7. EROTISMO ANALE E COMPLESSO DI EVIRAZIONE
Ricordi il lettore che questa storia di una nevrosi infantile l’ho ricavata, come una sorta di sottoprodotto, dall’analisi di una malattia contratta in età adulta. Fui quindi costretto a ricomporla a partire da frammenti ancora più minuti di quelli che generalmente abbiamo a disposizione per compiere una sintesi. Questo lavoro, peraltro non difficile, incontra una barriera naturale quando si tratta di portare sul piano descrittivo bidimensionale una struttura in sé pluridimensionale. Debbo perciò accontentarmi di presentare le singole parti di questo insieme, che il lettore potrà ricomporre in un tutto vivente. Come abbiamo più volte rilevato, la nevrosi ossessiva del nostro paziente si sviluppò sulla base di una costituzione sadico-anale. Fin qui abbiamo considerato soltanto uno dei due fattori basilari: il sadismo e le sue trasformazioni. Tutto quanto concerne l’erotismo anale è stato intenzionalmente accantonato e sarà ora messo in luce nel suo complesso.
Gli analisti sono da tempo unanimi nell’attribuire ai multiformi moti pulsionali che raggruppiamo sotto la denominazione di erotismo anale un’importanza incalcolabile nell’edificazione della vita sessuale e dell’attività psichica umana in generale. Si è del pari concordi nel ritenere che una delle manifestazioni principali delle trasformazioni dell’erotismo che risale a questa fonte è costituita dal contegno dell’uomo nei confronti del denaro,744 la preziosa materia che nel corso dell’esistenza attira su di sé l’interesse psichico che originariamente ineriva alle feci, al prodotto della zona anale. Noi psicoanalisti ci siamo ormai abituati a ricondurre l’interesse annesso al denaro – nella misura in cui questo interesse sia di natura libidica e non razionale – al piacere escrementizio; pretendiamo pertanto dalle persone normali un atteggiamento nei confronti del denaro completamente libero da influssi libidici e ispirato a considerazioni meramente realistiche.
Nel nostro paziente quest’atteggiamento si mostrava, all’epoca della malattia più tarda, perturbato in modo particolarmente grave, il che costituiva un elemento non trascurabile della sua incapacità di condurre una vita indipendente, e in genere di affrontare la vita. Avendo ereditato dal padre e dallo zio, era divenuto molto ricco, ci teneva palesemente ad esser considerato tale e si affliggeva assai se veniva sottovalutato da questo punto di vista. Tuttavia non sapeva mai quanto possedesse, quanto avesse speso e quanto gli rimanesse. Era difficile dire se fosse un avaro o un prodigo: si comportava ora in un modo ora nell’altro, e comunque mai secondo un criterio che potesse far pensare a un proposito coerente. Certi suoi tratti appariscenti di cui parlerò più avanti lo facevano sembrare un riccone borioso e indurito che considerava la ricchezza il suo privilegio più grande e non lasciava che neppure per un istante le faccende sentimentali interferissero con questioni di interesse. Ma d’altra parte non valutava gli altri secondo il loro patrimonio, e, in molte occasioni, si mostrava invece modesto, soccorrevole e pietoso. In effetti l’elemento denaro si sottraeva al suo controllo cosciente e significava per lui qualcosa di diverso.
Ho già detto [vedi par. 3] che mi aveva dato molto da pensare il suo modo di consolarsi per la perdita della sorella, divenuta negli ultimi anni la sua migliore amica: si era detto semplicemente che ora non avrebbe avuto più bisogno di dividere con lei l’eredità paterna. Anche più sorprendente era forse la calma con cui raccontava la cosa, come se non si avvedesse affatto della brutalità emotiva che una tale ammissione implicava. L’analisi, è vero, lo riabilitò dimostrando che il dolore per la morte della sorella aveva solo subito uno spostamento; ma ciò non faceva che rendere più inspiegabile ch’egli avesse voluto trovare in un aumento di ricchezza un sostituto alla perdita di lei.
Il contegno tenuto in un’altra circostanza appariva enigmatico ai suoi stessi occhi. Dopo la morte del padre il patrimonio che costui aveva lasciato fu diviso tra il paziente e sua madre. La madre amministrava l’intero patrimonio e provvedeva alle necessità finanziarie del figlio, come egli stesso riconosceva, in modo irreprensibile e con liberalità. Tuttavia, ogni colloquio tra i due in materia di denaro si concludeva regolarmente con violentissimi rimproveri da parte sua: che la madre non gli voleva bene, che cercava di economizzare a sue spese, che probabilmente avrebbe preferito vederlo morto per disporre da sola di tutta la sostanza. La madre piangendo protestava il proprio disinteresse, egli provava vergogna di come s’era comportato, e assicurava, a ragione, che non pensava nulla di quello che aveva detto; sapeva però benissimo che avrebbe ripetuto la stessa scena alla successiva occasione.
Che molto tempo prima dell’analisi le feci avevano avuto per il paziente il significato di denaro è dimostrato da molti episodi. Ne riferirò due. In un’epoca in cui l’intestino non aveva ancora parte nelle sue sofferenze, egli aveva reso visita in una grande città a un cugino povero. Preso commiato da lui, si era rimproverato di non aver mai aiutato finanziariamente questo parente e subito dopo aveva provato “forse il più urgente bisogno corporale di tutta la sua vita”. Due anni dopo cominciò effettivamente a passare una rendita al cugino. Ed ecco l’altro episodio. A 18 anni, mentre si preparava all’esame di maturità, si era recato da un suo compagno di scuola con cui aveva concertato un piano per evitare la bocciatura che tutti e due avevano motivo di temere.745 Avevano preso la decisione di corrompere un bidello, e il contributo del paziente alla somma necessaria era naturalmente il più forte. Al ritorno aveva pensato che avrebbe pagato anche di più pur di passare, purché all’esame non gli capitasse un disastro; ma quello che gli capitò fu un “disastro”746 diverso, prima ancora di raggiungere la soglia di casa.
Non ci stupiremo ora di apprendere che nel corso della sua malattia ulteriore il paziente soffrì di persistenti disturbi della funzione intestinale, seppure d’intensità variabile a seconda delle circostanze. Quando entrò in trattamento con me ricorreva già da tempo agli enteroclismi, che si faceva praticare da un domestico; trascorrevano mesi e mesi senza che si producesse una sola evacuazione spontanea, a meno che non sopravvenisse un improvviso eccitamento derivante da una certa fonte (caso in cui la funzione diveniva normale per alcuni giorni). Il paziente lamentava principalmente che per lui il mondo era avvolto da un velo, ovvero che egli stesso era separato dal mondo da questo velo. Il velo si squarciava soltanto nel momento in cui, dopo l’enteroclisma, il contenuto intestinale abbandonava l’intestino; allora si sentiva di nuovo a posto e normale.747
Il collega cui indirizzai il paziente per avere un responso sul suo stato intestinale fu abbastanza perspicace da intenderlo come un fatto funzionale o addirittura determinato psichicamente, e da astenersi dal prescrivere un trattamento medico attivo. Del resto, né medicamenti né diete servivano a nulla. Durante tutti gli anni del trattamento analitico il malato non ebbe alcuna evacuazione spontanea (se prescindiamo da quelle dovute alle improvvise occorrenze cui accennavo più sopra). Il malato si lasciò convincere che ogni trattamento attivo dell’organo disturbato ne avrebbe solo peggiorato lo stato, e si contentò di ottenere un’evacuazione una o due volte la settimana per mezzo di un enteroclisma o di un purgante.
Occupandomi dei disturbi intestinali ho riservato alla malattia ulteriore del paziente maggior spazio di quanto ne prevedesse il piano di questo lavoro, dedicato alla nevrosi infantile. Ma a ciò sono stato indotto da due motivi: primo, i sintomi intestinali erano passati dalla nevrosi infantile a quella successiva in forma quasi immutata; secondo, essi ebbero un’importanza fondamentale per la conclusione del trattamento.
È nota l’importanza del dubbio per il medico che analizza una nevrosi ossessiva.748 È l’arma più potente di cui il malato disponga, lo strumento preferito della sua resistenza. Anche il nostro paziente riuscì, grazie al dubbio, a trincerarsi dietro una rispettosa indifferenza e a mantenersi per anni impermeabile ad ogni sforzo terapeutico. Non si verificava alcun mutamento, non c’era mezzo di persuaderlo di alcunché. Finalmente mi avvidi dell’importanza che i disturbi intestinali potevano rivestire per i miei fini; essi rappresentavano quella particella d’isteria che troviamo regolarmente alla base di ogni nevrosi ossessiva.749 Promisi dunque al paziente la completa normalizzazione della sua attività intestinale, lo costrinsi, con questa promessa, a rendere esplicita la sua incredulità, ed ebbi in seguito la soddisfazione di vedere sparire i suoi dubbi quando l’intestino – come un organo istericamente affetto – cominciò a “partecipare al discorso”750 durante il nostro lavoro, per poi ritrovare, dopo qualche settimana, la funzione normale da tanto tempo perduta.
Torniamo ora all’infanzia del paziente, epoca in cui le feci non potevano ancora aver assunto per lui il significato di denaro.
Molto presto si erano manifestati disturbi intestinali, soprattutto quello che nei bambini è il più frequente e il più normale, l’incontinenza. Siamo certamente nel giusto se non cerchiamo per questo antico fenomeno una spiegazione patologica, ma ravvisiamo in esso la prova che il bambino non intendeva esser disturbato o interrotto nel piacere connesso all’evacuazione. Motti di spirito ed esibizioni di carattere anale lo divertivano moltissimo, atteggiamento, questo, generalmente conforme ai gusti grossolani di classi sociali diverse dalla sua e che si mantenne fin dopo l’inizio della malattia ulteriore.
All’epoca della governante inglese accadde più volte che il bambino e la nanja fossero costretti a condividere la camera da letto di quell’essere detestabile. Ora, la nanja si accorse benissimo che il bambino – già da tempo avvezzo a non farlo più – in quelle determinate notti sporcava il letto. Egli non se ne vergognava affatto: si trattava di un atto di sfida verso la governante.
Un anno più tardi (a quattro anni e mezzo), durante la fase dell’angoscia, gli accadde di farsela addosso durante il giorno. Si vergognò terribilmente, e mentre lo pulivano disse gemendo che non poteva più vivere così. Qualcosa doveva dunque esser cambiato rispetto all’anno prima, qualcosa sulle cui tracce fummo condotti dalla sua lagnanza. Risultò che le parole “non posso più vivere così” riproducevano una frase che il bambino aveva udito pronunciare da qualcuno. Un giorno751 la madre se lo era portato appresso riaccompagnando il medico alla stazione dopo una visita; cammin facendo si era lamentata dei suoi dolori e delle sue emorragie, e a un certo punto aveva esclamato: – Non posso più vivere così! – certamente senza immaginare che quelle parole si sarebbero impresse nella memoria del piccino che teneva per mano. La lamentela del bambino (che egli avrebbe d’altronde ripetuto innumerevoli volte nel corso della malattia ulteriore) aveva dunque il significato di un’identificazione con la madre.
Per l’epoca in cui si colloca e per il suo contenuto, un fatto di cui il paziente si sovvenne poco dopo rappresenta l’anello di congiunzione tra i due episodi or ora citati. All’inizio della fase dell’angoscia la sollecita madre aveva dato disposizione che si usassero alcune precauzioni per proteggere i bambini dalla dissenteria, di cui si erano avuti diversi casi nei dintorni della tenuta. Il bambino si informò di cosa si trattasse e quando gli fu risposto che la dissenteria fa venire il sangue nelle feci si preoccupò moltissimo e dichiarò che nelle sue feci c’era del sangue. Ebbe dunque paura di morire di dissenteria; tuttavia durante una visita si lasciò convincere che si era sbagliato e che non aveva nulla da temere. È evidente che con questa sua paura il bambino mirava a un’identificazione con la madre, la quale, davanti a lui, aveva parlato col medico delle proprie emorragie. Nel suo successivo tentativo di identificazione (a quattro anni e mezzo) non si era più trattato di sangue; il piccino non capiva più se stesso, credeva di vergognarsi e non sapeva che ciò che lo sconvolgeva era la paura della morte, paura che peraltro la sua lagnanza tradì in modo inequivocabile.
In quell’epoca la madre, sofferente di una malattia del basso ventre, era in generale apprensiva per sé e per i bambini; è probabilissimo che l’apprensività del bambino si fondasse, oltre che sui motivi propri, anche sull’identificazione con la madre.
Ma che cosa significava l’identificazione con la madre?
Tra l’abuso sfacciato dell’incontinenza a tre anni e mezzo e l’orrore che questa gli ispirava a quattro anni e mezzo si colloca il sogno con cui ebbe inizio la fase dell’angoscia; questo sogno gli consentì la comprensione posticipata della scena osservata a un anno e mezzo752 e gli mise in chiaro il ruolo che spetta alla donna nell’atto sessuale. Viene naturale di porre in rapporto con questo grande rivolgimento anche il mutato atteggiamento del bambino nei confronti della defecazione. Per lui “dissenteria” era evidentemente il nome della malattia di cui aveva udito lamentarsi la mamma, della malattia con cui non si può vivere; per lui questa malattia non riguardava il basso ventre, ma l’intestino della madre.
Sotto l’influsso della scena primaria egli pervenne alla conclusione che la madre si era ammalata a causa di ciò che il padre aveva fatto con lei;753 e la sua paura di avere del sangue nelle feci, di essere dunque malato come la madre, corrispondeva al rifiuto di identificarsi con lei in quella scena sessuale, lo stesso rifiuto con il quale s’era svegliato dal sogno. Tuttavia tale paura testimoniava altresì che nell’ulteriore elaborazione della scena primaria egli s’era messo al posto della madre e le aveva invidiato quella relazione col padre. L’organo attraverso il quale l’identificazione con la donna – e cioè l’atteggiamento omosessuale passivo verso l’uomo – poteva estrinsecarsi, era la zona anale. I disturbi della funzione di questa zona avevano ora acquistato il significato di impulsi di tenerezza femminile, e tale significato conservarono anche durante la malattia ulteriore.
A questo punto dobbiamo prestar ascolto a un’obiezione la cui disamina potrà contribuire considerevolmente a chiarire lo stato apparentemente confuso dei fatti. Abbiamo dovuto supporre che durante lo svolgimento del sogno il paziente avesse ritenuto che la donna fosse evirata e avesse, in luogo del membro virile, una ferita; nella sua interpretazione la ferita doveva servire al rapporto sessuale e l’evirazione era la condizione della femminilità. Abbiamo supposto che la minaccia della perdita del membro avesse fatto rimuovere al bambino l’atteggiamento femminile verso l’uomo e lo avesse destato in stato d’angoscia dalla sua infatuazione omosessuale. Ora, come si concilia questa comprensione del rapporto sessuale, questo riconoscimento della vagina con la scelta dell’intestino per l’identificazione con la donna? I sintomi intestinali non risalgono piuttosto all’altra teoria, verosimilmente più antica e del tutto contrastante con la paura dell’evirazione, teoria secondo la quale è l’orifizio anale la sede del rapporto sessuale?
Certo, questa contraddizione esiste, e le due concezioni sono fra loro incompatibili. Soltanto, si tratta di sapere se sia proprio necessario renderle compatibili. Il nostro disorientamento, in realtà, nasce solo da questo: che siamo sempre propensi a considerare i processi psichici inconsci alla stessa stregua di quelli consci, dimenticando le profonde differenze che separano i due sistemi psichici.
Quando l’eccitata aspettativa del sogno natalizio ebbe evocato nel bambino la scena una volta osservata (o costruita) del rapporto sessuale dei genitori, la prima concezione che di tale rapporto gli si presentò fu certo l’antica, quella per cui la parte del corpo femminile che riceve il membro virile è l’orifizio anale. Cos’altro avrebbe potuto credere infatti quando a un anno e mezzo aveva assistito a quella scena?754 Ora però che aveva quattro anni, accadde qualcosa di nuovo. Si risvegliarono le esperienze vissute nel frattempo, gli accenni che aveva udito al tema dell’evirazione; tutto ciò mise in dubbio la “teoria cloacale” e lo portò a riconoscere la differenza tra i sessi e il ruolo sessuale assegnato alla donna. Egli si comportò allora come si comportano d’abitudine i bambini quando si dà loro un chiarimento indesiderato su argomenti sessuali o di altra natura. Respinse cioè il nuovo – nel nostro caso per motivi attinenti alla paura dell’evirazione – e si attenne al vecchio. Si decise per l’ano contro la vagina, nello stesso modo e per gli stessi motivi per cui più tardi prese partito per il padre contro Dio. La spiegazione nuova fu scartata, l’antica mantenuta; quest’ultima gli forniva il materiale per l’identificazione con la donna: identificazione che più tardi si espresse nella paura della morte per disturbi intestinali e sotto forma di incipienti elucubrazioni religiose (il problema se Cristo avesse il sedere, e simili). Non si deve credere però che la nuova concezione rimanesse senza esito: al contrario essa produsse un effetto straordinariamente intenso costituendosi a fondamento del fatto che l’intero processo del sogno fu mantenuto nella rimozione e sottratto ad ogni ulteriore elaborazione cosciente. In ciò, tuttavia, l’effetto di questa concezione si esaurì e non influì in alcun modo sulla soluzione dei problemi sessuali. È certo contraddittorio che da allora in poi la paura dell’evirazione potesse coesistere accanto all’identificazione con la donna attraverso l’intestino; ma non si trattava che di una contraddizione logica, e quindi scarsamente significativa. L’intero processo, anzi, appare caratteristico del modo in cui lavora l’inconscio. Una rimozione è qualcosa di diverso da un ripudio cosciente.
Quando abbiamo esaminato la genesi della fobia dei lupi abbiamo inseguito gli effetti derivanti dalle nuove cognizioni che il paziente aveva acquisito su come si svolge l’atto sessuale; ora che studiamo i disturbi della funzione intestinale ci troviamo sul terreno della vecchia teoria cloacale. I due punti di vista erano tenuti separati da uno stadio di rimozione. L’atteggiamento femminile verso l’uomo, ripudiato mediante l’atto di rimozione, si ritrasse nella sintomatologia intestinale, manifestandosi nelle frequenti diarree, costipazioni e dolori intestinali degli anni infantili. Le fantasie sessuali ulteriori, fondate sulle nuove e corrette cognizioni sessuali, poterono così esternarsi regressivamente come disturbi intestinali. Non potremo tuttavia comprendere questi ultimi se non avremo prima scoperto quale mutamento di significato subirono le feci a partire dai primissimi giorni di vita del paziente.755
Ho accennato più sopra [par. 4] che al contenuto della scena primaria mancava un frammento; è ora giunto il momento di inserirlo. Il bambino aveva interrotto il rapporto sessuale dei genitori defecando, ciò che gli aveva permesso di mettersi a gridare. Per la valutazione critica di questa aggiunta rimando il lettore a tutte le considerazioni che ho svolto a proposito del restante contenuto della scena. Il paziente accettò la mia costruzione di questo atto conclusivo della scena e sembrò confermarla sviluppando dei “sintomi passeggeri”. Dovetti rinunciare invece a un’altra aggiunta che avevo prospettato: e cioè che il padre, così disturbato, avesse sfogato il suo disappunto sgridando il bambino. Il materiale dell’analisi non reagì affatto a questa costruzione.
Il dettaglio testé aggiunto non può, naturalmente, essere posto sullo stesso piano degli altri. Non si tratta, infatti, di una impressione esogena, di cui ci si potrebbe attendere la ripetizione in numerose manifestazioni ulteriori, ma di una reazione propria del bambino. La storia del caso non sarebbe cambiata in nulla se tale manifestazione, allora, non si fosse verificata o se fosse stata desunta da un periodo successivo e quindi inserita nel corso della vicenda. Ma la sua interpretazione non lascia luogo a dubbi: essa indica un eccitamento della zona anale (in senso lato). In altri casi dello stesso genere, una simile osservazione dell’atto sessuale si conclude con una minzione; un uomo adulto, in circostanze analoghe, avrebbe un’erezione. Il fatto che il nostro bimbetto abbia prodotto una defecazione come segno dell’eccitamento sessuale va ritenuto una peculiarità della sua costituzione sessuale congenita. Egli assunse subito un atteggiamento passivo e si dimostrò più incline a identificarsi in seguito con la donna che non con l’uomo.
Così facendo, come tutti i bambini del resto, egli usò il proprio contenuto intestinale in uno dei suoi primi e più originari significati. Lo sterco è il primo regalo, il primo sacrificio d’affetto del bambino, parte del suo stesso corpo di cui egli si aliena solo in favore di una persona amata.756 La defecazione come atto di sfida (ricordiamo, nel nostro caso, come il bambino se ne servisse, a tre anni e mezzo, per far dispetto alla governante) rappresenta semplicemente l’aspetto negativo del significato originario, quello del “regalo”. Il grumus merdae che lo scassinatore lascia sul luogo del misfatto sembra avere entrambi i significati: da una parte scherno, e dall’altra risarcimento – espresso in modo regressivo – dei danni. Sempre, quando sia stato raggiunto uno stadio superiore, lo stadio inferiore può continuare a sussistere assumendo un significato negativo e denigratorio. La rimozione trova appunto espressione in questa trasformazione nel contrario.757
In uno stadio ulteriore dello sviluppo sessuale, le feci assumono il significato di bambino: del bambino che quando nasce esce, come le feci, dall’ano. Questo nuovo significato, del resto, non si discosta molto da quello di regalo. È d’uso comune parlare del bambino come di un “regalo”. Sentiamo spesso dire che una donna “ha regalato un bimbo” a un uomo; ma l’inconscio, nel suo linguaggio, ha ragione di considerare con la stessa attenzione anche l’altro aspetto di questo rapporto, e di dire che la donna ha “ricevuto” dall’uomo, in regalo, un bambino.
Il significato di denaro attribuito alle feci si innesta anch’esso, ma in un’altra direzione, sullo stesso significato di regalo.
L’antico ricordo di copertura del nostro malato, quello secondo il quale egli avrebbe avuto il primo accesso di collera per non aver ricevuto abbastanza regali a Natale, rivela ora il suo significato più profondo. Ciò di cui egli aveva avvertito la mancanza era il soddisfacimento sessuale, da lui inteso come soddisfacimento anale. Già prima del sogno la sua investigazione sessuale lo aveva preparato a ciò che durante il sogno comprese perfettamente, e cioè che l’atto sessuale risolve l’enigma della venuta al mondo dei bambini. Già prima del sogno egli aveva antipatia per i neonati. Una volta aveva trovato un uccelletto caduto dal nido, ancora implume; l’aveva preso per un bambino piccolissimo, e s’era sentito inorridire. L’analisi mostrò che tutte le bestiole, bruchi, insetti, contro i quali egli infuriava, avevano per lui il significato di neonati.758 La sua posizione rispetto alla sorella maggiore gli aveva dato motivo di riflettere molto sulla reciproca condizione dei fratelli maggiori e minori; e poiché la nanja gli aveva ben detto una volta che la madre gli voleva tanto bene perché era il più piccolo, egli aveva un comprensibile motivo di desiderare che non sopravvenisse alcun altro bambino più piccolo di lui. La paura di questo bambino più piccolo si ravvivò poi sotto l’influsso del sogno, che gli presentava il rapporto sessuale fra i suoi genitori.
Dobbiamo dunque aggiungere, a quelle che già conosciamo, una nuova corrente sessuale, derivante anch’essa, come le altre, dalla scena primaria riprodotta nel sogno: nella sua identificazione con la donna (la madre) egli è pronto a regalare un bambino al padre, ed è geloso della madre che gli ha già fatto questo dono e forse altri gliene farà.
Dunque, in virtù del fatto che sia il denaro sia il bambino sono designati comunemente col significato di regalo, il denaro può acquistare il significato di bambino, e assumere in tal modo su di sé l’espressione del soddisfacimento femminile (omosessuale). Ciò accadde, nel nostro paziente, in occasione del seguente episodio: trovandosi in un sanatorio tedesco insieme alla sorella, egli vide suo padre dare a quest’ultima due grosse banconote. Egli aveva sempre sospettato, nella sua fantasia, che il padre avesse rapporti con la sorella; la sua gelosia allora si risvegliò; appena furono soli, egli si avventò sulla sorella e le reclamò con una tal furia e tali accuse la sua parte di denaro, che quella, in lacrime, glielo gettò tutto. Ciò che l’aveva eccitato in quel modo non era stato soltanto il denaro in quanto tale, ma il denaro in quanto bambino, in quanto soddisfacimento anale donato dal padre. Quando poi, essendo il padre ancora in vita, la sorella morì, egli poté consolarsi al pensiero di quel soddisfacimento. In effetti, la deprecabile idea che gli passò per il capo alla notizia della morte della sorella non significava che questo: “Ormai sono io l’unico bambino, ormai il papà dovrà amare soltanto me.” Ma il sostrato omosessuale di questa riflessione, che altrimenti avrebbe potuto benissimo divenir cosciente, era talmente intollerabile che il suo travestimento in un pensiero ispirato alla più sordida avidità di ricchezza dovette sembrare un grande sollievo.
Lo stesso dicasi di quando, dopo la morte del padre, egli rivolse alla madre l’ingiusto rimprovero di volergli sottrarre la sua parte di denaro e di amare quest’ultimo di più di quanto amasse suo figlio. Proprio la sua antica gelosia per l’amore che la madre aveva rivolto all’altra sua figlia, e in relazione alla mera possibilità che ella avesse desiderato altri figli dopo di lui, lo avevano spinto a rivolgerle quelle imputazioni, che egli stesso riconosceva essere destituite di ogni fondamento.
Attraverso questa analisi del significato delle feci, arriviamo a comprendere che i pensieri ossessivi per cui il paziente si trovava obbligato a mettere Dio in rapporto con lo sterco avevano anche un altro significato oltre a quello oltraggioso che egli stesso ammetteva. Questi pensieri rappresentavano un compromesso tra una corrente ostile e ingiuriosa, e un’altra corrente, non meno forte, di affetto e dedizione. “Dio-merda” costituiva verosimilmente il modo abbreviato di esprimere un’offerta che accade di udire, certe volte, anche in forma non abbreviata. L’espressione tedesca Auf Gott scheissen, Gott etwas scheissen [“cacare su Dio”, “cacare qualcosa a Dio”] significa anche regalargli un bambino, o farsene regalare uno da lui. Il vecchio significato di regalo in forma negativa e denigratoria e quello, derivatone ulteriormente, di bambino si sono fusi nelle parole ossessive. Attraverso il secondo di questi significati si esprime una tenerezza femminile, la disponibilità a rinunciare alla propria virilità se, in cambio, si ottiene di essere amati come una donna. Un tale atteggiamento verso Dio coincide perfettamente con l’impulso che con parole non ambigue aveva proclamato nel suo sistema delirante il paranoico presidente Schreber.759
Quando più oltre verrò a trattare della risoluzione definitiva dei sintomi del mio paziente, risulterà ancora una volta evidente in che modo i suoi disturbi intestinali si ponessero al servizio della corrente omosessuale ed esprimessero l’atteggiamento femminile verso il padre. Per il momento, un nuovo significato assunto dalle feci ci consentirà la disamina del complesso di evirazione.
La colonna di feci, nella misura in cui eccita la mucosa erogena intestinale, svolge nei confronti di quest’ultima la parte di un organo attivo (la stessa parte che ha il pene nei confronti della mucosa vaginale) e costituisce pertanto, nello stadio cloacale, una sorta di precursore del pene stesso. Il dar via le feci in favore (per amore) di un’altra persona rappresenta a sua volta un prototipo dell’evirazione, il primo caso in cui si rinuncia a una parte del proprio corpo760 per accattivarsi il favore di un’altra persona, di una persona che si ama. L’amore, per altri aspetti narcisistico, per il proprio pene, non esclude dunque un apporto derivante dall’erotismo anale. Le feci, il bambino, il pene, costituiscono pertanto un’unità, un – sit venia verbo – concetto inconscio, il concetto di una “piccolezza” che può essere staccata dal proprio corpo. Attraverso nessi di questo genere si producono talora spostamenti e rafforzamenti dell’investimento libidico la cui grande importanza patologica l’analisi è stata in grado di rilevare.
L’atteggiamento inizialmente assunto dal nostro paziente nei confronti del problema dell’evirazione ci è ormai noto da tempo. Egli la respinse e si attenne alla teoria del coito anale. Quando dico “respinse”, il significato più immediato dell’espressione è che non ne volle sapere affatto, e cioè la rimosse. Nessun giudizio, dunque, fu propriamente formulato circa l’esistenza dell’evirazione, ma si fece semplicemente conto che essa non esistesse. Un tale atteggiamento, tuttavia, non poteva durare indefinitamente, neppure negli anni della nevrosi infantile. Come vedremo più innanzi abbiamo buone ragioni per ritenere che a quest’epoca il paziente avesse riconosciuto la realtà dell’evirazione. Si era comportato comunque, anche in ciò, nel modo che gli era caratteristico e che rende così difficile esporre il suo caso e immedesimarsi nei processi psichici che gli erano peculiari. Egli aveva dapprima resistito, poi aveva ceduto, ma la seconda reazione non aveva sospeso completamente la prima. Il risultato fu che, alla fine, coesistevano in lui, una accanto all’altra, due correnti contrarie, per cui da un lato aveva in orrore l’evirazione, e dall’altro era disposto ad accettarla e a consolarsi con la femminilità a titolo di risarcimento. Continuava, poi, a restare virtualmente operante, la terza corrente, la più antica e profonda, quella che si era limitata a respingere l’evirazione, senza porsi neppure il problema di esprimere un giudizio circa la sua realtà. Ho parlato altrove761 di un’allucinazione che questo stesso paziente aveva avuto durante il suo quinto anno di età; la riferisco aggiungendovi qui un breve commento:
“Avevo cinque anni. Stavo giocando in giardino, vicino alla mia bambinaia, e col mio temperino incidevo la corteccia di uno di quei noci che compaiono anche nel mio sogno.762 Improvvisamente con indicibile terrore mi accorsi che mi ero tagliato il mignolo della mano (destra o sinistra?) in modo che stava appeso solo per la pelle. Non provavo dolore ma una grande angoscia. Non osai dire nulla alla bambinaia che si trovava solo pochi passi più in là, mi lasciai cadere sulla panchina più vicina e rimasi seduto, incapace di dare una sola occhiata al dito. Alla fine mi calmai, guardai il dito e vidi che non era minimamente ferito.”763
Sappiamo che a quattro anni e mezzo, dopo esser stato istruito sulla storia sacra, il paziente intraprese quell’intenso sforzo intellettuale che si concluse con la sua devozione ossessiva. Possiamo dunque presumere che questa allucinazione risalga all’epoca in cui egli si decise ad accettare la realtà dell’evirazione, o addirittura, forse, che essa stigmatizzi questo passo. Anche la piccola rettifica764 apportata dal paziente non è irrilevante. Se la sua allucinazione riproduce la stessa terribile esperienza che Tasso, nella Gerusalemme liberata, fa vivere al suo eroe Tancredi, diventa legittima l’interpretazione che anche per il mio piccolo paziente l’albero significasse la donna.765 In quell’occasione, dunque, egli sostenne la parte del padre e mise in rapporto le emorragie materne che gli erano familiari con l’evirazione – la “ferita” delle donne di cui ora ammetteva l’esistenza.
Lo spunto dell’allucinazione del dito tagliato gli era stato fornito, come spiegò più tardi, da ciò che aveva udito a proposito di una sua parente, della quale si raccontava che fosse nata con sei dita a un piede, e che il dito superfluo le fosse stato subito spiccato con un’accetta. Le donne dunque non avevano il pene perché esso era stato loro reciso al momento della nascita. Egli accettò per questa via, all’epoca della nevrosi ossessiva, quel che durante il sogno aveva già appreso e allontanato da sé in virtù di una rimozione. Inoltre dalle letture e dalle discussioni relative alla storia sacra era certo venuto a conoscenza della circoncisione rituale di Cristo e degli ebrei in generale.
È indubbio che in questa fase il padre divenne per lui il terrificante personaggio da cui pendeva la minaccia dell’evirazione. Il Dio crudele contro il quale egli allora lottava, quel Dio che faceva peccare gli uomini per poi castigarli, che sacrificava suo figlio e i figli degli uomini, riversò il suo carattere sul padre del paziente: su quello stesso padre che il figlio peraltro cercava di difendere contro Dio. Il maschietto si trovava, qui, a dover adempiere alle condizioni di uno schema filogenetico; e vi adempì, nonostante le sue esperienze personali non vi si accordassero. Le allusioni e le minacce di evirazione che egli aveva udito, erano state in verità pronunziate principalmente da donne;766 ciò non poteva tuttavia ritardare di molto il risultato finale. Nonostante tutto e alla fin fine fu suo padre a diventare per lui la persona da temere per l’evirazione. In ciò l’ereditarietà ebbe il sopravvento sulle circostanze accidentali della sua esistenza; nella preistoria dell’umanità fu certo il padre a praticare l’evirazione come castigo, ridimensionandola poi in epoche successive alla semplice circoncisione. Quanto più, dunque, evolvendosi la sua nevrosi ossessiva, il nostro paziente procedeva nella rimozione della sua sensualità,767 tanto più doveva diventargli naturale attribuire al padre (che rappresentava per lui la persona dedita per eccellenza alla sensualità) quei minacciosi propositi.
L’identificazione del padre con l’eviratore768 acquistò una grande importanza come fonte sia di una intensa, ma inconscia ostilità contro di lui (giunse al punto di desiderarne la morte), sia dei sentimenti di colpa con cui reagì a tale ostilità. Ma in tutto ciò non c’era niente di anormale, egli si comportava come qualsiasi nevrotico in preda a un complesso edipico positivo. Il fatto singolare era invece costituito dall’esistenza in lui, anche a questo riguardo, di una controcorrente grazie alla quale il padre era piuttosto l’individuo evirato, che come tale esigeva la sua compassione.
Analizzando il cerimoniale respiratorio eseguito dal mio paziente alla vista di storpi, mendicanti e simili, potei mostrargli come anche questo sintomo si riallacciasse a suo padre, e precisamente alla pena che egli aveva provato per lui quando era andato a trovarlo nella clinica in cui giaceva malato [vedi sopra, par. 6]. Ma seguendo questa traccia l’analisi riuscì a risalire ancora più addietro. Viveva nella tenuta di famiglia, in un tempo assai lontano (probabilmente prima ancora della seduzione, avvenuta quando il paziente aveva tre anni e tre mesi), un povero bracciante a cui era stato affidato il compito di portar l’acqua in casa. Costui era privo della parola perché – dicevano – gli era stata tagliata la lingua. Verosimilmente si trattava di un sordomuto. Il bambino lo amava molto e lo compiangeva di cuore; quando morì, lo cercò in cielo.769 Quello fu, dunque, il primo storpio di cui egli ebbe compassione; dal contesto dell’analisi e dal momento in cui l’episodio vi fece la sua comparsa risultò chiaramente che il bracciante era un sostituto del padre.
Nell’analisi, d’altra parte, il ricordo di costui si associava con quello di altri domestici che il paziente aveva avuto in simpatia, e dei quali sottolineò che erano malaticci o ebrei (circoncisione). Anche il domestico che l’aveva aiutato a ripulirsi in occasione del “disastro” occorsogli a quattro anni e mezzo [vedi sopra] era ebreo e malato di petto, e aveva suscitato la sua compassione. I ricordi di tutte queste persone sono relativi al periodo che precedette il soggiorno del padre in sanatorio; che precedette, cioè, la formazione del sintomo respiratorio, il quale per contro, come espirazione, rappresentava un opporsi del paziente all’identificazione con l’oggetto della sua pietà. A questo punto, in conseguenza di un certo sogno, l’analisi ritornò improvvisamente ai tempi più remoti e indusse il paziente a dichiarare che durante il coito della scena primaria egli aveva osservato la sparizione del pene, aveva avuto compassione del padre in ragione di questo fatto e s’era poi rallegrato alla ricomparsa di ciò che aveva creduto perduto. Ecco dunque un nuovo impulso emotivo originato dalla scena primaria. L’origine narcisistica della compassione, di cui la parola stessa reca testimonianza,770 risulta qui nel modo più evidente.