, giacché non disponiamo di altra osservazione, all’infuori del caso di Anna O., che possa fornire un chiarimento al proposito. In quella malata pare certo che l’autoipnosi fosse preparata da sogni abituali e che poi fosse stabilita in pieno da un affetto d’angoscia protratto che del resto da solo costituisce la base di uno stato ipnoide. Non appare inverosimile che tale processo abbia valore più generale.
Stati molto diversi determinano “assenza mentale”, ma solo alcuni di essi dispongono all’autoipnosi o vi si trasformano direttamente. Un ricercatore che sia immerso in un problema è certamente anche anestetico in una certa misura e non riesce a formare percezioni coscienti per grandi gruppi di sensazioni; e avviene proprio così a chi vada vivacemente creando fantasie (“teatro privato” di Anna O. [vedi cap. 2, par. 1, in OSF, vol. 1]). In tali stati però viene energicamente prestato un lavoro psichico, e vi viene impiegato l’eccitamento del sistema nervoso che viene liberato. Nella distrazione, negli stati crepuscolari della mente, per contro, l’eccitamento intracerebrale scende al di sotto del livello della veglia lucida; questi stati confinano con la sonnolenza e sono una transizione verso il sonno. Se in tali stati dell’“essere assorti” e dove il decorso delle rappresentazioni è inibito, un gruppo di rappresentazioni accentuate affettivamente è vivo, esso crea un elevato livello di eccitamento intracerebrale, che non viene impiegato in un’attività psichica ed è disponibile per prestazioni anomale, com’è la conversione.
Così, non sono patogeni né l’“assenza mentale” in caso di lavoro energetico né lo stato crepuscolare privo di affetto, bensì il sognare colmo di affetto e lo stato di fatica che deriva dal protrarsi degli affetti. L’arrovellarsi della persona preoccupata, l’angoscia di chi veglia al capezzale di un malato caro, la fantasticheria degli innamorati, sono stati siffatti. La concentrazione sul gruppo di rappresentazioni affettive determina anzitutto l’“assenza”. Gradualmente, il decorso delle rappresentazioni rallenta, finendo quasi per stagnare; ma la rappresentazione affettiva e il suo affetto rimangono vivi e con essi anche la grande quantità di eccitamento che non è impiegata in modo funzionale. La somiglianza delle situazioni con quelle caratteristiche dell’ipnosi appare evidente. Anche la persona da ipnotizzare non deve addormentarsi realmente, vale a dire il suo eccitamento intracerebrale non deve scemare sino al livello del sonno; il decorso delle rappresentazioni deve però venire ostacolato. Allora, tutta la massa dell’eccitamento rimane a disposizione della rappresentazione suggerita.
Così pare nasca l’autoipnosi patogena in talune persone, in quanto l’affetto s’introduce nella fantasticheria abituale. È questa, forse, una delle ragioni per cui nell’anamnesi dell’isteria incontriamo tanto spesso i due grandi fattori patogeni: l’innamoramento e l’assistenza ai malati. Il primo crea con il pensiero nostalgico all’essere amato assente il “rapimento”, l’oscurarsi della realtà circostante e poi l’arrestarsi colmo di affetto del pensiero; l’assistenza ai malati con la quiete esteriore, la concentrazione su un oggetto, lo stare in ascolto del respiro del malato, realizza proprio le medesime condizioni di molti metodi di ipnotizzazione, conferendo allo stato crepuscolare così formatosi l’affetto d’angoscia. Forse, tali stati si distinguono solo quantitativamente dalle vere autoipnosi e introducono ad esse.
Una volta che ciò si sia verificato, lo stato simile all’ipnosi si ripete sempre di nuovo nelle stesse circostanze e allora l’individuo, invece dei due stati psichici normali, ne possiede tre: la veglia, il sonno e lo stato ipnoide, come osserviamo anche in caso di ripetizione frequente dell’ipnosi artificiale profonda.
Non so dire se gli stati ipnotici spontanei possano svilupparsi anche senza tale intervento dell’affetto, quali risultati di una predisposizione originaria; ritengo però che ciò sia assai verosimile. Quando vediamo quanto è varia nelle persone sane e malate l’attitudine all’ipnosi artificiale, quanto facilmente essa si verifica in taluni, è ovvio sospettare che in essi avvenga anche spontaneamente. E la predisposizione a ciò è forse necessaria perché lo stato trasognato si trasformi in autoipnosi. Sono quindi ben lontano dal presupporre in tutte le persone isteriche il meccanismo di genesi che Anna O. ci ha fatto apprendere.
Parlo di stati ipnoidi anziché di ipnosi perché questi stati, tanto importanti nello svilupparsi dell’isteria, sono assai male delimitati. Non sappiamo se il fantasticare, che qui sopra è stato indicato come stadio preliminare dell’autoipnosi, non possa già compiere di per sé la medesima funzione patogena di quest’ultima, e se per l’affetto d’angoscia protratto non possa dirsi lo stesso. Per lo spavento, la cosa è sicura. In quanto inibisce il decorso delle rappresentazioni mentre una rappresentazione affettiva (di pericolo) è vivacissima, esso presenta un completo parallelismo col fantasticare carico di affetto; e in quanto il ricordo sempre rinnovato continua a ripristinare tale stato psichico, nasce uno “spavento ipnoide”, nel quale la conversione si afferma o si stabilizza; si ha lo stato d’incubazione dell’“isteria traumatica”, in senso stretto.
Dato che stati così diversi ma concordanti nel punto più importante si allineano con l’autoipnosi, è consigliabile l’espressione “ipnoide”, che sottolinea questa intima somiglianza. Essa riassume quel punto di vista propugnato da Moebius nelle frasi più sopra citate [vedi cap. 3, par. 4, in OSF, vol. 1]. Anzitutto però essa indica l’autoipnosi stessa, la cui importanza per la genesi dei fenomeni isterici consiste nel fatto che agevola la conversione e protegge (mediante l’amnesia) le rappresentazioni convertite contro l’usura; protezione, questa, da cui deriva infine un aumento nella scissione psichica.
Se un sintomo somatico è causato da una rappresentazione e viene ogni volta provocato da essa, ci si dovrebbe aspettare che i pazienti intelligenti e capaci di autoosservazione fossero consapevoli di tale connessione; che sapessero per esperienza che il fenomeno somatico si presenta contemporaneamente al ricordo di un determinato evento. Il nesso causale intimo certamente è loro ignoto; ma noi tutti sappiamo però sempre quale rappresentazione ci faccia piangere o ridere o arrossire, anche se il meccanismo nervoso di tali fenomeni ideogeni non ci è nemmeno lontanamente chiaro. Ora, in realtà, talvolta i pazienti osservano davvero la connessione e ne sono consci; una donna dice, per esempio, che il lieve attacco isterico (all’incirca tremore e palpitazione) proverrebbe da una certa grande agitazione emotiva e si ripeterebbe soltanto in occasione di ogni fatto che la ricordi. Ma non è così per moltissimi, certamente per la maggioranza dei sintomi isterici. Anche i pazienti intelligenti non sanno che essi si verificano a seguito di una rappresentazione e li considerano fenomeni somatici autonomi. Se non fosse così, la teoria psichica dell’isteria avrebbe già raggiunto un’età rispettabile.
Si è portati a credere che i fenomeni morbosi in questione siano bensì originariamente ideogeni, ma che la ripetizione li abbia, per dirla con Romberg,236 “impressi” nel corpo, ed ora non sarebbero più basati su un processo psichico, ma sulle modificazioni nel frattempo createsi del sistema nervoso; sarebbero diventati sintomi autonomi, autenticamente somatici.
A priori, questa ipotesi non è né impossibile né inverosimile. Ma io credo che la novità che le nostre osservazioni apportano alla dottrina dell’isteria, sta appunto nella prova che tale ipotesi – per lo meno in moltissimi casi – non è appropriata. Abbiamo visto che i più diversi sintomi isterici scomparivano dopo anni di esistenza “subito e in modo definitivo, quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell’evento determinante, risvegliando insieme anche l’affetto che l’aveva accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento nel modo più completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto” [vedi cap. 1, par. 1, in OSF, vol. 1]. Le storie cliniche qui narrate forniscono alcune prove di tale affermazione. “Invertendo il detto: cessante causa cessat effectus, ci sarà lecito dedurre da queste osservazioni che l’evento determinante” (vale a dire il ricordo di esso) “continua ad agire in qualche modo ancora per anni, non indirettamente per il tramite di una catena di anelli causali intermedi, ma come causa diretta, circa come un dolore psichico coscientemente ricordato da sveglio provoca, anche dopo molto tempo, secrezione di lacrime: l’isterico soffrirebbe per lo più di reminiscenze” [ibid.]. Ma se così è, se il ricordo del trauma psichico a guisa di un corpo estraneo deve valere per lungo tempo dopo la sua introduzione ancora da agente che opera nel presente e tuttavia il paziente non ha alcuna coscienza di tali ricordi e del loro emergere, dobbiamo ammettere che esistono e agiscono rappresentazioni inconsce.
Nell’analisi dei fenomeni isterici, però, troviamo solo rappresentazioni inconsce isolate; dobbiamo invece riconoscere che realmente, come mostrano i meritevoli ricercatori francesi, grandi complessi di rappresentazioni e processi psichici ricchi di conseguenze in taluni malati restano del tutto inconsci, coesistendo con la vita psichica cosciente; che si verifica una scissione dell’attività psichica che è di fondamentale importanza per la comprensione delle isterie complicate.
Ci sia permesso di addentrarci un poco in questo campo difficile ed oscuro; la necessità di stabilire il significato delle espressioni adoperate potrà in qualche modo scusare la discussione teorica che segue.
5. Rappresentazioni
inconsce e inammissibili alla coscienza.
Scissione della psiche
Noi chiamiamo coscienti quelle rappresentazioni delle quali sappiamo. Esiste nell’uomo il meraviglioso fatto dell’autocoscienza; noi possiamo considerare e osservare, come oggetti, rappresentazioni che nascono e si susseguono in noi. Ciò non avviene sempre, dato che rara è l’occasione per l’autoosservazione. Ma è una facoltà propria a tutti gli uomini, perché ognuno dice: “Ho pensato questo e quest’altro.” Le rappresentazioni che osserviamo vive in noi o che osserveremmo se ci badassimo, le chiamiamo coscienti. In ogni istante sono solo molto poche; e se, oltre a queste, ne dovessero essere attuali anche altre, le dovremmo chiamare rappresentazioni inconsce.
Non sembra nemmeno più necessario spendere parole per propugnare l’esistenza di rappresentazioni attuali ma inconsce o subconsce.237 Sono fatti della vita più quotidiana. Quando ho dimenticato di fare una visita medica, sento una viva inquietudine; so per esperienza che cosa tale sensazione significhi: una dimenticanza. Invano esamino i miei ricordi, non trovo la causa finché, spesso dopo ore, improvvisamente entra nella mia coscienza. Ma, per tutto quel tempo, sono inquieto. L’idea di quella visita dunque è sempre attiva, quindi anche sempre presente, ma non nella coscienza. Oppure: un uomo occupato ha avuto un dispiacere il mattino; il suo ufficio lo assorbe interamente; durante il lavoro, il suo pensiero cosciente è del tutto occupato ed egli non pensa alla sua contrarietà. Ma le sue decisioni ne vengono influenzate ed egli magari dice di no dove di solito direbbe di sì. Dunque, il ricordo è comunque attivo, e quindi presente. Una gran parte di quel che chiamiamo umore proviene da tale fonte, da rappresentazioni che esistono e agiscono sotto la soglia della coscienza. Anzi, tutta la condotta della nostra vita viene continuamente influenzata da rappresentazioni subconsce. Vediamo giornalmente come nel decadimento mentale, per esempio all’inizio di una paralisi, diventano più deboli e scompaiono le inibizioni che altrimenti impediscono certe azioni. Ma il malato che adesso davanti alle donne dice oscenità, quand’era sano non ne era stato trattenuto da ricordi e riflessioni coscienti. Le evitava “istintivamente” ed “automaticamente”, vale a dire lo trattenevano rappresentazioni provocate dall’impulso a quell’azione, che pur rimanendo sotto la soglia della coscienza inibivano tuttavia l’impulso. – Ogni attività intuitiva è guidata da rappresentazioni che in gran parte sono subconsce. Infatti soltanto le rappresentazioni più chiare, più intense, vengono percepite dall’autocoscienza, mentre la grande massa delle rappresentazioni attuali, ma più deboli, rimane inconscia.
Ciò che si obietta contro l’esistenza e l’attività delle “rappresentazioni inconsce” appare in gran parte come un cavillo verbale. Certamente “rappresentazione” è un vocabolo tolto dalla terminologia del pensiero cosciente e perciò “rappresentazione inconscia” è un’espressione contraddittoria. Ma il processo fisico che sta alla base della rappresentazione, come contenuto e come forma (anche se non come quantità) è lo stesso, sia che la rappresentazione varchi la soglia della coscienza sia che ne rimanga al di sotto. Basterebbe coniare un termine, come ad esempio “substrato rappresentativo”, per evitare la contraddizione e sfuggire a quella critica.
Non pare quindi che esista alcun ostacolo di principio al riconoscimento delle rappresentazioni inconsce anche quali cause di fenomeni patologici. Ma, nell’addentrarsi più a fondo nella materia, risultano altre difficoltà. Di solito, quando l’intensità delle rappresentazioni inconsce cresce, esse ipso facto penetrano nella coscienza. Rimangono inconsce soltanto quando la loro intensità è esigua. Sembra però difficile capire come mai una rappresentazione possa essere nello stesso tempo abbastanza intensa per provocare, ad esempio, una vivace azione motoria, eppure non esserlo abbastanza per diventare cosciente.
Ho già menzionato [vedi cap. 3, par. 3, in OSF, vol. 1] un modo di vedere che, forse, non si dovrebbe respingere senz’altro. La chiarezza delle nostre rappresentazioni e quindi la loro attitudine a venir osservate dall’autocoscienza, cioè ad essere coscienti, è determinata, tra l’altro, anche dalle sensazioni di piacere o di dispiacere che destano, dal loro valore affettivo.238 Se una rappresentazione produce immediatamente una vivace conseguenza somatica, l’eccitamento defluisce nella via coinvolta, mentre altrimenti si diffonderebbe nel cervello; e, appunto per questo, perché ha conseguenze somatiche, perché ha avuto luogo una “conversione” del suo cumulo di stimolo psichico in stimolo somatico, essa perde la chiarezza che altrimenti l’avrebbe distinta nella corrente delle rappresentazioni: si perde tra le altre.
Una persona ha avuto, per esempio, durante il pasto, una violenta emozione e non l’ha “abreagita”. In seguito, nel tentativo di mangiare, si manifestano strozzamento e vomito, che appaiono al malato come sintomi puramente fisici. Sussiste, per un certo tempo, un vomito isterico il quale scompare dopo che nell’ipnosi l’affetto è stato rinnovato, narrato e si è avuta una reazione ad esso. Indubbiamente, col tentativo di mangiare, è stato ridestato ogni volta quel ricordo che ha provocato l’atto del vomito. Ma il ricordo non entra chiaramente nella coscienza perché ormai privo di affetto, mentre il vomito assorbe completamente l’attenzione.
È pensabile che per questa ragione talune rappresentazioni, le quali producono fenomeni isterici, non vengano riconosciute come causa di questi ultimi. Ma tale sfuggire di rappresentazioni, diventate prive di affetto perché convertite, non può certamente essere la causa del mancato ingresso nella coscienza, in altri casi, di complessi di rappresentazioni tutt’altro che prive di affetto. Nelle nostre storie cliniche se ne trovano molti esempi.
In tali malati è regola che il cambiamento di umore – l’ansietà, l’irritazione irosa, la tristezza – preceda il manifestarsi del sintomo somatico o lo segua subito dopo, per crescere fino a che non si giunga alla risoluzione mediante l’espressione verbale, oppure l’affetto e i fenomeni somatici non scompaiano di nuovo gradualmente. Quando avveniva la prima cosa, la qualità dell’affetto diventava sempre interamente comprensibile, sebbene la sua intensità dovesse sembrare del tutto sproporzionata alla persona sana, e dopo la risoluzione, anche al paziente stesso. Si tratta quindi di rappresentazioni abbastanza intense da causare non solo forti fenomeni somatici, ma da provocare anche l’affetto relativo, da influenzare l’associazione – facendole preferire pensieri affini – e che tuttavia restano esse stesse al di fuori della coscienza. Occorre l’ipnosi (come nei Casi 1 e 2), oppure (Casi 4 e 5) l’intenso concorso del medico nella faticosa ricerca per portarle alla coscienza.
Tali rappresentazioni che sono (attuali ma) inconsce, non per vivacità relativamente debole, ma nonostante la loro grande intensità, le potremmo chiamare rappresentazioni “inammissibili alla coscienza”.239
L’esistenza di tali rappresentazioni inammissibili alla coscienza è patologica. Nella persona sana, tutte le rappresentazioni che di massima sono atte a diventare attuali entrano di fatto nella coscienza quando hanno sufficiente intensità. Nei nostri malati, troviamo affiancati il grande complesso delle rappresentazioni ammissibili alla coscienza e uno più piccolo di rappresentazioni inammissibili. La regione dell’attività psichica rappresentatrice, dunque, non coincide in essi con la coscienza potenziale; ma questa è più limitata di quella. L’attività psichica rappresentatrice si scinde qui in una parte cosciente e in una inconscia, le rappresentazioni in ammissibili alla coscienza e inammissibili. Non possiamo quindi parlare di una scissione della coscienza, bensì di una scissione della psiche.
Inversamente, queste rappresentazioni subconsce non si possono influenzare e nemmeno correggere con il pensiero cosciente. Spesso, si tratta di esperienze diventate nel frattempo prive di contenuto: timore di avvenimenti che non si sono verificati, terrore che si è risolto in risa o gioia per il salvataggio. Questi ulteriori svolgimenti tolgono al ricordo, per il pensiero cosciente, ogni affettività, ma la rappresentazione subconscia, che provoca fenomeni somatici, ne rimane perfettamente intatta.
Sia lecito addurne ancora un esempio. Una giovane donna era per qualche tempo vivacemente preoccupata per il destino di sua sorella minore. Sotto tale impressione, il periodo mestruale, di solito regolare, si protrasse per due settimane, si manifestò dolorosità dell’ipogastrio sinistro e due volte la paziente, svegliandosi da un “deliquio”, si ritrovò rigida sul pavimento. Seguì poi un’ovarialgia del lato sinistro con fenomeni di peritonite grave. L’assenza di febbre, la contrattura della gamba sinistra (e della schiena) caratterizzavano la malattia come pseudo-peritonite; e quando la paziente, alcuni anni dopo, morì e venne sottoposta ad autopsia, si trovò soltanto una “degenerazione a cisti piccole” di ambedue le ovaie senza residui di una decorsa peritonite. I fenomeni gravi svanirono gradualmente lasciandosi dietro l’ovarialgia, la contrattura dei muscoli della schiena – così che il torso era rigido come una trave – e la contrattura della gamba sinistra. Quest’ultima venne eliminata nell’ipnosi mediante suggestione diretta. La contrattura della schiena non risultò influenzata. Nel frattempo, la faccenda della sorella si era completamente risolta e ogni timore era scomparso. I fenomeni isterici, però, che vi si dovevano far risalire, sussistevano invariati. Si era portati a credere che si trattasse di modificazioni dell’innervazione diventate indipendenti e non più legate alla rappresentazione causale. Quando, però, nell’ipnosi la paziente fu obbligata a narrare tutta la storia fino a quando cadde ammalata di “peritonite” (cosa che fece assai malvolentieri), immediatamente dopo si mise a sedere liberamente nel letto e la contrattura della schiena scomparve per sempre (l’ovarialgia, la cui prima origine certamente era molto più vecchia, non risultò influenzata). Dunque, per mesi, la rappresentazione angosciosa patogena aveva comunque continuato a esistere vivamente attiva; ed era stata assolutamente inaccessibile a ogni correzione da parte degli avvenimenti.
Ora, se dobbiamo riconoscere l’esistenza di complessi di rappresentazioni che non entrano mai nella coscienza e non vengono influenzati dal pensiero cosciente, abbiamo ammesso con ciò, anche per isterie tanto semplici come quella ora descritta, la scissione della psiche in due parti relativamente indipendenti. Non sostengo che tutto quel che si chiama isterico abbia per fondamento e condizione una siffatta scissione; ma che “quella scissione dell’attività psichica così sorprendente nei noti casi di double conscience, esiste in stato rudimentale in ogni grande isteria”, e che “l’attitudine e la tendenza a tale dissociazione è il fenomeno basilare di questa nevrosi”.240
Prima tuttavia di addentrarmi nella discussione di tali fenomeni, occorre aggiungere un’osservazione circa le rappresentazioni inconsce che causano fenomeni somatici. Come, nel caso sopra narrato, la contrattura, molti dei fenomeni isterici sono di lunga durata continuativa. Dobbiamo e possiamo supporre che per tutto quel tempo la rappresentazione causale esista sempre, viva e attuale? Credo di sì. È bensì vero che nella persona sana vediamo l’attività psichica compiersi con rapido alternarsi di rappresentazioni. Ma vediamo il malinconico grave che è assorto per lungo tempo in modo continuativo nella medesima rappresentazione penosa, la quale è sempre viva, attuale. Anzi, possiamo ben credere che anche nel sano che abbia una grave preoccupazione essa esista sempre, dato che domina l’espressione del volto anche quando la coscienza è piena di altri pensieri. Ma quella parte separata dell’attività psichica, nell’isterico, che riteniamo colma di rappresentazioni inconsce, è per lo più occupata da un numero così scarso di esse, è così inaccessibile allo scambio con le impressioni esterne, da lasciarci credere che qui una rappresentazione singola possa avere vivezza permanente.
Se a noi sembra, come a Binet e a Janet, che la separazione di una parte dell’attività psichica stia al centro dell’isteria, abbiamo il dovere di cercare di chiarire il più possibile questo fenomeno. È fin troppo facile cadere nell’abito mentale di supporre una sostanza dietro un sostantivo, di vedere poco per volta un oggetto dietro il concetto di “coscienza”, e quando ci si è abituati a usare metaforicamente relazioni locali, come nel caso di “subconscio”, con l’andar del tempo si sviluppa realmente una rappresentazione ove la metafora è dimenticata e che possiamo manipolare facilmente come fosse reale. Allora la mitologia è completa.
A tutto il nostro pensare s’impongono l’accompagnamento e l’ausilio delle rappresentazioni spaziali, e parliamo in metafore spaziali. Così, le immagini del tronco dell’albero che sta alla luce e ha le sue radici nell’oscurità, o dell’edificio e del suo sotterraneo buio, si presentano in modo quasi obbligato quando parliamo delle rappresentazioni che si riscontrano nella regione della coscienza lucida e di quelle inconsce che non entrano mai nella chiarezza dell’autocoscienza. Tuttavia, se teniamo sempre presente che tutto quanto attiene al luogo qui è metafora, e non ci lasciamo alle volte tentare di localizzarlo nel cervello, ci sarà lecito comunque parlare di una coscienza e di un subconscio. Ma soltanto con questa riserva.
Saremo sicuri dal pericolo di lasciarci ingannare dalle nostre proprie figure retoriche, se ricorderemo costantemente che è pur sempre lo stesso cervello e, con la massima probabilità, la stessa corteccia cerebrale la regione in cui si formano tanto le rappresentazioni coscienti quanto quelle inconsce.241 Come ciò sia possibile, non lo si può dire. Sappiamo comunque tanto poco dell’attività psichica della corteccia cerebrale, che una complicazione enigmatica in più aumenta di ben poco la nostra già infinita ignoranza. Dobbiamo riconoscere il fatto che nelle persone isteriche una parte dell’attività psichica è inaccessibile alla percezione da parte dell’autocoscienza della persona sveglia, e così la psiche è scissa.
Un caso generalmente noto di tale scissione dell’attività psichica è l’attacco isterico in talune sue forme e in taluni suoi stadi. Al suo inizio il pensiero cosciente è sovente spento; ma poi gradualmente si desta. Molti malati intelligenti ammettono che il loro Io cosciente, durante l’attacco, era stato del tutto lucido e aveva osservato con curiosità e stupore tutte quelle cose folli fatte e dette da loro stessi. Questi pazienti, poi, ritengono (erroneamente) che, con buona volontà, avrebbero potuto inibire l’attacco, e sono inclini ad attribuirsene la colpa. “Non avrebbero dovuto farlo” (anche le autoaccuse di simulazione sono basate in gran parte su questa sensazione).242 Nell’attacco successivo, poi, l’Io cosciente non riuscirà a dominare i fatti, esattamente come nell’attacco precedente. – Ecco dunque il pensare e il rappresentare dell’Io sveglio cosciente a fianco di quelle rappresentazioni, normalmente nel buio dell’inconscio, che hanno ora ottenuto il dominio sulla muscolatura e il linguaggio, anzi anche il dominio su una parte dell’attività rappresentatrice stessa; e la scissione della psiche è manifesta.
I reperti di Binet e di Janet meritano di essere descritti come casi di scissione non solo dell’attività psichica, ma della coscienza. Com’è noto, questi osservatori sono riusciti a stabilire rapporti con il “subconscio” dei loro malati, con quella parte dell’attività psichica della quale l’Io desto cosciente non sa nulla; ed essi hanno ivi dimostrato in taluni dei loro casi l’esistenza di tutte le funzioni psichiche, inclusa l’autocoscienza, ritrovandovi il ricordo di eventi psichici anteriori. Questa mezza psiche è quindi a sua volta completa e in sé cosciente. Nei nostri casi, la parte scissa della psiche è “ricacciata nelle tenebre”,243 così come i Titani sono esiliati nell’abisso dell’Etna, e possono scuotere la terra, ma non appaiono mai alla luce. Nei casi di Janet, si è avuta una totale divisione del regno. Ancora, però, con una differenza di rango. Ma anche questa scompare quando le due metà della coscienza si alternano come nei casi noti di double conscience, e quando non si distinguono per capacità di prestazione.
Ma ritorniamo a quelle rappresentazioni che abbiamo dimostrato nei nostri pazienti come cause dei loro fenomeni isterici. Siamo ancora lontani dal poterle chiamare tutte semplicemente “inconsce” e “inammissibili alla coscienza”. Dalla rappresentazione perfettamente cosciente, che provoca un riflesso inusitato, fino a quella che entra nella coscienza non mai nella veglia ma solo nell’ipnosi, c’è una scala quasi ininterrotta che passa per tutti i gradi di tenebrosità e difetto di chiarezza. Riteniamo tuttavia provato che nei gradi più alti di isteria la scissione dell’attività psichica sussista, ed essa sola sembra rendere possibile una teoria psicologica della malattia.
Che cosa si può ora dire o supporre con verosimiglianza circa la causa e la genesi di questo fenomeno?
Janet, al quale la dottrina dell’isteria tanto deve e con il quale concordiamo in quasi tutti i punti, ha sviluppato a questo proposito un’ipotesi che non possiamo fare nostra.244
Janet ritiene che la “scissione della personalità” sia basata su una originaria debolezza mentale (insuffisance psychologique). Ogni attività mentale normale presupporrebbe una certa capacità di “sintesi”, la possibilità di collegare più rappresentazioni formandone un complesso. La fusione delle diverse percezioni sensorie in un’immagine dell’ambiente sarebbe già un’attività sintetica siffatta. Negli isterici, questa prestazione della psiche si troverebbe essere molto al di sotto della norma. È vero che una persona normale, quando la sua attenzione è orientata al massimo su un punto, per esempio sulla percezione per mezzo di un senso, perde transitoriamente la capacità di appercepire impressioni degli altri sensi, vale a dire di accoglierle nel pensiero cosciente, ma negli isterici ciò accadrebbe senza una qualche particolare concentrazione dell’attenzione. Se percepiscono qualche cosa, sono inaccessibili per le altre percezioni sensorie. Anzi, non sarebbero neanche in grado di afferrare raccolte nemmeno le impressioni di un solo senso. Possono, ad esempio, appercepire solo le percezioni tattili di una metà del corpo; quelle dell’altro lato raggiungono il centro e sono utilizzate per la coordinazione dei movimenti, ma non sono appercepite. Un essere cosiffatto è emianestetico. Nella persona normale, una rappresentazione ne richiama alla coscienza associativamente una quantità di altre che, rispetto alla prima, assumono un rapporto, per esempio di sostegno o d’inibizione, e solo le rappresentazioni più vivaci sono talmente sovraintense che le loro associazioni restano sotto la soglia della coscienza. Negli isterici, questo accadrebbe sempre. Ogni rappresentazione occuperebbe tutta l’esigua attività mentale; ciò determinerebbe l’eccessiva affettività dei malati. Janet designa questa proprietà della loro psiche con il termine di “restrizione del campo della coscienza” degli isterici, in analogia alla “restrizione del campo visivo”. Le impressioni sensorie non appercepite e le rappresentazioni destate ma non entrate nella coscienza si spengono per lo più senza ulteriori conseguenze, talora però si aggregano formando complessi – strati psichici sottratti alla coscienza;245 – esse formano il subconscio. L’isteria, essenzialmente basata su tale scissione della psiche, sarebbe una maladie par faiblesse [malattia da debolezza], e per questo si svilupperebbe di preferenza quando sulla psiche, originariamente debole, agiscono ulteriori influssi indebolenti, o quando le si pongono elevate esigenze, rispetto alle quali la forza mentale appare ancora più scarsa.
Questa esposizione delle vedute di Janet ha già risposto anche all’importante quesito circa la disposizione all’isteria, cioè circa il typus hystericus (in un’accezione di questo termine simile a quella adottata nel parlare di typus phtisicus, dove s’intende il torace lungo e stretto, il cuore piccolo, ecc.). Janet ritiene una determinata forma di debolezza mentale innata come disposizione all’isteria. Di contro a ciò vorremmo formulare la nostra ipotesi brevemente nel modo seguente: la scissione della coscienza non si verifica perché i malati siano frenastenici; al contrario, i malati sembrano frenastenici perché la loro attività psichica è divisa e solo una parte della sua capacità di prestazione è disponibile per il pensiero cosciente. Non possiamo considerare la debolezza mentale come typus hystericus, cioè come l’essenza della disposizione all’isteria.
Quel che s’intende dire con la prima proposizione potrà essere chiarito con un esempio. Molte volte potemmo osservare in una delle nostre pazienti (la signora Cäcilie M.) il seguente processo. In un benessere relativo, si verificava un sintomo isterico: un’allucinazione tormentosa, ossessionante, una nevralgia o cosa simile, la cui intensità andava aumentando per qualche tempo. Contemporaneamente, la sua capacità mentale diminuiva continuamente e, dopo alcuni giorni, ogni osservatore non iniziato avrebbe dovuto chiamarla deficiente. In seguito essa veniva liberata dalla rappresentazione inconscia (il ricordo di un trauma psichico spesso molto remoto) o dal medico nell’ipnosi, o per il fatto di narrare la cosa tutt’a un tratto in uno stato di agitazione accompagnato da viva emozione. Diventava, poi, non solo tranquilla e serena, libera dal sintomo tormentoso, ma ogni volta si era di nuovo sorpresi dal ricco e chiaro intelletto, dall’acume della sua ragione e del suo giudizio. Con predilezione giocava (in modo eccellente) agli scacchi, e volentieri due partite contemporaneamente, il che ben difficilmente potrebbe dirsi indizio di sintesi mentale difettosa. Non si poteva sfuggire all’impressione che in un decorso quale l’abbiamo descritto la rappresentazione inconscia andasse usurpando una porzione sempre crescente dell’attività psichica, che quanto più ciò avveniva, tanto minore diventasse l’aliquota del pensiero cosciente, fino al decadere di questo alla completa imbecillità; che però quando, per dirla con un’espressione viennese particolarmente appropriata, era beisammen [lì con la testa, letteralmente: insieme], fosse in possesso di una capacità mentale rilevante.
Vorremmo prendere come paragone, fra gli stati dell’individuo normale, non la concentrazione dell’attenzione, ma la preoccupazione. Se una persona è “preoccupata” da una rappresentazione vivace, per esempio da un problema, la sua capacità mentale si riduce in modo analogo.
Ogni osservatore soggiace in prevalenza all’influsso dei propri soggetti di osservazione, e siamo propensi a credere che la concezione di Janet si sia formata essenzialmente nello studio attento di quegli isterici deficienti che si trovavano in ospedali o in case di cura perché, a motivo della loro malattia e della frenastenia che ne conseguiva, non sapevano reggersi nella vita. La nostra osservazione di pazienti isterici colti c’impone invece un’opinione sostanzialmente differente della loro psiche. Crediamo che “fra gli isterici si possono trovare persone di mente lucidissima, di forte volontà, di molto carattere e di grandissima capacità critica” [vedi cap. 1, par. 3, in OSF, vol. 1]. Nessuna misura di genuino, valente talento è esclusa dall’isteria, sebbene spesso la malattia renda impossibile la prestazione reale. Infatti, anche la patrona dell’isteria, santa Teresa, era una donna geniale dotata di grandi capacità pratiche.
D’altra parte, però, nessuna misura di sciocchezza, inettitudine e debolezza di volontà protegge dall’isteria. Anche se si prescinde da tutto ciò che è soltanto conseguenza della malattia, si deve riconoscere come frequente il tipo dell’isterico deficiente. Solo che, anche qui, non si tratta di stupidità torpida, flemmatica, piuttosto di un grado eccessivo di mobilità mentale, il quale rende inetti. Discuterò più avanti la questione della disposizione originaria. Qui si vuole stabilire che è inaccettabile l’opinione di Janet, secondo cui la debolezza mentale sta generalmente alla base dell’isteria e della scissione psichica.246
In pieno contrasto con l’opinione di Janet, ritengo che, in moltissimi casi, alla base della disaggregazione stia una sovraprestazione psichica, la coesistenza abituale di due serie eterogenee di rappresentazioni. È stato sovente messo in evidenza come spesso siamo attivi, non solo “meccanicamente”, mentre nel nostro pensiero cosciente decorrono serie di rappresentazioni che nulla hanno in comune con la nostra attività, siamo anzi indubbiamente capaci anche di prestazioni psichiche mentre i nostri pensieri sono “occupati altrove”; come per esempio quando leggiamo ad alta voce correttamente e con giusta intonazione pur non sapendo, dopo, assolutamente che cosa abbiamo letto.
Esiste certamente un gran numero di attività, a cominciare da quelle meccaniche, come il far la calza, il fare esercizi di scale musicali, fino a quelle implicanti una qualche prestazione psichica, che vengono svolte da molte persone con la mente presente solo a metà. Specialmente da coloro che, essendo assai vivaci, si sentono torturati dalle occupazioni monotone, semplici, non stimolanti, e all’inizio si procurano, addirittura intenzionalmente, il divertimento di pensare ad altro (“teatro privato” di Anna O., vedi cap. 2, par. 1, in OSF, vol. 1). Un caso diverso, ma simile, lo si ha quando una serie di rappresentazioni interessanti, per esempio derivanti dalla lettura, dal teatro o simili, s’impone e s’insinua. Tale invasione è ancora più energica quando la serie di rappresentazioni estranee ha una forte tonalità affettiva, come problemi gravi o nostalgia innamorata. Allora, si dà lo stato, sopra descritto, della preoccupazione che, tuttavia, non impedisce a molti di compiere comunque prestazioni relativamente complicate. Le condizioni sociali costringono spesso a siffatti sdoppiamenti anche di pensieri intensivi, come per esempio quando una donna tormentata da preoccupazioni o passionalmente agitata adempie ai suoi doveri sociali e alle sue funzioni di amabile padrona di casa. Prestazioni secondarie di questo genere noi tutti riusciamo a compierle nella nostra professione; ma l’autoosservazione sembra mostrare a ognuno che il gruppo di rappresentazioni affettive non viene destato di tanto in tanto associativamente, ma è sempre effettivamente presente nella psiche, entrando nella coscienza a meno che questa non sia sequestrata da una viva impressione esterna o da un atto di volontà.
Anche nelle persone che non consentono abitualmente ai sogni ad occhi aperti di trascorrere accanto all’attività normale, talune situazioni determinano, per lunghi periodi, una siffatta coesistenza delle mutevoli impressioni e reazioni della vita esterna, con un gruppo di rappresentazioni accentuate affettivamente. Post equitem sedet atra cura.247 Sono situazioni siffatte, anzitutto, l’assistenza a cari malati e l’inclinazione amorosa. Come l’esperienza insegna, l’assistenza ai malati e le emozioni sessuali svolgono infatti la parte principale nella maggior parte delle storie cliniche di isterici che si siano potute analizzare più accuratamente.
Presumo che lo sdoppiamento della capacità psichica, abituale o determinato da situazioni affettive della vita, disponga essenzialmente alla scissione veramente patologica della psiche. Quello sdoppiamento diventa scissione della psiche quando le due serie coesistenti di rappresentazioni non hanno più un contenuto dello stesso tipo, quando cioè una di esse contiene rappresentazioni non ammissibili alla coscienza: rappresentazioni respinte per difesa o altre provenienti da stati ipnoidi. Allora, la confluenza delle due correnti temporaneamente separate, la quale continuamente si ripete nella persona sana, diventa impossibile e si stabilisce in permanenza una regione separata di attività psichica inconscia. Tale scissione isterica della psiche sta al “doppio Io” del sano come lo stato ipnoide sta al normale sognare ad occhi aperti. In quest’ultima contrapposizione, la qualità patologica è determinata dall’amnesia, e nell’altra dell’inammissibilità delle rappresentazioni alla coscienza.
Il nostro primo caso clinico (Anna O.), sul quale devo sempre ritornare, offre una chiara intelligenza del processo. La fanciulla era abituata, in piena salute, a lasciar fluttuare, durante le sue occupazioni, serie di rappresentazioni fantastiche. In una situazione favorevole all’autoipnosi, l’affetto d’angoscia entrò nella fantasticheria creando uno stato ipnoide per il quale esisteva amnesia. Ciò si ripeté in svariate occasioni, il suo contenuto di rappresentazioni si andò gradualmente arricchendo; continuò tuttavia ad alternarsi con lo stato di pensiero vigile perfettamente normale. Dopo quattro mesi, lo stato ipnoide s’impossessò dell’ammalata completamente; per confluenza dei singoli attacchi, si costituì un état de mal, un’isteria acuta gravissima. Dopo aver durato più mesi in forme diverse (periodo di sonnambulismo), venne interrotto violentemente [vedi cap. 2, par. 1, in OSF, vol. 1] e si alternò poi di nuovo al comportamento psichico normale. Ma anche in questo persistettero fenomeni somatici e psichici dei quali sappiamo, in questo caso, che si basavano su rappresentazioni proprie allo stato ipnoide (contrattura, emianestesia, modificazione del linguaggio). Questo dimostra che, anche durante il suo comportamento normale, il complesso di rappresentazioni dello stato ipnoide, il “subconscio”, era attuale e che la scissione della psiche continuava a sussistere.
Non posso presentare un secondo esempio di siffatta evoluzione. Ritengo tuttavia che il caso dato getti qualche luce sulla genesi della nevrosi traumatica. In questa, nei primi giorni dopo l’incidente, al ricordo di esso, si ripete lo stato ipnoide dello spavento; mentre ciò avviene con crescente frequenza, la sua intensità però diminuisce tanto da non alternarsi più con il pensiero sveglio ma da sussistere solo accanto ad esso. Ora diventa continuo e i sintomi somatici, che prima esistevano soltanto nell’accesso di spavento, acquistano un’esistenza permanente. Posso solo supporre, tuttavia, che le cose si svolgano così, perché non ho analizzato alcun caso siffatto.
Le osservazioni e analisi di Freud dimostrano che la scissione della psiche può essere determinata anche dalla “difesa”, dal distogliersi volontario della coscienza dalle rappresentazioni penose: soltanto però in talune persone, alle quali perciò dobbiamo ascrivere una peculiarità psichica. Nelle persone normali, la soppressione di tali rappresentazioni riesce, e allora queste ultime scompaiono del tutto, o non riesce, e allora continuano a riemergere nella coscienza. Non saprei dire in che cosa consista questa peculiarità. Oso solo supporre che occorra l’aiuto dello stato ipnoide quando, con la difesa, si vogliano non solo rendere inconsce talune rappresentazioni convertite, ma si voglia effettuare una vera scissione della psiche. L’autoipnosi creerebbe per così dire lo spazio, la regione dell’attività psichica inconscia, entro cui le rappresentazioni respinte vengono condotte. Comunque sia, dobbiamo riconoscere il fatto dell’importanza patogena della “difesa”.
Non credo tuttavia che, con i processi discussi, comprensibili alla meglio, la genesi della scissione psichica sia esaurita, anche solo approssimativamente. Così, allo stadio iniziale, le isterie di grado superiore permettono di osservare per qualche tempo una sindrome che si può ben designare come isteria acuta (nell’anamnesi degli isterici si riscontra tale forma di malattia solitamente sotto il nome di encefalite; nelle isteriche l’ovarialgia porta alla diagnosi di peritonite). In questo stadio acuto dell’isteria sono molto chiari tratti psicotici: stati di eccitazione maniaca e rabbiosa, rapido alternarsi di fenomeni isterici, allucinazioni e altro ancora. In tali stati, la scissione della psiche forse può avvenire in maniera diversa da quella che sopra cercammo di esporre. Forse tutto questo stadio va considerato come un lungo stato ipnoide i cui residui forniscono il nucleo del complesso di rappresentazioni inconsce, mentre il pensiero vigile è amnesico al riguardo. Dato che le condizioni di formazione di una siffatta isteria acuta per lo più non sono note (non oso ritenere di validità generale il corso dei fatti quale si è verificato in Anna O.), sarebbe, questa, una specie ulteriore di scissione psichica che, in contrasto con quella sopra discussa, sarebbe da chiamare irrazionale.248 E così certamente esisteranno ancora altre specie di questo processo, che ancora si sottraggono alla recente scoperta psicologica. È certo infatti che abbiamo compiuto appena i primi passi in questo campo ed esperienze ulteriori trasformeranno sostanzialmente le vedute odierne.
Chiediamoci ora quale sia il contributo all’intelligenza dell’isteria arrecato dalla conoscenza della scissione psichica acquisita negli anni recenti. Pare essere grande e importante.
Questa conoscenza permette di far risalire sintomi in apparenza puramente somatici a rappresentazioni, che, tuttavia, non si possono trovare nella coscienza del malato (è superfluo discuterne qui ulteriormente). Essa ha poi insegnato a comprendere almeno parzialmente l’attacco quale effetto del complesso di rappresentazioni inconsce (Charcot). Essa, però, spiega anche talune delle peculiarità psichiche dell’isteria e questo punto forse merita una discussione più approfondita.
Le “rappresentazioni inconsce” invero non entrano mai o perlomeno solo di rado e con difficoltà nel pensiero vigile, ma lo influenzano. In primo luogo per mezzo delle loro conseguenze, quando per esempio il malato è tormentato da un’allucinazione insensata del tutto incomprensibile, ma la cui importanza e motivazione diventano chiare nell’ipnosi. Poi, influenzano l’associazione, facendo diventare talune rappresentazioni più vivaci di quanto sarebbero senza questo rafforzamento proveniente dall’inconscio. Così allora s’impongono ai malati, con una certa coazione, sempre determinati gruppi di rappresentazioni, alle quali devono pensare. (Simile è il caso degli emianestetici di Janet, che non sentono i ripetuti toccamenti alla loro mano, priva di sensibilità, ma che, invitati a dire un numero qualsiasi, scelgono sempre quello che corrisponde al numero dei contatti.) Inoltre, dominano le condizioni di spirito, lo stato d’animo. Quando Anna O. nello svolgere i propri ricordi si avvicinava a un fatto che in origine era stato legato a un affetto vivace, lo stato d’animo corrispondente si manifestava già giorni prima e prima persino che il ricordo apparisse chiaro alla coscienza ipnotica.
Ciò ci rende comprensibili le “lune” dei malati, i malumori inspiegabili, infondati, privi di motivo per il pensiero vigile. L’impressionabilità degli isterici è bensì determinata in gran parte semplicemente dalla loro originaria eccitabilità; ma i vivaci affetti in cui cadono per cause relativamente futili, diventano più comprensibili se riflettiamo che la “psiche scissa” agisce come un risuonatore al suono di un diapason. Ogni evento che suscita ricordi inconsci, libera tutta la forza affettiva di tali rappresentazioni non usurate, e l’affetto richiamato appare allora sproporzionato rispetto a quello che sarebbe nato solamente nella psiche cosciente.
È stato riferito, (vedi cap. 3, par. 5, in OSF, vol. 1) di una paziente la cui attività psichica stava sempre in proporzione inversa alla vivacità delle sue rappresentazioni inconsce. La diminuzione del suo pensiero cosciente era dovuta in parte, ma solo in parte, a un tipo particolare di distrazione; dopo ogni momentanea assenza, come se ne verificavano continuamente, non sapeva a che cosa aveva pensato in quel frattempo. Essa oscillava fra la condition prime e la seconde, fra il complesso cosciente e il complesso inconscio di rappresentazioni. Ma non solo per questo era diminuita l’attività psichica, e anche non solo ad opera dell’affetto che, dall’inconscio, la dominava. Il suo pensiero vigile, in tale stato, era privo di energia, il suo giudizio era puerile ed essa sembrava, come ho detto, addirittura imbecille. Penso che ciò sia dovuto al fatto che il pensiero vigile dispone di un’energia ridotta quando una grande quantità dell’eccitamento psichico è sequestrata dall’inconscio.
Ora, quando questo avviene non solo temporaneamente, quando la psiche scissa è permanentemente in eccitamento, come negli emianestetici di Janet – nei quali addirittura tutte le sensazioni di una metà del corpo erano percepite soltanto dalla psiche inconscia, – allora al pensiero vigile rimane tanto poco della prestazione cerebrale, da spiegare così appieno la debolezza psichica che Janet descrive e considera originaria. Certamente di ben poche persone si potrebbe dire, come del Bertrand de Born di Uhland, che non occorre loro mai più di metà del loro spirito.249 I più, in caso di siffatta riduzione della propria energia psichica, risultano appunto frenastenici.
Su questa debolezza mentale, determinata dalla scissione psichica, pare sia basata anche una proprietà gravida di conseguenze di taluni isterici, la loro suggestionabilità. (Dico, “taluni”, poiché è certo che fra i pazienti di questo tipo si riscontrano anche persone di sicurissimo giudizio e di grande spirito critico.)
Intendiamo per suggestionabilità, per ora, soltanto l’assenza di critica di fronte a rappresentazioni e complessi di rappresentazioni (giudizi), che emergono nella coscienza del soggetto o vengono introdotti in essa dall’esterno ascoltando discorsi altrui o per il tramite della lettura. Ogni critica di tali rappresentazioni che entrano fresche nella coscienza, è basata sul fatto che esse, per associazione, ne destano altre e fra queste anche rappresentazioni inconciliabili con quelle. La resistenza contro di esse dipende dunque dalla presenza di queste rappresentazioni di opposizione nella coscienza potenziale, e la forza della resistenza corrisponde al rapporto fra la vivacità delle rappresentazioni fresche e quella delle rappresentazioni destate dal ricordo. Tale rapporto è molto vario anche negli intelletti normali. Ne dipende, in gran parte, quel che chiamiamo temperamento intellettuale. Il temperamento “sanguigno”, sempre incantato di persone e di cose nuove, è certamente tale perché l’intensità delle sue immagini mnestiche, in confronto a quella delle impressioni nuove, è più piccola di quanto sia nella persona tranquilla, “flemmatica”. Negli stati patologici, la preponderanza delle rappresentazioni fresche e la passività contro di esse crescono in ragione inversa al numero delle immagini mnestiche destate, cioè quanto più è debole e povera l’associazione. Così già avviene nel sonno e nel sogno, nell’ipnosi, in ogni decrescere dell’energia mentale, fintantoché ciò non danneggi anche la vivacità delle rappresentazioni fresche.
La psiche scissa, inconscia, dell’isteria è eminentemente suggestionabile, per via della povertà e incompiutezza del suo contenuto rappresentativo. Ma anche la suggestionabilità della psiche cosciente di taluni isterici sembra basarvisi. Sono eccitabili per disposizione originaria; le loro rappresentazioni fresche hanno grande vivacità. Per contro, l’attività intellettuale vera e propria, l’associazione, è ridotta, perché il pensiero vigile, data la separazione di un “inconscio”, dispone solo di una parte dell’energia psichica. Con ciò, la loro capacità di resistenza contro autosuggestioni, come pure contro suggestioni esterne, è ridotta e talvolta annientata. Anche la suggestionabilità della loro volontà verosimilmente deriva solo da questa causa. Per contro, la suggestionabilità allucinatoria, che trasforma subito ogni rappresentazione di una percezione sensoria nella percezione stessa, richiede, al pari di ogni allucinazione, un grado anormale di eccitabilità dell’organo della percezione e non si può far derivare soltanto dalla scissione psichica.
6. Disposizione originaria. Sviluppo dell’isteria
Quasi ad ogni passo di questa esposizione ho dovuto riconoscere che la maggior parte dei fenomeni che ci sforziamo di comprendere possono essere basati anche su una peculiarità innata. Questa si sottrae a qualsiasi spiegazione che volesse andare oltre la costatazione dei fatti. Ma anche l’attitudine ad acquisire l’isteria è certamente legata a una peculiarità della persona e forse non sarebbe del tutto privo di valore il tentativo di definirla con maggior cura.
Ho spiegato sopra perché sia inaccettabile la concezione di Janet, e cioè che la disposizione all’isteria si fondi su una debolezza psichica innata. Il medico pratico che, come medico di famiglia, osserva i membri di età diversa di famiglie isteriche, certamente sarà piuttosto incline a cercare tale disposizione in un’esuberanza anziché in una deficienza. Gli adolescenti che in seguito diventano isterici, prima di ammalarsi sono per lo più vivaci, dotati, pieni di interessi intellettuali; la loro energia di volontà è spesso notevole. Fra di essi si annoverano quelle fanciulle che si alzano di notte per studiare clandestinamente qualche cosa che i genitori hanno proibito per timore di sovraffaticamento. La capacità di un giudizio sensato certamente non è loro data con abbondanza maggiore che ad altri uomini; ma di rado si trova fra di essi la semplice e ottusa inerzia mentale e la stupidità. La straripante produttività della loro psiche indusse un mio amico ad asserire che gli isterici sarebbero il fiore dell’umanità, sterile sì ma anche bello come i fiori doppi.
La loro vivacità e irrequietudine, il loro bisogno di sensazioni e di attività intellettuale, la loro incapacità di sopportare la monotonia e la noia, si possono formulare così: essi appartengono a quella categoria di persone il cui sistema nervoso in quiete libera un eccesso di eccitamento che chiede impiego (vedi cap. 3, par. 2, in OSF, vol. 1). Durante lo sviluppo della pubertà e in conseguenza di essa, si aggiunge inoltre quella potente esaltazione dell’eccitamento che emana dalla sessualità in risveglio, dalle ghiandole sessuali. Da allora è disponibile una quantità sovrabbondante di eccitamento nervoso, libero per fenomeni patologici.
Ma perché questi si manifestino in forma di sintomi isterici, occorre evidentemente anche un’altra peculiarità, specifica, dell’individuo. Infatti, la grande maggioranza delle persone vivaci, eccitate, non diventa affatto isterica. Questa peculiarità la potei indicare sopra [ibid., cap. 3, par. 1] solo con le parole vaghe e povere di contenuto: “anormale eccitabilità del sistema nervoso”. Forse però si può andare più oltre dicendo che tale anormalità sta appunto nel fatto che in quelle persone l’eccitamento dell’organo centrale può affluire negli apparati nervosi della percezione che, di regola, sono accessibili soltanto agli stimoli periferici, e in quelli degli organi vegetativi, che sono isolati dal sistema nervoso centrale da forti resistenze. Questa rappresentazione dell’eccesso di eccitamento sempre crescente, cui sono accessibili gli apparati sensori, vasomotori e viscerali, può forse già coprire alcuni fenomeni patologici.
Nelle persone di tale fatta, non appena l’attenzione viene a forza concentrata su una parte del corpo, la “facilitazione per attenzione” (Exner)250 della vita sensoria interessata supera la misura normale; l’eccitamento libero, fluttuante, si traspone, per così dire, su quella via e nasce la iperalgesia locale, la quale fa sì che tutti i dolori, comunque determinati, acquistino intensità massima, che tutte le sofferenze siano “terribili” e “insopportabili”. Ma la quantità di eccitamento che abbia investito una volta una via sensoria, non l’abbandona di nuovo, come sempre avviene nella persona normale; non solo persiste, ma si accresce per l’afflusso di sempre nuovi eccitamenti. Così, da un lieve trauma nelle articolazioni si sviluppa una nevrosi articolare, e le sensazioni dolorose della gonfiezza ovarica diventano un’ovarialgia cronica; gli apparati nervosi della circolazione sono accessibili all’influsso cerebrale in misura maggiore che nella persona normale, così che vi è palpitazione nervosa, tendenza alla sincope, eccesso nell’arrossire e nell’impallidire, eccetera.
Ma gli apparati nervosi periferici sono più facilmente eccitabili non solo di fronte agli influssi centrali: reagiscono in maniera eccessiva e perversa anche a stimoli adeguati, funzionali. La palpitazione segue tanto lo sforzo moderato quanto l’eccitazione dell’animo, e i vasomotori provocano la contrazione delle arterie (“dito indolenzito”) senza alcun influsso psichico. E proprio come a un trauma lieve fa seguito la nevrosi articolare, così una breve bronchite lascia come residuo un’asma nervosa, e un’indigestione frequenti cardialgie. Così, dobbiamo riconoscere che l’accessibilità a somme di eccitamento di origine centrale è solo un caso speciale della generale eccitabilità anormale,251 pur essendo quella più importante per il nostro tema.
Ecco perché credo che la vecchia “teoria dei riflessi” di questi sintomi, che forse si chiamerebbero meglio semplicemente “nervosi” ma che fanno parte del quadro clinico empirico dell’isteria, non sia da rigettare del tutto. Il vomito, che di fatto accompagna la dilatazione dell’utero gravido, può venir provocato benissimo, in caso di eccitabilità anormale, per via riflessa, da stimoli uterini insignificanti; e forse persino dall’alternante gonfiarsi delle ovaie. Conosciamo tante azioni a distanza di modificazioni organiche, tanti “punti coniugati” stranamente, da non poter escludere che una quantità di sintomi nervosi, che talvolta sono determinati psichicamente, possano essere in altri casi azioni riflesse a distanza. Anzi, oso formulare l’eresia estremamente poco moderna che la debolezza di movimento di una gamba possa anche essere determinata non psichicamente, ma per riflesso diretto da una malattia ai genitali. Credo che faremo bene a non attribuire alle nostre nuove conoscenze validità troppo esclusiva e a non volerle applicare a tutti i casi.
Altre forme di eccitabilità sensoria anormale si sottraggono ancora interamente alla nostra intelligenza, quali l’analgesia generale, le placche anestetiche, il restringimento reale del campo visivo, e altre ancora. È possibile, e forse verosimile, che ulteriori osservazioni dimostrino l’origine psichica dell’una o dell’altra di queste stigmate spiegando così il sintomo; sinora ciò non è avvenuto (non oso generalizzare i riferimenti forniti dal nostro primo caso clinico) e non ritengo giustificato presumerlo, prima che una siffatta derivazione non sia riuscita.
Per contro, la peculiarità del sistema nervoso e della psiche che abbiamo indicato, sembra spiegare alcune proprietà di molti isterici universalmente note. L’eccesso di eccitamento che il loro sistema nervoso libera quand’è in quiete, determina la loro incapacità a sopportare la vita monotona e la noia nonché il loro bisogno di sensazione, che li spinge a interrompere l’uniformità della loro esistenza malata con ogni genere di “incidenti” (e come tali naturalmente si offrono, anzitutto, fenomeni patologici). In ciò, l’autosuggestione spesso li soccorre. Sono condotti a spingersi sempre più lontano su questa via dal loro bisogno di malattia, da quel tratto curioso, cioè, che per l’isteria è altrettanto patognomonico quanto lo è il timore della malattia per l’ipocondria [vedi cap. 4, par. 1, in OSF, vol. 1]. Conosco un’isterica che procedeva ad autolesioni, spesso abbastanza severe, esclusivamente per proprio uso, senza che coloro che la circondavano e il medico ne venissero a conoscenza. In mancanza di meglio, eseguiva, sola nella stanza, ogni sorta di eccessi, soltanto per dimostrare a sé stessa di non essere normale. Essa ha, appunto, un chiaro senso della propria morbosità, adempie insufficientemente ai propri doveri e si crea con quegli atti la giustificazione davanti a sé stessa. Un’altra malata, una donna che soffre gravemente e che è di una coscienziosità morbosa e piena di diffidenza verso sé stessa, risente di ogni fenomeno isterico come di una colpa perché, dice, certamente non sarebbe necessario che ne soffrisse, purché volesse per davvero. Quando la paresi delle sue gambe venne erroneamente dichiarata una malattia spinale, ne ebbe una sensazione di sollievo, e la spiegazione che si trattava di un fatto “solo nervoso” e che sarebbe passato, bastò a crearle grave tormento di coscienza. Il bisogno di malattia nasce dal desiderio della paziente di convincere sé e altri della realtà del suo male. Se poi il bisogno viene ad accompagnarsi alla tortura determinata dalla monotonia della stanza d’ospedale, si sviluppa in modo molto forte la tendenza ad avere sempre nuovi sintomi.
Se questa però diventa falsità, conducendo alla simulazione vera e propria – e io credo che adesso eccediamo nel respingere la simulazione esattamente come prima eccedevamo nell’accettarla, – allora ciò non è dovuto alla disposizione isterica, ma, come Moebius dice molto bene, alla complicazione di essa con altre degenerazioni, con inferiorità morale originaria. Proprio in questo modo fa la sua comparsa l’isterico “per malignità”, quando una persona, originariamente eccitabile ma di animo povero, cade nell’atrofia egoistica del carattere che è così facilmente creata dalla malattia cronica. Del resto, “l’isterico maligno” probabilmente non è più frequente del tabetico per malignità degli stadi avanzati.
Anche nella sfera motoria l’eccesso di eccitamento crea fenomeni patologici. I bambini dotati di questa costituzione sviluppano facilmente movimenti del tipo dei tic che, stimolati in principio da qualche sensazione negli occhi o nel viso o dal fastidio arrecato da qualche indumento, diventano presto duraturi se non vengono combattuti subito. Le vie dei riflessi molto facilmente e rapidamente si scavano in profondità.
Non si può nemmeno respingere l’idea che esista un accesso convulsivo puramente motorio, indipendente da qualsiasi fattore psichico, nel quale si scarichi semplicemente la massa di eccitamento accumulatasi per sommazione, proprio come la massa di stimoli, determinata da modificazioni anatomiche, nell’attacco epilettico. Sarebbe questo lo spasmo isterico non ideogeno.
Vediamo spesso adolescenti eccitabili sì, ma sani, ammalarsi d’isteria durante lo sviluppo della pubertà, così che dobbiamo chiederci se questo processo non crei la disposizione là dove originariamente non esiste. E invero dobbiamo ascrivergli più che non la semplice esaltazione della quantità di eccitamento; la maturazione sessuale affetta tutto il sistema nervoso, aumentando dovunque l’eccitabilità e riducendo le resistenze. Questo lo insegna l’osservazione degli adolescenti non isterici, e siamo perciò autorizzati a ritenere che stabilisca anche la disposizione isterica, nella misura in cui questa appunto consiste in tale proprietà del sistema nervoso. Con ciò riconosciamo già nella sessualità una delle grandi componenti dell’isteria. Vedremo che la sua parte, in essa, è di gran lunga più grande e che concorre, per le vie più diverse, alla costruzione della malattia.
Se le stigmate nascono direttamente dal terreno originario dell’isteria e non sono di origine ideogena, è anche impossibile mettere l’ideogenesi talmente al centro dell’isteria come oggi talora si fa. Che cosa infatti potrebbe essere più autenticamente isterico delle stigmate, di quei reperti patognomonici che stabiliscono la diagnosi? Eppure proprio questi non paiono ideogeni. Ma, se la base dell’isteria è una peculiarità dell’intero sistema nervoso, su di essa s’innalza il complesso di sintomi ideogeni, psichicamente determinati, come un edificio sulle fondamenta. Ed è un edificio a più piani. Come la struttura di un edificio siffatto si può comprendere soltanto se si distingue la pianta dei diversi piani, così, io penso, la comprensione dell’isteria è condizionata dal conto in cui si tiene la molteplice complicazione delle cause dei sintomi. Ove se ne prescinda tentando di fornire la spiegazione dell’isteria ricorrendo a un unico nesso causale, rimane sempre un grandissimo resto di fenomeni inesplicati; è esattamente come se si volessero riportare i diversi locali di una casa di più piani sulla pianta di un piano solo.
Come le stigmate, così una serie di altri sintomi nervosi, come vedemmo sopra, non è motivata da rappresentazioni, ma è conseguenza diretta dell’anomalia fondamentale del sistema nervoso: taluni dolori, fenomeni vasomotori, forse l’accesso convulsivo puramente motorio.
Ad essi sono prossimi i fenomeni ideogeni, i quali sono semplicemente conversioni di eccitamento affettivo (vedi cap. 3, par. 3, in OSF, vol. 1). Essi nascono quali conseguenze di affetti in persone aventi disposizione isterica e sono in un primo tempo solo “anormale espressione delle emozioni” (Oppenheim).252 Questa diventa, in seguito a ripetizione, un sintomo isterico reale, in apparenza puramente somatico, mentre la rappresentazione motivante diventa impercettibile (ibid.) oppure viene respinta per difesa ed è pertanto rimossa dalla coscienza. La maggior parte e le più importanti delle rappresentazioni respinte e convertite hanno contenuto sessuale. Esse stanno alla base di una gran parte dell’isteria della pubertà. Le fanciulle che si stanno facendo donne – è di queste che si tratta principalmente – si comportano in modo assai diverso di fronte alle rappresentazioni e sensazioni sessuali che si trovano ad affrontare. Alcune con perfetta disinvoltura, e fra di esse vi è chi ignora e trascura tutto il campo. Altre accettandole come i maschi; è questa certamente la regola delle figlie dei contadini e degli operai. Altre ancora, con curiosità più o meno perversa, cercano tutto ciò che di sessuale porta loro la conversazione e la lettura. E infine vi sono nature finemente organizzate dalla grande eccitabilità sessuale e di altrettanta purezza morale, che sentono ogni cosa sessuale come inconciliabile con il loro intimo morale, come lordura e macchia.253 Queste rimuovono la sessualità dalla loro coscienza, mentre le rappresentazioni affettive di contenuto corrispondente, che hanno causato fenomeni somatici, diventano inconsce in quanto respinte per difesa.
La tendenza a respingere ciò che è sessuale viene ulteriormente rafforzata dal fatto che l’eccitamento sensuale nella vergine ha una componente di angoscia, il timore dell’ignoto, del presagito, di quel che verrà, mentre nel giovane maschio sano e naturale è una pulsione nettamente aggressiva. La fanciulla presagisce nell’Eros la terribile potenza che ne domina e decide il destino ed è angosciata da essa. Tanto più grande è la tendenza a volgere via lo sguardo e a rimuovere dalla coscienza ciò che impaurisce.
Il matrimonio porta nuovi traumi sessuali. C’è da stupirsi che la prima notte non agisca più spesso in senso patogeno dato che, purtroppo, tanto spesso non ha per contenuto una seduzione erotica, bensì uno stupro. D’altronde, nelle giovani donne non sono rare le isterie che ne conseguono, ma poi scompaiono quando, con l’andar del tempo, è intervenuta la voluttà sessuale a cancellare il trauma. Anche nell’ulteriore corso di molti matrimoni si verificano traumi sessuali. Quelle storie cliniche alla cui pubblicazione dovemmo rinunciare, ne contengono un grande numero, esigenze perverse dell’uomo, pratiche innaturali, ecc. Non credo di esagerare affermando che la grande maggioranza delle nevrosi gravi nelle donne proviene dal letto matrimoniale.254
Una parte degli elementi patogeni sessuali, che consiste essenzialmente nell’insufficiente soddisfacimento (coitus interruptus, ejaculatio praecox, ecc.), conduce, secondo la scoperta di Freud,255 non all’isteria, ma alla nevrosi d’angoscia. Ma io penso che anche in tali casi, abbastanza spesso, l’eccitamento dell’emozione sessuale si converte in fenomeni somatici isterici.
È ovvio, ed emerge anche a sufficienza dalle nostre osservazioni, che gli affetti non sessuali dello spavento, dell’angoscia, dell’ira conducono alla formazione di fenomeni isterici. Ma forse non è superfluo sottolineare ripetutamente che il fattore sessuale è di gran lunga il più importante e patologicamente fertile. L’osservazione ingenua dei nostri predecessori, di cui conserviamo il residuo nel termine “isteria” [dalla parola greca per “utero”], si è avvicinata alla verità più del modo di vedere recente, che pone la sessualità quasi in ultima linea, per preservare i malati da un rimprovero morale. Certamente, i bisogni sessuali degli isterici presentano altrettanta varietà individuale di quelli dei sani e non sono più forti. Ma gli isterici ne ammalano, e precisamente in gran parte proprio perché lottano contro di essi, per effetto della difesa contro la sessualità.
Accanto alla sessualità si deve qui ricordare l’isteria da spavento, l’isteria traumatica vera e propria. Essa costituisce una delle forme di isteria meglio conosciute e riconosciute.
Per così dire nello stesso strato dei fenomeni sorti dalla conversione di un eccitamento affettivo, stanno quelli che devono la loro origine alla suggestione (per lo più autosuggestione) in individui originariamente suggestionabili. La suggestionabilità di alto grado, cioè la prevalenza sfrenata delle rappresentazioni appena eccitate, non appartiene all’essenza dell’isteria; ma si può trovare come complicazione nelle persone che hanno disposizione all’isteria, nelle quali appunto questa peculiarità del sistema nervoso rende possibile la realizzazione somatica di rappresentazioni sovravalenti.256 Si tratta del resto per lo più solo di rappresentazioni affettive, le quali per via di suggestione si realizzano in fenomeni somatici, e così il processo si può spesso concepire anche come conversione dell’affetto di spavento o d’angoscia che le accompagna.
Questi processi della conversione dell’affetto e della suggestione rimangono identici anche nelle forme complicate di isteria, che dovremo ora considerare, solo che ivi trovano condizioni più favorevoli; tuttavia i fenomeni isterici determinati psichicamente fanno la loro comparsa sempre attraverso uno di questi due processi.
Il terzo costituente della disposizione isterica, che in taluni casi si aggiunge a quelli precedentemente discussi, che favorisce e facilita in altissima misura sia la conversione sia la suggestione e che con ciò costruisce, per così dire, sopra le piccole isterie (le quali mostrano solo isolati fenomeni isterici) l’ulteriore piano della grande isteria, è lo stato ipnoide, la tendenza all’autoipnosi (vedi cap. 3, par. 4, in OSF, vol. 1). Tale stato è, in un primo tempo, solo transitorio e si alterna con quello normale; gli possiamo ascrivere la stessa esaltazione dell’influenza psichica sul corpo che osserviamo nell’ipnosi artificiale; questa influenza è qui tanto più intensa e profonda in quanto riguarda un sistema nervoso che già al di fuori dell’ipnosi è di un’eccitabilità anormale.257 In quale misura e in quali casi la tendenza all’autoipnosi sia una caratteristica originaria dell’organismo, noi non sappiamo. Ho espresso sopra (ibid.) l’opinione che essa si sviluppi dal sognare a occhi aperti carico d’affetto. Ma certamente anche per questo occorre una disposizione originaria. Se quell’opinione è esatta, risulta chiaro, anche qui, quale grande influsso sullo svilupparsi dell’isteria sia da ascrivere alla sessualità. Infatti, all’infuori dell’assistenza ai malati, non esiste alcun fattore psichico adatto quanto il desiderio d’amore a produrre sogni a occhi aperti carichi d’affetto. E per di più l’orgasmo sessuale stesso con la sua pienezza di affetto e il restringimento della coscienza è molto affine agli stati ipnoidi.
L’elemento ipnoide si manifesta più chiaramente nell’attacco isterico e in quello stato che si può chiamare isteria acuta e che sembra avere tanta importanza nello sviluppo della grande isteria (vedi cap. 3, par. 5, in OSF, vol. 1). Si tratta di stati psicotici prolungati, che durano spesso parecchi mesi, e che sovente si devono designare addirittura come confusione allucinatoria; anche se il disturbo non è così spinto, in tale stato si presentano svariati fenomeni isterici, dei quali alcuni persistono anche in seguito. Il contenuto psichico di questi stati sta in parte proprio nelle rappresentazioni che, nella vita vigile, furono respinte per difesa e rimosse dalla coscienza (“deliri isterici di santi e di monache, di donne astinenti, di bambini bene educati” [ibid., cap. 1, par. 2]).
Dato che questi stati tanto spesso sono addirittura delle psicosi eppure provengono direttamente ed esclusivamente dall’isteria, non posso aderire all’opinione di Moebius che “non si possa parlare, a prescindere dai deliri connessi all’attacco, di un’alienazione isterica vera e propria”.258 Questi stati, in molti casi, sono un’alienazione isterica; e anche nell’ulteriore decorso dell’isteria si ripetono tali psicosi, le quali invero, per natura, non sono altro se non lo stadio psicotico dell’attacco, ma, dato che si prolungano per mesi, non si possono chiamare propriamente attacchi.
Come si generano queste isterie acute? Nel caso meglio noto (Caso 1) l’isteria si sviluppò dal cumulo degli accessi ipnoidi; in un altro caso (di isteria complicata, preesistente) in seguito a una sottrazione di morfina. Per lo più, il processo è del tutto oscuro e attende chiarimento da ulteriori osservazioni.
Per queste isterie qui discusse vale quindi la proposizione di Moebius: “La modificazione essenziale per l’isteria consiste nel fatto che transitoriamente o in permanenza lo stato mentale dell’isterico uguaglia quello dell’ipnotizzato.”259
Il perdurare dei sintomi isterici, nati nello stato ipnoide, durante lo stato normale, corrisponde perfettamente alle nostre esperienze circa la suggestione postipnotica. Con ciò, tuttavia, è già detto anche che complessi di rappresentazioni inammissibili alla coscienza coesistono con le serie d’idee che si svolgono coscientemente, e che è compiuta la scissione della psiche (ibid., cap. 3, par. 5). Pare certo che la scissione possa nascere anche senza stati ipnoidi, dall’abbondanza delle rappresentazioni respinte per difesa, rimosse dalla coscienza, ma non represse. Nell’un modo e nell’altro, sorge una regione della vita psichica – ora povera d’idee, rudimentale, ora più o meno pari al pensiero vigile – di cui dobbiamo la conoscenza soprattutto a Binet e a Janet. La scissione della psiche è il compimento dell’isteria; venne esposto in precedenza (ibid.) come essa spieghi i tratti caratteristici essenziali della malattia. In permanenza, ma con vivacità variabile delle sue rappresentazioni, una parte della psiche del malato si trova nello stato ipnoide, sempre pronta a prendere, quando il pensiero vigile abbia un cedimento, il dominio su tutta la personalità (attacco, delirio). Ciò avviene non appena un forte affetto perturba il decorso normale delle rappresentazioni, in stati crepuscolari e di esaurimento. Salendo da questo stato ipnoide persistente, rappresentazioni non motivate, estranee alla normale associazione, penetrano nella coscienza, allucinazioni vengono gettate nella percezione, atti motori vengono innervati indipendentemente dalla volontà cosciente. Questa psiche ipnoide è atta in altissimo grado alla conversione affettiva e alla suggestione, e così si formano con facilità nuovi fenomeni isterici i quali, senza la scissione psichica, si sarebbero costituiti solo difficilmente e sotto la pressione di affetti ripetuti. La psiche scissa è quel demone dal quale l’osservazione ingenua di antiche epoche superstiziose credeva invasi i malati. Che uno spirito estraneo alla coscienza vigile del malato regni in lui, è esatto; soltanto non è realmente estraneo, ma una parte del suo proprio spirito.
Il tentativo qui osato di costruire l’isteria sinteticamente dalle nostre conoscenze odierne offre il fianco al rimprovero di eclettismo, sempre che questo possa essere giustificato. Tante formulazioni dell’isteria, dalla vecchia “teoria dei riflessi” fino alla “dissociazione della personalità”, hanno dovuto trovarvi posto. Ma difficilmente potrebbe essere altrimenti; infatti, numerosi eccellenti osservatori e menti acute si sono affaticati attorno all’isteria. È improbabile che le loro formulazioni non contengano ognuna una parte di verità. L’esposizione futura dello stato reale delle cose le conterrà certamente tutte e solo combinerà tutte quelle vedute unilaterali dell’oggetto in un corpo di realtà. L’eclettismo perciò non mi sembra biasimevole.
Ma quanto siamo ancora lontani oggi dalla possibilità da una cosiffatta comprensione perfetta dell’isteria! Con che incerti tratti sono stati qui accennati i contorni; a che grossolane immagini si è ricorso per coprire più che colmare le vaste lacune! Tranquillizza, in qualche modo, soltanto questa considerazione: che si tratta di un difetto di cui patiscono e devono patire tutte le esposizioni fisiologiche di processi psichici complicati. Di esse vale sempre ciò che Teseo dice della tragedia del Sogno d’una notte d’estate [atto 5, scena 1]: “Le migliori non sono che ombre.” E anche la cosa più debole non è priva di valore ove cerchi di fissare con fedeltà e modestia le ombre proiettate sulla parete dagli oggetti reali ma ignoti. Allora infatti è sempre giustificata la speranza che abbia a sussistere una qualche misura di concordanza e somiglianza tra i processi reali e la nostra rappresentazione di essi.