Lezione 33
La femminilità
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Signore e signori, quando mi preparo a parlare di fronte a voi lotto incessantemente con una difficoltà interna. Non mi sento sicuro, per così dire, di averne il diritto. È vero che in quindici anni di lavoro la psicoanalisi si è trasformata e arricchita, ma ciò nonostante un’introduzione alla psicoanalisi potrebbe non richiedere correzioni e integrazioni. Mi viene continuamente il dubbio che manchi a queste conversazioni una ragion d’essere. Agli analisti dico troppo poco e, nel complesso, nulla di nuovo; a voi invece dico troppo, e troppe cose che non siete preparati a comprendere, perché non sono di vostra pertinenza. Mi sono preoccupato di cercare delle scuse e per ogni lezione sono giunto a una giustificazione differente. La prima lezione, sulla teoria del sogno, doveva prefiggersi di riportarvi di colpo in piena atmosfera analitica e dimostrare la solidità delle nostre vedute. La seconda, la quale segue il cammino che va dal sogno al cosiddetto occultismo, è scaturita dall’opportunità di dire una libera parola su di un settore di lavoro in cui aspettative cariche di pregiudizi lottano oggi contro resistenze appassionate; ciò nella speranza che il vostro giudizio, educato alla tolleranza sull’esempio della psicoanalisi, non si sarebbe rifiutato di seguirmi in quella escursione. La terza lezione, sulla scomposizione della personalità, è stata certamente l’osso più duro, essendo il suo contenuto così peregrino; ma mi era impossibile prescindere da questo primo rudimento di una psicologia dell’Io e, se fosse stato disponibile quindici anni fa, avrei dovuto menzionarlo già allora. L’ultima lezione, infine, che probabilmente avrete seguito solo con grande sforzo, ha apportato le necessarie rettifiche e i nuovi tentativi di soluzione dei più importanti interrogativi e problemi della nostra disciplina; la mia introduzione vi avrebbe portato fuori strada se li avessi taciuti. Come vedete, quando si comincia con lo scusarsi, si finisce col dire che tutto era inevitabile, tutto fatale. Non resta che assoggettarsi; vi prego, fatelo anche voi.

Nemmeno l’odierna lezione dovrebbe trovar posto in un corso introduttivo, ma può darvi un saggio di lavoro analitico condotto nei dettagli e posso dire due cose per raccomandarvela. Non presenta che fatti osservati, quasi senza aggiunte speculative, e si occupa di un tema che ha diritto come pochi altri al vostro interesse.

Sull’enigma della femminilità gli uomini si sono lambiccati in ogni epoca il cervello:

Häupter in Hieroglyphenmützen,
Häupter in Turban und schwarzem Barett,
Perückenhä
upter und tausend andere
Arme, schwitzende Menschenhäupter...

[Teste in berretti geroglifici,
Teste in turbante e berretta nera,
Teste imparruccate e mille altre
Povere, sudanti teste umane...]202

Neanche gli uomini che sono tra voi si saranno sottratti a questo rompicapo; dalle signore qui presenti non ci aspettiamo questo: esse stesse rappresentano questo enigma. “Maschile o femminile” è la prima distinzione che fate allorché incontrate un altro essere umano, e siete abituati a fare questa distinzione con assoluta sicurezza. La scienza anatomica condivide la vostra sicurezza in un punto, e non molto più in là. Maschile è il prodotto sessuale maschile, lo spermatozoo e il suo portatore; femminile è l’uovo e l’organismo che lo ospita. In entrambi i sessi si sono formati organi che servono esclusivamente alle funzioni sessuali e che si sono verosimilmente sviluppati dalla stessa disposizione, assumendo due diverse conformazioni. In entrambi, inoltre, gli altri organi, le forme del corpo e i tessuti mostrano un influsso da parte del sesso, ma l’influsso è incostante e la sua entità variabile: si tratta dei cosiddetti caratteri sessuali secondari. A questo punto la scienza vi dice alcune cose che contrastano con le vostre aspettative e che probabilmente sono destinate a confondere i vostri sentimenti. Vi fa osservare che parti dell’apparato sessuale maschile si riscontrano anche nel corpo della donna, benché in stato atrofizzato, e viceversa. In questa presenza essa vede un indizio di bisessualità,203 come se l’individuo non fosse uomo o donna, ma sempre l’uno e l’altra, e solo un po’ più l’uno o l’altra. C’è qui un invito a familiarizzarvi con l’idea che la proporzione in cui il maschile e il femminile s’intrecciano nell’individuo è soggetta a oscillazioni assai rilevanti. Tuttavia, poiché in una persona, se si escludono casi rarissimi, sono presenti prodotti sessuali di una sola specie – uova o cellule seminali –, non potrete fare a meno di mettere in dubbio il significato fondamentale di questi elementi e trarre la conclusione che ciò che costituisce la mascolinità o la femminilità sia un carattere sconosciuto, che l’anatomia non è in grado di cogliere.

Può forse farlo la psicologia? Siamo avvezzi a impiegare “maschile” e “femminile” anche come qualità psichiche, e abbiamo parimenti trasferito nella vita psichica la nozione di bisessualità. Di una persona, sia essa maschio o femmina, diciamo che in una certa situazione si comporta in modo maschile, in quell’altra in modo femminile. Ma vi renderete conto ben presto che ciò significa semplicemente arrendersi all’anatomia e alla convenzione. Non potete dare alcun nuovo contenuto ai concetti di “maschile” e “femminile”. La distinzione non è psicologica; quando dite “maschile” di regola intendete “attivo”, e quando dite “femminile” intendete “passivo”. Ora, è vero che una relazione di questo tipo esiste. La cellula sessuale maschile è mobile e attiva, cerca quella femminile, e questa, l’uovo, è immobile, attende passivamente. Questo comportamento degli organismi sessuali elementari costituisce addirittura il paradigma per la condotta degli individui nel rapporto sessuale. Il maschio insegue la femmina allo scopo dell’unione sessuale, la assale, penetra in lei. Ma con questo avete per l’appunto ricondotto, per quanto concerne la psicologia, il carattere della mascolinità al momento aggressivo. Il dubbio di non aver colto in tal modo nulla di essenziale sarà inevitabile, se considererete che in alcune categorie di animali le femmine sono più forti e aggressive, mentre i maschi sono attivi unicamente nell’atto dell’unione sessuale. È il caso, per esempio, dei ragni. Anche le funzioni di covare e di allevare, le quali ci appaiono così squisitamente femminili, non sono negli animali regolarmente connesse col sesso femminile. In specie molto elevate, si osserva che i sessi si dividono il compito di covare o, perfino, che vi si dedica soltanto il maschio. Persino nel campo della vita sessuale umana vi accorgerete ben presto quanto sia inadeguato far coincidere il comportamento maschile con l’attività e quello femminile con la passività. La madre è attiva in ogni senso nei riguardi del suo bambino; l’atto stesso dell’allattamento si può indifferentemente concepire tanto in modo attivo come allattare quanto in modo passivo come lasciarsi succhiare il latte. Quanto più vi allontanate poi dallo stretto campo sessuale, tanto più chiaro diventa questo “errore di sovrapposizione”.204 Le donne possono esplicare una grande attività in diverse direzioni, gli uomini non possono convivere con i loro simili se non sviluppano un alto grado di passiva arrendevolezza. Se adesso mi dite che questi fatti contengono precisamente la prova che tanto gli uomini quanto le donne sono bisessuali in senso psicologico, ne deduco che dentro di voi siete decisi a far coincidere “attivo” con “maschile” e “passivo” con “femminile”. Ma ve lo sconsiglio. A mio parere questa distinzione è inadeguata e certo non ci insegna niente di nuovo.205

Si potrebbe pensare di caratterizzare psicologicamente la femminilità con la preferenza per mete passive, il che, naturalmente, non è la stessa cosa della passività; per realizzare una meta passiva può essere necessaria una grande dose di attività. Forse succede che nella donna una predilezione per il comportamento passivo e per aspirazioni passive, derivante dal ruolo che le è riservato nella funzione sessuale, si protenda nella vita più o meno ampiamente, secondo i limiti, circoscritti o estesi, in cui la vita sessuale funge da modello. Dobbiamo però stare attenti a non sottovalutare l’influsso degli ordinamenti sociali, che parimenti sospingono la donna in situazioni passive. Tutto ciò è ancora molto oscuro. Vi è una relazione particolarmente costante, tra femminilità e vita pulsionale, che non vogliamo trascurare. Nella donna la repressione dell’aggressività, così come le è prescritto dalla sua costituzione e imposto dalla società, favorisce lo sviluppo di forti impulsi masochistici, i quali, come sappiamo, riescono a legare eroticamente le tendenze distruttive rivolte all’interno. Il masochismo è dunque, come si suol dire, schiettamente femminile. Se però, come tanto spesso avviene, riscontrate il masochismo negli uomini, che altro vi resta da dire se non che questi uomini mostrano tratti femminili molto evidenti?

Avete ormai capito che neppure la psicologia è in grado di sciogliere l’enigma della femminilità. La spiegazione deve venire da qualche altra parte e non può venire se prima non abbiamo appreso come abbia avuto origine, in genere, la differenziazione degli esseri viventi in due sessi. Nulla sappiamo in proposito, pur essendo l’esistenza dei due sessi un carattere assai appariscente della vita organica, mediante il quale essa si distingue nettamente dalla natura inanimata. Frattanto, contentiamoci di studiare quei caratteristici individui umani che, per il fatto di possedere genitali femminili, sono manifestamente o prevalentemente femminili. È conforme alla natura della psicoanalisi proporsi non già di descrivere ciò che la donna è – che sarebbe un compito forse superiore alle sue forze – ma di indagare il modo in cui essa diventa tale, il modo in cui dalla bambina, che ha disposizione bisessuale, si sviluppa la donna. Negli ultimi tempi abbiamo appreso qualcosa su questo argomento, grazie alla circostanza che parecchie nostre esimie colleghe psicoanaliste hanno cominciato a lavorare intorno a questo problema. La discussione è stata particolarmente stimolante a causa della diversità dei sessi, poiché ogni qual volta un confronto sembrava andare a scapito del loro sesso, le nostre analiste potevano esprimere il sospetto che noi analisti non avessimo superato certi pregiudizi profondamente radicati contro la femminilità e li scontassimo quindi con la parzialità della nostra ricerca. A noi per contro era facile evitare, invocando la bisessualità, ogni scortesia. Non avevamo che da dire: “Questo non vale per lei. Lei è l’eccezione essendo, su questo punto, più maschile che femminile.”

Affrontiamo l’indagine dello sviluppo sessuale della donna con una duplice attesa. La prima è che anche qui la costituzione non si adatti alla funzione senza riluttanza. L’altra è che le svolte decisive siano avviate o compiute già prima della pubertà. Entrambe sono presto confermate. Inoltre, il confronto con quanto avviene nel maschietto ci dice che il passaggio dalla bambina alla donna normale è più difficile e complicato, poiché comprende due compiti in più, per i quali lo sviluppo dell’uomo non presenta alcun corrispettivo. Seguiamo il parallelo a partire dall’inizio. Già il materiale è senza dubbio diverso nel maschietto e nella bambina; per stabilirlo non c’è bisogno della psicoanalisi. La differenza nella conformazione dei genitali si accompagna ad altre diversità somatiche, che sono troppo note perché occorra menzionarle. Anche nella disposizione pulsionale compaiono differenze che lasciano presagire la futura indole della donna. La bambina è di regola meno aggressiva, meno ostinata e autosufficiente, sembra avere maggior bisogno che le si dimostri tenerezza ed essere pertanto più dipendente e docile. Il fatto che si lasci educare più facilmente e più presto al controllo delle escrezioni è molto probabilmente solo una conseguenza di questa docilità; urina e feci sono i primi regali che il bambino fa alle persone che si curano di lui [vedi lezione 32], il loro controllo è la prima concessione che la vita pulsionale infantile si lascia strappare. Si ha anche l’impressione che la femminuccia sia più intelligente, più vivace del maschietto suo coetaneo; è maggiormente rivolta verso il mondo esterno, attua alla stessa epoca investimenti oggettuali più intensi. Non so se questo anticipo nello sviluppo sia stato confermato da osservazioni precise; in ogni caso è accertato che la bambina non può essere definita intellettualmente inferiore. Queste differenze fra i sessi non vanno comunque tenute in molta considerazione: possono esser controbilanciate da variazioni individuali. Per i nostri intenti immediati possiamo trascurarle.

Entrambi i sessi sembrano attraversare allo stesso modo le più antiche fasi dello sviluppo libidico. Sarebbe stato logico che nella bambina si manifestasse un rallentamento dell’aggressività già nella fase sadico-anale, ma non è così. L’analisi del gioco infantile ha mostrato alle nostre analiste che gli impulsi aggressivi delle femmine non lasciano nulla a desiderare quanto a ricchezza e violenza. Con l’ingresso nella fase fallica, le differenze fra i sessi passano in seconda linea rispetto alle concordanze. Dobbiamo ora riconoscere che la bambina è un ometto. Nel maschio questa fase è notoriamente caratterizzata dal fatto che egli sa procurarsi sensazioni piacevoli col suo piccolo pene, il cui stato di eccitazione è da lui posto in relazione con le proprie idee circa il rapporto sessuale. Lo stesso fa la bambina con la sua ancor più piccola clitoride. Sembra che in lei tutti gli atti onanistici si esplichino su questo equivalente del pene, e che la vagina, che è propriamente femminile, sia ancora da scoprire per entrambi i sessi. È vero che voci sporadiche riferiscono di precoci sensazioni vaginali, ma mi pare difficile distinguere tali sensazioni da quelle anali o vestibolari; in ogni caso, esse non possono avere una parte rilevante. Possiamo perciò tenere per certo che nella fase fallica della bambina la clitoride è la zona erogena dominante. Ma questa situazione non durerà a lungo; con la svolta verso la femminilità la clitoride deve cedere in tutto o in parte la sua sensibilità, e quindi la sua importanza, alla vagina. È questo uno dei due compiti che devono essere risolti dallo sviluppo della donna, mentre l’uomo, più fortunato, all’epoca della maturità sessuale non ha che da continuare ciò in cui si era preliminarmente esercitato nel periodo del primo sbocciare della sessualità.

Sul ruolo della clitoride torneremo ancora; rivolgiamoci ora al secondo compito che grava sullo sviluppo della bambina. Il primo oggetto amoroso del maschio è la madre, che tale rimane anche nella formazione del complesso edipico e, in definitiva, per tutta la vita. Anche per la bambina il primo oggetto dev’essere la madre (e le figure della balia e della bambinaia che con lei si confondono), poiché è ovvio che i primi investimenti oggettuali avvengono mediante appoggio al soddisfacimento dei grandi e semplici bisogni vitali206 e le modalità del governo dei bambini sono le medesime per entrambi i sessi. Nella situazione edipica, invece, è il padre che diventa per la bambina l’oggetto amoroso, e ci aspettiamo che nel normale corso dello sviluppo essa trovi, a partire dall’oggetto paterno, la via verso la scelta oggettuale definitiva. Col volgere del tempo la bambina deve dunque cambiare zona erogena e oggetto, mentre il maschio li mantiene entrambi. Sorge allora la domanda: come avviene questo? e in particolare: come passa la bambina dalla madre all’attaccamento per il padre o, in altri termini, dalla sua fase maschile a quella femminile, cui è biologicamente destinata?

Sarebbe una soluzione di una semplicità ideale se potessimo supporre che, a partire da una certa età, si faccia sentire l’influsso elementare dell’attrazione eterosessuale, la quale spingerebbe la piccola donna verso l’uomo, mentre la stessa legge permetterebbe al maschio di rimanere legato alla madre. Anzi, si potrebbe aggiungere che i bambini seguono in ciò l’indicazione che proviene loro dalla predilezione sessuale dei genitori. Ma non ce la caveremo così facilmente; non sappiamo neppure se dobbiamo credere sul serio in quel potere misterioso, non ulteriormente decomponibile mediante l’analisi, del quale parlano i poeti con tanto fervore. Dalle nostre laboriose ricerche – per le quali fu però facile procurarci il materiale – abbiamo ricavato un’informazione di tutt’altro genere. Dovete sapere che è molto grande il numero delle donne le quali fino a età avanzata persistono nella loro tenera dipendenza dall’oggetto paterno, o addirittura dal padre reale. Su queste donne con attaccamento intenso e persistente al padre abbiamo fatto sorprendenti costatazioni.

Sapevamo, naturalmente, che vi era stato uno stadio preliminare di attaccamento alla madre, ma non sapevamo che potesse essere così ricco di contenuto, perdurare così a lungo, lasciarsi dietro tanti spunti per fissazioni e disposizioni successive. Durante questo periodo il padre è solo un molesto rivale; in alcuni casi l’attaccamento alla madre persiste fin oltre il quarto anno. Quasi tutto quello che più tardi troviamo nel rapporto con il padre era già presente in tale attaccamento, ed è stato successivamente trasferito sul padre. Ci formiamo, in breve, la convinzione che non si possa comprendere la donna se non si valuta adeguatamente questa fase dell’attaccamento preedipico alla madre.

Ci piacerebbe ora sapere quali sono le relazioni libidiche della bambina con la madre. La risposta è che sono molto varie. Poiché passano attraverso tutte e tre le fasi della sessualità infantile, esse assumono anche tutti i caratteri di ogni singola fase, esprimendosi in desideri orali, sadico-anali e fallici. Questi desideri rappresentano impulsi sia attivi che passivi; se li mettiamo in rapporto – benché sia da evitarlo il più possibile – con la differenziazione dei sessi che compare più tardi, possiamo chiamarli maschili e femminili. Oltre a ciò, essi sono assolutamente ambivalenti, tanto di natura affettuosa quanto di natura ostile-aggressiva. Questi ultimi spesso vengono alla luce solo dopo essere stati trasformati in rappresentazioni angosciose. Non ci è sempre facile riuscire a formulare in che cosa consistano questi precoci desideri sessuali; quello che più chiaramente si esprime è il desiderio di dare alla madre un bambino – e quello corrispondente di partorirle un bambino –, entrambi appartenenti alla fase fallica e abbastanza sconcertanti, ma accertati al di là di ogni dubbio dall’osservazione analitica. Il fascino di queste ricerche risiede nelle singole sorprendenti scoperte che riusciamo a fare. Così, ad esempio, si trova riferita alla madre, già in questo periodo preedipico, la paura di essere uccise o avvelenate, che più tardi può costituire il nucleo di una malattia paranoica. Oppure un altro caso: Vi ricorderete un interessante episodio della storia della ricerca analitica, che mi ha causato molte ore penose; nel periodo in cui il maggior interesse era rivolto a scoprire traumi sessuali infantili, quasi tutte le mie pazienti mi raccontavano di essere state sedotte dal padre, ma alla fine dovetti convenire che questi racconti non erano veritieri e imparai così a comprendere che i sintomi isterici derivano da fantasie e non da avvenimenti reali; solo più tardi potei riconoscere in questa fantasia di seduzione da parte del padre l’espressione del tipico complesso edipico femminile. E ora ritroviamo la stessa fantasia di seduzione nella storia preedipica della bambina, laddove però la seduttrice è invariabilmente la madre. Ma qui la fantasia tocca il terreno della realtà, poiché fu realmente la madre che, nei maneggiamenti necessari alla cura del corpo della bimba, dovette provocare, e fors’anche risvegliare per la prima volta, sensazioni piacevoli ai genitali.207

Prevedo che subito vi verrà il sospetto che questa descrizione della ricchezza e dell’intensità delle relazioni sessuali della bambina piccola con la madre sia parecchio esagerata. Insomma, si ha occasione di vederle, queste bambine, e in esse non si nota nulla di simile. Ma l’obiezione non coglie nel segno; i bambini lasciano vedere molte cose; basta saperli osservare. Considerate inoltre quanto poco dei loro desideri sessuali essi riescano a esprimere a livello preconscio, o comunque a comunicare, ragion per cui non facciamo che avvalerci di un nostro diritto se studiamo retrospettivamente i residui e le conseguenze di questo mondo emotivo nelle persone in cui tali processi di sviluppo si sono configurati in modo particolarmente perspicuo o magari eccessivo. La patologia ci ha sempre reso il servizio di farci distinguere, isolandole ed esagerandole, condizioni che nella normalità sarebbero rimaste nascoste. E poiché gli individui su cui sono state svolte le nostre ricerche non erano affatto persone gravemente anormali, ritengo che possiamo considerare degni di fede i risultati delle nostre ricerche.

Volgeremo ora il nostro interesse al problema specifico di che cosa faccia cessare questo potente attaccamento della bambina alla madre. Sappiamo che abitualmente ciò è inevitabile: l’attaccamento è destinato a cedere il posto a un sentimento simile per il padre. Qui ci imbattiamo in un fatto che ci indica la strada. In questo nodo dello sviluppo non si tratta semplicemente di una permuta dell’oggetto. Il distacco dalla madre avviene all’insegna dell’ostilità, l’attaccamento alla madre finisce in odio. Un odio che può diventare molto evidente e durare tutta la vita, pur essendo più tardi accuratamente sovraccompensato; di regola, quest’odio in parte viene superato e in parte persiste. Su ciò hanno naturalmente una forte influenza gli avvenimenti degli anni successivi. Da parte nostra, ci limitiamo a studiarlo all’epoca in cui la bambina si volge al padre e a interrogarci sulle sue motivazioni. Sentiamo allora una lunga lista di accuse e lamentele contro la madre, di valore assai diverso e intese a giustificare i sentimenti ostili che la bambina prova. Non intendiamo trascurarle. Alcune sono palesi razionalizzazioni e le vere sorgenti dell’inimicizia restano da trovare. Ho intenzione, questa volta, di condurvi attraverso tutti i particolari di un’indagine psicoanalitica, nella speranza che partecipiate con interesse.

Il rimprovero alla madre che risale più indietro nel tempo è di aver dato alla bambina troppo poco latte, il che le viene imputato come mancanza di amore. Ora, nelle nostre famiglie, questo rimprovero ha una certa giustificazione. Le madri spesso non hanno sufficiente nutrimento per i loro bambini e si accontentano di allattarli per alcuni mesi, per sei o nove mesi. Presso i popoli primitivi i piccoli vengono nutriti al seno materno fino a due o tre anni. La figura della balia che allatta viene di regola fusa con la madre; quando ciò non è accaduto, il rimprovero si trasforma in quello di aver mandato via troppo presto la balia che nutriva così premurosamente la bambina. In ogni caso, qualunque possa essere stata la situazione reale, è impossibile che il rimprovero della bambina sia comunque giustificato ogni volta che lo si incontra. Sembra, piuttosto, che l’avidità della bambina per il primo nutrimento sia assolutamente insaziabile, che essa non si consoli mai della perdita del seno materno. Non mi stupirei affatto se l’analisi di una piccola primitiva, la quale abbia potuto succhiare al seno materno fino a quando già sapeva camminare e parlare, mettesse in luce lo stesso rimprovero. Alla privazione del seno è connessa probabilmente anche la paura di essere avvelenata. Veleno è il cibo che fa ammalare. Forse la bambina fa risalire anche le sue prime malattie a questa frustrazione. Per credere al caso fortuito, occorre già una buona dose di addestramento intellettuale; i primitivi, gli incolti, e sicuramente anche i bambini, sanno indicare una ragione per tutto ciò che accade. Forse, originariamente, si trattava di un motivo inteso animisticamente. Ancor oggi, presso alcuni strati della nostra popolazione, non può morire nessuno che non sia stato ucciso da un altro, di preferenza dal dottore. E la consueta reazione del nevrotico alla morte di una persona a lui prossima è di incolpare se stesso di aver causato tale morte.

La seconda accusa contro la madre prorompe quando in famiglia arriva un altro bambino. Se possibile, è qui mantenuto il legame con la frustrazione orale. La madre non potrebbe o non vorrebbe più dare il latte alla figlia perché le occorre il nutrimento per il nuovo arrivato. Quando i due bambini sono talmente vicini fra loro che la seconda gravidanza compromette l’allattamento, questo rimprovero acquista un fondamento reale e stranamente la piccina, se anche la differenza d’età è di soli undici mesi, non è troppo piccola per prendere conoscenza di come stanno le cose. Ma essa non invidia soltanto il latte all’indesiderato intruso e rivale, bensì anche tutti gli altri segni della sollecitudine materna. Si sente detronizzata, defraudata, lesa nei suoi diritti, riversa sul fratellino odio e gelosia, sviluppando per la madre infedele un rancore che molto spesso si manifesta in uno spiacevole cambiamento del suo comportamento. Ad esempio, diventa “cattiva”, irritabile, disobbediente e regredisce invece di progredire nel controllo delle escrezioni. Tutto ciò è noto da molto tempo e viene accettato come naturale, ma raramente noi ci facciamo un’idea esatta dell’intensità di questi impulsi di gelosia, della tenacia con cui persistono, nonché della vastità della loro influenza sullo sviluppo futuro. In particolare, ciò avviene perché a questa gelosia viene dato sempre nuovo alimento negli anni successivi dell’infanzia e perché la scossa si ripete, nella sua interezza, all’arrivo di ogni nuovo fratellino. Non fa molta differenza che la bambina rimanga la prediletta della madre; le sue pretese in fatto d’amore sono smisurate, esigono l’esclusività, non ammettono spartizioni.

Una ricca fonte di ostilità verso la madre sono, nella bambina, i molteplici desideri sessuali che variano secondo la fase libidica, i quali non possono perlopiù esser soddisfatti. La più forte di queste frustrazioni si verifica nel periodo fallico, allorché la madre proibisce spesso con dure minacce e manifestando apertamente il suo sdegno – quel voluttuoso affaccendarsi col genitale cui, in fin dei conti, lei stessa l’aveva iniziata.

Si dovrebbe pensare che questi motivi siano sufficienti a giustificare il distacco della bambina dalla madre. Pertanto vien da credere che questa rottura consegua inevitabilmente dalla natura della sessualità infantile, dall’eccessività delle pretese d’amore e dall’inappagabilità dei desideri sessuali. Anzi, chissà che questa relazione amorosa della bambina non sia condannata a naufragare appunto perché è la prima, dato che questi antichi investimenti oggettuali sono di regola in alto grado ambivalenti; accanto al forte amore è sempre presente una forte tendenza aggressiva, e quanto più appassionatamente la bambina ama il suo oggetto, tanto più sensibile diviene di fronte a delusioni e frustrazioni da parte di questo. Alla fine l’amore deve soccombere all’ostilità che si è accumulata. Oppure si può non ammettere una tale ambivalenza originaria degli investimenti amorosi e far rilevare che proprio la particolare natura del rapporto madre-figlia porta, con la stessa inesorabilità, al turbamento dell’amore infantile: anche la più mite educazione, infatti, non può non esercitare la costrizione e non imporre determinate limitazioni, e ogni intervento simile nella libertà della bambina è destinato a provocare in lei, come reazione, la tendenza alla ribellione e all’aggressività. Credo che la discussione di queste possibilità potrebbe essere molto interessante; ma ecco che all’improvviso si presenta un’obiezione che ci obbliga a mutare la rotta delle nostre indagini. Tutti questi fattori – il sentirsi messi in secondo piano, le disillusioni amorose, la gelosia, la seduzione con successivo divieto – operano alla fin fine anche nel rapporto del maschietto con la madre, eppure non sono in grado di estraniarlo dall’oggetto materno. Finché non avremo trovato qualcosa che sia specifico della bambina e che o non sia presente, o non lo sia nello stesso modo nel maschio, non avremo chiarito perché venga a cessare l’attaccamento della bambina alla madre.

Riteniamo questo fattore specifico di averlo trovato precisamente là dove ce l’aspettavamo, seppure in una forma che ci ha meravigliati. Dico dove ce l’aspettavamo, perché si trova nel complesso di evirazione. La differenza anatomica deve pur manifestarsi in certe conseguenze psichiche. È stata però una sorpresa apprendere dalle analisi che la bambina ritiene la madre responsabile della sua mancanza del pene e non le perdona questo svantaggio.

Come vedete, noi attribuiamo anche alla donna un complesso di evirazione. E con buone ragioni, benché esso non possa avere lo stesso contenuto che ha nel maschietto. Il complesso di evirazione sorge nel maschietto dopo che egli ha appreso, avendo visto un genitale femminile, che il membro da lui tanto stimato non necessariamente accompagna ogni corpo. Rammenta allora le minacce che si è attirato occupandosi del proprio membro, incomincia a prestarvi fede, e da quel momento cade sotto l’influsso dell’angoscia di evirazione, che diviene la più potente molla del suo successivo sviluppo. Anche il complesso di evirazione della bambina è messo in moto dalla vista dell’altro genitale. Essa nota subito la differenza e – lo si deve ammettere – si rende conto del suo significato. Si sente gravemente danneggiata, dichiara spesso che anche lei “vorrebbe avere qualcosa di simile” e cade quindi in balia dell’invidia del pene, che lascerà tracce incancellabili nel suo sviluppo e nella formazione del suo carattere e che, anche nel più favorevole dei casi, non sarà superata senza un grave dispendio psichico. Se la bambina riconosce di fatto la mancanza del pene, questo non vuol dire che a ciò si acconci a cuor leggero. Al contrario, ancora a lungo essa mantiene il desiderio di riuscire ad avere qualcosa di simile, ha fede in tale possibilità fino a un’età incredibilmente tarda, e l’analisi può dimostrare che anche in epoche in cui la conoscenza della realtà l’ha indotta a scartare, in quanto irraggiungibile, l’appagamento di questo desiderio, esso permane nell’inconscio conservando un notevole investimento energetico. Il desiderio di ottenere ugualmente il sospirato pene può ancora essere uno dei motivi che spingono la donna matura all’analisi, e in ciò che essa può ragionevolmente aspettarsi dall’analisi – la capacità, per esempio, di esercitare una professione intellettuale – si può spesso ravvisare una modificazione sublimata di questo desiderio rimosso.

Sull’importanza dell’invidia del pene non si possono avere dubbi. Prendete pure, come esempio di ingiustizia maschile, la mia asserzione che l’invidia e la gelosia hanno nella vita psichica delle donne una parte ancora maggiore che in quella degli uomini. Non che agli uomini queste qualità facciano difetto o che nelle donne non abbiano altra radice all’infuori dell’invidia del pene, ma noi siamo propensi ad ascrivere il dipiù presente nelle donne a quest’ultimo influsso. Alcuni analisti hanno mostrato l’inclinazione a sminuire l’importanza del primo soprassalto di invidia del pene nella fase fallica. Essi ritengono che quanto di questo atteggiamento si riscontra nella donna sia in sostanza una formazione secondaria, sorta in occasione di conflitti successivi mediante regressione a quell’impulso della piccola infanzia. Ora, questo è un problema generale della psicologia del profondo. A proposito di molti atteggiamenti pulsionali patologici, o anche soltanto inconsueti – ad esempio, a proposito di tutte le perversioni sessuali –, ci si chiede quanta della loro forza vada attribuita alle fissazioni della piccola infanzia e quanta all’influsso di esperienze ed eventi successivi. Si tratta quasi sempre di “serie complementari”, come quelle da noi supposte nella discussione dell’etiologia delle nevrosi.208 Entrambi i momenti concorrono all’etiologia in proporzioni variabili; un meno da una parte viene bilanciato da un più dall’altra. Il fattore infantile è in tutti i casi quello che dà l’orientamento, essendo spesso – anche se non sempre – il fattore determinante. Appunto nel caso dell’invidia del pene, sono decisamente dell’opinione che la prevalenza spetti al fattore infantile.

La scoperta della propria evirazione è un punto di svolta nello sviluppo della bambina. Da essa si dipartono tre indirizzi evolutivi: uno porta all’inibizione sessuale o alla nevrosi; il secondo a un cambiamento del carattere nel senso di un complesso di mascolinità; l’ultimo, infine, alla femminilità normale. Su tutti e tre abbiamo appreso parecchie cose, anche se non tutto. Il contenuto essenziale del primo è che la bambina piccola – la quale fino allora aveva vissuto in modo maschile e sapeva procurarsi il piacere eccitando la clitoride, ponendo questa attività in relazione con i propri desideri sessuali, spesso attivi, rivolti alla madre – si lascia guastare il godimento della propria sessualità fallica dall’influsso dell’invidia del pene. Mortificata nel suo amor proprio dal confronto col maschio, molto meglio fornito, essa rinuncia al soddisfacimento masturbatorio clitorideo, respinge il proprio amore per la madre e insieme, non di rado, rimuove buona parte delle proprie tendenze sessuali in genere. Il distacco dalla madre non avviene certo tutt’a un tratto, poiché dapprima la bambina ritiene la propria evirazione una disgrazia individuale e solo a poco a poco la estende ad altri esseri femminili, e per finire anche alla madre. Il suo amore era diretto alla madre fallica; con la scoperta che la madre è evirata, diventa possibile abbandonarla come oggetto d’amore, così che i motivi di ostilità a lungo accumulati prendono il sopravvento. Ciò significa pertanto che, con la scoperta della mancanza del pene, la donna perde di valore agli occhi della bambina, così come del bambino, e forse, più tardi, dell’uomo.

Tutti voi sapete quale determinante importanza etiologica i nostri nevrotici attribuiscano al loro onanismo. Lo ritengono responsabile di tutti i loro malanni e solo a fatica riusciamo a convincerli che sono in errore. In realtà, tuttavia, dovremmo concedere loro che hanno ragione, poiché l’onanismo è la pratica in cui si esplica la sessualità infantile, ed essi soffrono in effetti per l’erronea evoluzione di questa sessualità. Ora, i nevrotici incolpano perlopiù l’onanismo del periodo puberale; hanno per la maggior parte dimenticato l’onanismo infantile, che è quello che in realtà importa. Desidererei mi si presentasse una volta l’occasione di dilungarmi esaurientemente sull’importanza che hanno, per la futura nevrosi o per il carattere dell’individuo, tutte le circostanze di fatto particolari attinenti al primitivo onanismo: se è stato scoperto o no, come i genitori lo hanno combattuto o accettato, se il bambino è riuscito a reprimerlo da sé. Tutto ciò ha lasciato tracce indelebili nel suo sviluppo. Ma sono d’altro canto lieto di non dovermi accingere a questo compito, che sarebbe difficile e noioso, e alla fine mi mettereste in imbarazzo perché mi chiedereste sicuramente consigli pratici sul modo in cui ci si deve comportare, come genitori o educatori, di fronte all’onanismo dei bambini.209 Lo sviluppo femminile, che vi vado esponendo, vi fornisce ora l’esempio di uno sforzo infantile, non sempre coronato da successo, di liberarsi da sé dell’onanismo. Nel caso che l’invidia del pene abbia suscitato un forte impulso contro l’onanismo clitorideo, e questo però non voglia cedere, si accende una lotta violenta per liberarsene, ove la bambina assume, per così dire, la parte della madre ora deposta, ed esprime tutta la propria delusione per l’inferiorità della clitoride, opponendosi strenuamente al soddisfacimento che da essa potrebbe trarre. Molti anni più tardi, allorché l’attività onanistica è stata da lungo tempo repressa, continua ancora il suo interesse per essa, che va interpretato come difesa contro una tentazione tuttora temuta. L’interesse si manifesta nell’affiorare di una simpatia nei riguardi di coloro che si presume abbiano difficoltà simili, interviene come motivo al momento di contrarre il matrimonio, può addirittura determinare la scelta del coniuge o dell’innamorato. L’eliminazione dell’onanismo dell’infanzia non è invero né semplice né priva di significato.

Con l’abbandono della masturbazione clitoridea si rinuncia parzialmente all’attività. La passività prende ora il sopravvento e la svolta verso il padre viene compiuta prevalentemente con l’aiuto di spinte pulsionali passive. Capirete che, nello sviluppo, un simile passo che toglie di mezzo l’attività fallica spiana il terreno alla femminilità. Se ciò non implica che troppe cose vadano perdute in seguito a rimozione, questa femminilità può riuscire normale. Il desiderio con cui la bambina si volge verso il padre è indubbiamente, all’origine, il desiderio del pene che la madre non le ha concesso e che essa ora si aspetta dal padre. La situazione femminile è però affermata solo quando il desiderio del pene viene sostituito da quello del bambino, ossia quando il bambino prende, secondo un’antica equivalenza simbolica, il posto del pene [vedi lezione 32]. Sappiamo per altro che la bambina aveva desiderato un bambino già prima, nella fase fallica indisturbata: era questo, ovviamente, il significato del gioco con le bambole. Ma questo gioco non era propriamente l’espressione della sua femminilità: serviva a identificarsi con la madre nell’intento di sostituire la passività con l’attività. La figlioletta faceva la parte della madre e la bambola era lei stessa: ora poteva fare al bambino tutto ciò che la madre soleva fare con lei. Solo con la comparsa del desiderio del pene, il bambino-bambola diventa un bambino avuto dal padre e, da quel momento in poi, ciò cui ambisce il più forte dei desideri femminili. La felicità è grande se questo desiderio infantile trova più tardi il suo appagamento reale, ma in modo del tutto particolare se il bambino è un maschio che porta con sé l’agognato pene [vedi oltre]. Nella locuzione “un bambino avuto dal padre”, che congiunge i due termini, l’accento è posto abbastanza spesso sul bambino, mentre al padre non è dato risalto. Così l’antico desiderio maschile di possedere il pene traspare appena nella femminilità compiuta. Ma noi dovremmo forse ammettere che questo desiderio del pene è piuttosto un desiderio squisitamente femminile.

Trasferendo sul padre il desiderio del pene-bambino, la bambina è entrata nella situazione del complesso edipico. L’ostilità verso la madre, che non ha avuto bisogno di essere creata ex novo, subisce ora un grande rafforzamento, poiché la madre diventa la rivale che ottiene dal padre tutto quello che la bambina anela da lui. Il complesso edipico della bambina ha celato al nostro sguardo il suo attaccamento preedipico alla madre, il quale è invece importantissimo e lascia dietro di sé fissazioni oltremodo persistenti. La situazione edipica è per la bambina l’esito di un lungo e difficile sviluppo, una sorta di soluzione provvisoria, una posizione di riposo, che non viene abbandonata tanto in fretta, specialmente perché l’inizio del periodo di latenza non è lontano. E ora, nel rapporto fra il complesso edipico e il complesso di evirazione, ci colpisce una differenza fra i sessi che probabilmente è densa di conseguenze. Il complesso edipico del maschio, in cui questi desidera ardentemente la madre e vorrebbe eliminare il proprio padre in quanto rivale, si sviluppa naturalmente dalla fase della sua sessualità fallica. La minaccia dell’evirazione lo costringe però ad abbandonare questa impostazione. Sotto l’influsso del pericolo di perdere il pene, il complesso edipico viene abbandonato, rimosso e, nel più normale dei casi, radicalmente distrutto [vedi sopra, lezione 32], e come suo erede viene istituito un severo Super-io. Quello che accade nella bambina è pressappoco il contrario. Il complesso di evirazione prepara il complesso edipico anziché distruggerlo; sotto l’influsso dell’invidia del pene, la bambina viene distolta dall’attaccamento alla madre e si precipita nella situazione edipica come in un porto sicuro. Venendo per lei a mancare l’angoscia di evirazione, cade anche il principale motivo che aveva indotto il maschio a superare il complesso edipico. La bambina rimane in questo complesso per un tempo indeterminato, lo demolisce solo tardi e mai completamente. La formazione del suo Super-io non può non risentire di queste condizioni, il Super-io non può raggiungere quella forza e quell’indipendenza che tanta importanza hanno per la civiltà umana, e... i femministi non ameranno certo sentir dire quali sono gli effetti di questa debolezza sul carattere femminile medio.

Ritorniamo ora un po’ indietro. Quale seconda possibile reazione alla scoperta dell’evirazione femminile abbiamo menzionato lo sviluppo di un forte complesso di mascolinità. Intendiamo con ciò che la bambina si rifiuta, in certo qual modo, di prendere atto di quel fatto spiacevole, e, ribellandosi caparbiamente, esagera ancora di più la sua precedente mascolinità, persiste nella sua attività clitoridea rifugiandosi nell’identificazione con la madre fallica o con il padre. Ma a cosa dovremo ascrivere questo esito? Non possiamo immaginare nient’altro se non un fattore costituzionale, un maggior grado di attività, come quella che solitamente caratterizza il maschio. L’essenza del processo è in ogni caso che a questo punto dello sviluppo viene evitata l’ondata di passività che inaugura la svolta verso la femminilità. Il risultato estremo di questo complesso di mascolinità sembra essere l’influsso esercitato sulla scelta oggettuale, nel senso di una omosessualità manifesta. L’esperienza analitica ci insegna, peraltro, che l’omosessualità femminile raramente o mai è la continuazione diretta della mascolinità infantile. Sembra necessario che anche le bambine di questo tipo prendano per qualche tempo come oggetto il padre e accedano alla situazione edipica. Dopo, però, a causa delle immancabili disillusioni provocate dal padre, sono indotte a regredire al loro precedente complesso di mascolinità. L’importanza di queste disillusioni non deve essere sopravvalutata; non sono risparmiate neppure alla bambina destinata alla femminilità, anche se non hanno gli stessi effetti. La preponderanza del fattore costituzionale sembra indiscutibile, ma le due fasi dello sviluppo dell’omosessualità femminile si riflettono molto bene nelle pratiche delle donne omosessuali, le quali assumono una rispetto all’altra la parte di madre e bambino con altrettanta frequenza e chiarezza quanto la parte di uomo e donna.

Ciò che vi ho ora riferito è, per così dire, la preistoria della donna. Si tratta di un’acquisizione di questi ultimi anni che può avervi interessato come saggio di lavoro analitico dettagliato. Poiché il tema è la donna, mi permetto in questa occasione di citare per nome alcune donne alle quali questa indagine deve importanti contributi. La dottoressa Ruth Mack Brunswick ha descritto per la prima volta un caso di nevrosi che risaliva a una fissazione allo stadio preedipico; la paziente non aveva mai raggiunto la situazione edipica. Si trattava di una gelosia paranoica che si dimostrò terapeuticamente accessibile.210 La dottoressa Jeanne Lampl-de Groot ha assodato, mediante sicure osservazioni, la tanto inverosimile attività fallica della bambina nei confronti della madre.211 La dottoressa Helene Deutsch ha dimostrato che le attività erotiche delle donne omosessuali riproducono i rapporti madre-bambino.212

Non è mia intenzione seguire l’ulteriore comportamento femminile attraverso la pubertà fino all’epoca della maturità, né le nostre conoscenze sarebbero sufficienti a questo scopo. In ciò che segue ne delineerò alcuni tratti.

Riallacciandomi alla preistoria, voglio qui soltanto mettere in rilievo che il dispiegamento della femminilità rischia di essere turbato dai fenomeni residui del primitivo periodo mascolino. Regredire alle fissazioni delle fasi preedipiche è tutt’altro che raro; nel corso della loro vita, alcune donne sono soggette a un ripetuto alternarsi di periodi in cui prende il sopravvento ora la mascolinità ora la femminilità. Quello che noi uomini chiamiamo l’“enigma della donna” deriva parzialmente, forse, da questo modo di manifestarsi della bisessualità nella vita femminile.

Vi è però un altro problema che nel corso di queste indagini sembra esser giunto a un momento risolutivo. Noi abbiamo chiamato libido la forza motrice della vita sessuale. La vita sessuale è dominata dalla polarità maschile-femminile; viene quindi spontaneo esaminare il rapporto della libido con questa coppia di opposti. Non sarebbe sorprendente se risultasse che a ciascuna sessualità è assegnata la sua particolare libido, così che un genere di libido perseguirebbe le mete della vita sessuale maschile e un altro le mete di quella femminile. Ma nulla di simile accade. Vi è una libido sola, la quale viene messa al servizio tanto della funzione sessuale maschile quanto di quella femminile. Alla libido in sé non possiamo attribuire alcun sesso; se, seguendo la convenzionale equiparazione fra attività e mascolinità, preferiamo chiamarla “maschile”, non dobbiamo però dimenticare che essa rappresenta anche tendenze con mete passive. E, d’altra parte, qualificare la libido come “femminile” mancherebbe di qualsiasi giustificazione. È nostra impressione che alla libido sia stata fatta maggior violenza allorché la si è costretta al servizio della funzione femminile e che – sotto il profilo teleologico – la natura tenga meno conto delle esigenze di quest’ultima funzione che non di quelle della virilità. E ciò può avere il suo motivo – sempre ragionando teleologicamente – nel fatto che la realizzazione della meta biologica è stata affidata all’aggressività dell’uomo e resa entro certi limiti indipendente dal consenso della donna.

La frigidità sessuale della donna, la cui frequenza sembra confermare questa posizione di secondo piano, è un fenomeno tuttora insufficientemente compreso. Talvolta essa è psicogena, e quindi accessibile a trattamento; in altri casi suggerisce l’ipotesi di essere condizionata costituzionalmente e perfino che vi contribuisca un fattore anatomico.

Ho promesso di esporvi alcune altre peculiarità psichiche della femminilità matura, quali si presentano all’osservazione analitica. Per queste affermazioni non rivendichiamo altro che un valore medio di verità; inoltre non sempre è facile distinguere che cosa sia da ascriversi all’influsso della funzione sessuale e che cosa alla regolamentazione sociale.

Noi attribuiamo il narcisismo in maggiore misura alla femminilità, ed esso influisce tra l’altro sulla scelta oggettuale della donna, così che per lei il bisogno di essere amata è più forte del bisogno di amare. Nella vanità fisica della donna incide ancora, in parte, l’invidia del pene, dal momento che la donna tanto più deve stimare le proprie attrattive in quanto rappresentano un tardivo risarcimento per l’originaria inferiorità sessuale.213 Al pudore, che è ritenuto una qualità eminentemente femminile, pur essendo assai più convenzionale di quanto si potrebbe pensare, noi attribuiamo l’originaria intenzione di nascondere il difetto del genitale. Non dimentichiamo però che esso ha assunto in seguito altre funzioni. Si dice che le donne abbiano fornito pochi contributi alle scoperte e alle invenzioni della storia della civiltà, eppure vi è forse una tecnica che esse hanno in effetti inventato: quella dell’intrecciare e del tessere. Se così fosse, viene spontaneo tentar di indovinare il motivo inconscio di questa riuscita. La natura stessa sembra aver offerto il modello da imitare, facendo sì che, con la maturità sessuale, il pelo pubico cresca fino a coprire il genitale. Il passo successivo consistette nel far aderire l’una all’altra le fibre che sul corpo erano conficcate nella pelle ed erano soltanto ingarbugliate fra loro. Se respingete come fantasioso quest’accostamento e ritenete che l’influenza della mancanza del pene sul configurarsi della femminilità sia una mia idea fissa, mi cogliete, naturalmente, privo della possibilità di difendermi.

Le cause che determinano la scelta oggettuale della donna sono rese abbastanza spesso irriconoscibili a causa dei condizionamenti sociali. Là dove tale scelta può mostrarsi liberamente, spesso risulta attuata in base a un ideale narcisistico, ove l’ideale è quel particolare uomo che la bambina aveva desiderato diventare. Se la bambina è rimasta ferma all’attaccamento al padre, e quindi al complesso edipico, sceglie secondo il tipo paterno. Dato che nel suo volgersi dalla madre al padre l’ostilità del rapporto emotivo ambivalente è rimasta sulla madre, una scelta di tal genere dovrebbe assicurare un matrimonio felice. Ma molto spesso l’esito è tale da minacciare comunque la risoluzione del conflitto di ambivalenza. L’ostilità lasciata indietro segue dappresso l’attaccamento positivo e si estende al nuovo oggetto. Il marito, che dapprima aveva ereditato dal padre, assume col tempo anche l’eredità materna. Pertanto può facilmente accadere che la seconda metà della vita di una donna sia riempita dalla lotta contro il marito, così come la prima, più breve, lo era stata dalla ribellione contro la madre. Dopo che la reazione è stata vissuta a fondo, un secondo matrimonio può facilmente riuscire molto più soddisfacente.214 Un altro mutamento nella natura della donna, al quale gli innamorati non sono preparati, può sopravvenire nel matrimonio dopo che è nato il primo figlio. Sotto l’influenza della propria maternità, può riaccendersi nella donna un’identificazione con la propria madre, contro la quale aveva lottato fino al matrimonio, e tale identificazione può attirare su di sé tutta la libido disponibile, così che la coazione a ripetere riproduce un matrimonio infelice dei genitori. Che l’antico influsso della mancanza del pene non abbia ancora perduto la sua forza, appare evidente nella diversa reazione della madre alla nascita di un figlio o di una figlia. Solo il rapporto con il figlio dà alla madre una soddisfazione illimitata; di tutte le relazioni umane è questa in genere la più perfetta, la più esente da ambivalenza.215 Sul figlio la madre può trasferire l’ambizione che dovette reprimere in se stessa, da lui può attendersi la soddisfazione di tutto quello che le è rimasto del proprio complesso di mascolinità. Il matrimonio stesso non è sicuro se non quando la moglie sia riuscita a fare del proprio marito anche il proprio bambino e ad agire da madre nei suoi confronti.

Nell’identificazione della donna con sua madre è possibile distinguere due livelli: quello preedipico, che è basato sul tenero attaccamento alla madre e che prende quest’ultima come modello, e quello successivo, risultante dal complesso edipico, che vuole eliminare la madre e mettersi al suo posto presso il padre. È certo che rimangono molte tracce di entrambi i livelli nella vita successiva e che nessuno dei due viene superato in misura adeguata nel corso dello sviluppo. Ma la fase del tenero attaccamento preedipico è quella decisiva per il futuro della donna; è qui che si prepara la lenta maturazione di quelle qualità che le consentiranno più tardi di essere all’altezza del suo ruolo nella funzione sessuale e di far fronte ai suoi inestimabili compiti sociali. È in questa identificazione, inoltre, che la donna acquista le sue attrattive al cospetto dell’uomo, il cui attaccamento edipico alla madre divampa in una nuova passione. Peccato che poi, molto spesso, solo il figlio ottenga ciò che l’uomo aveva ambito per sé. Si ha l’impressione che tra l’amore dell’uomo e quello della donna rimanga un distacco dovuto a una sfasatura psicologica.

Esiste un nesso tra lo scarso senso di giustizia della donna e il prevalere dell’invidia nella sua vita psichica; infatti, l’esigenza di giustizia è una metamorfosi dell’invidia, costituisce la condizione in base alla quale è possibile rinunciarvi. Delle donne diciamo anche che i loro interessi sociali sono più deboli e la loro capacità di sublimazione delle pulsioni più ridotta che negli uomini. Il primo aspetto deriva senza dubbio dal carattere asociale che appartiene indubbiamente a tutti i rapporti sessuali: gli innamorati bastano l’uno all’altro e perfino la famiglia è restia all’inserimento in associazioni più vaste.216 L’attitudine alla sublimazione è soggetta alle più grandi oscillazioni individuali. Non posso tuttavia fare a meno di menzionare un’impressione che continuamente si ritrae nel corso dell’attività analitica. Un uomo sui trent’anni si presenta come un individuo giovanile, non del tutto formato, che ci aspettiamo saprà sfruttare vigorosamente le possibilità di sviluppo che l’analisi gli offre. Una donna della stessa età, invece, ci spaventa sovente per la sua rigidità e immutabilità psichiche. La sua libido ha occupato posizioni definitive e sembra incapace di abbandonarle in favore di altre. Non vi sono vie verso un ulteriore sviluppo; è come se l’intero processo avesse già fatto il suo corso e rimanesse d’ora in avanti inaccessibile ad ogni influenza, o meglio, come se il difficile sviluppo verso la femminilità avesse esaurito le possibilità della persona. Come terapeuti questo stato di cose ci appare deprecabile, persino quando riusciamo a porre fine alla sofferenza risolvendo il conflitto nevrotico.

Questo è tutto quanto avevo da dirvi sulla femminilità. È certo incompleto e frammentario e non sempre suona gentile. Non dimenticate però che abbiamo descritto la donna solo in quanto la sua natura è determinata dalla funzione sessuale. Questo influsso, per la verità, giunge molto lontano, ma teniamo presente che ogni donna è anche un essere umano che può avere aspetti diversi. Se volete saperne di più sulla femminilità, interrogate la vostra esperienza, o rivolgetevi ai poeti, oppure attendete che la scienza possa darvi ragguagli meglio approfonditi e più coerenti.

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