Per riprendere il filo della ricerca,423 qual è dunque il significato psicologico delle rappresentazioni religiose, in che modo possiamo classificarle? È tutt’altro che facile rispondere subito a questo interrogativo. Dopo avere scartato diverse formulazioni ci atterremo alla seguente risposta: si tratta di assiomi, di asserzioni riguardanti fatti e rapporti della realtà esterna (o interna) le quali ci comunicano qualcosa che non abbiamo trovato da noi e che pretendono da parte nostra un atto di fede. Poiché ci informano su ciò che più di ogni altra cosa è importante e interessante nella vita, attribuiamo a questi assiomi e asserzioni un valore particolarmente elevato. Chi non ne sa nulla è molto ignorante; chi le ha accolte nel proprio sapere può considerarsi ricchissimo.
Esistono naturalmente numerosi assiomi sulle cose più disparate di questo mondo. Ogni ora di scuola ne è piena. Prendiamo l’ora di geografia. Sentiamo dire: “La città di Costanza giace sul Bodensee.424” Una canzone studentesca aggiunge: “Chi non ci crede vada a vedere.” Per caso ci sono stato e posso confermare: la bella città è situata sulla riva di una vasta distesa d’acqua, che tutti i circonvicini chiamano Bodensee. Ora sono pienamente convinto della giustezza anche di questa asserzione geografica. Ricordo in proposito un’altra esperienza molto singolare. Ero già un uomo maturo allorché per la prima volta mi trovai sul colle dell’Acropoli di Atene, fra le rovine dei templi, con lo sguardo rivolto al mare azzurro. Alla mia felicità si mescolò un sentimento di stupore che sembrava voler dire: “Dunque è davvero così come abbiamo imparato a scuola!” Quanto superficiale e debole doveva essere stata allora la mia fede nell’effettiva verità di ciò che ascoltavo, se ora potevo essere così stupito! Ma non voglio insistere troppo sul significato di tale esperienza: è possibile una spiegazione diversa del mio stupore, spiegazione che allora non mi venne in mente, di natura del tutto soggettiva e legata al carattere particolare di quel luogo.425
Tutti gli assiomi siffatti esigono dunque che al loro contenuto si creda per fede, e tale pretesa non è certo priva di fondamento. Essi vengono offerti come il risultato compendiato di un processo di pensiero più lungo, basato sull’osservazione e certo anche su argomentazioni logiche; e viene indicata la strada a chi, invece di accettarne il risultato, intendesse svolgere di persona l’intero processo. Viene inoltre sempre detto da dove si trae la conoscenza che l’assioma enuncia, qualora, come nel caso delle affermazioni geografiche, questa non sia evidente. La terra ha ad esempio la forma di una sfera; come prove di ciò vengono addotti l’esperimento del pendolo di Foucault,426 il comportamento dell’orizzonte, la possibilità di circumnavigare il globo terrestre. Dal momento che – come risulta chiaro a tutte le persone interessate – è praticamente impossibile mandare tutti gli scolari a circumnavigare il globo, ci si accontenta di lasciare che gli insegnamenti della scuola vengano accettati in termini di “fede e credibilità”, ma si sa che il cammino che conduce alla convinzione personale rimane aperto.
Cerchiamo di misurare con lo stesso metro le dottrine religiose. Se ci interroghiamo in merito al fondamento su cui poggia la loro pretesa di esser credute, otteniamo tre risposte, notevolmente discordanti tra loro. In primo luogo meritano fede perché già i nostri antenati remoti vi hanno creduto; in secondo luogo possediamo prove tramandateci proprio da tale remota antichità; in terzo luogo, è assolutamente proibito porre il problema di tale convalida. Questo atto temerario era un tempo punito con le pene più severe, e ancor oggi la società considera malvolentieri il fatto che qualcuno lo compia.
Questo terzo punto desta com’è ovvio i nostri più forti sospetti. Un divieto del genere può avere una sola motivazione, e cioè che la società è perfettamente consapevole della dubbia fondatezza della pretesa che essa stessa ha avanzato riguardo alle proprie dottrine religiose. Se così non fosse, essa non tarderebbe certo a porre il materiale occorrente a disposizione di chiunque voglia procurarsi di persona un convincimento. Passiamo quindi a esaminare le altre due argomentazioni con una diffidenza che non è facile ridurre al silenzio. Dobbiamo credere perché i nostri antenati remoti hanno creduto. Ma questi nostri avi erano di gran lunga più ignoranti di noi, hanno creduto cose che oggi non potremmo certo accettare. È quindi possibile che anche le dottrine religiose abbiano questo carattere. Le prove da essi tramandateci sono contenute in scritti che di per sé comportano tutti i caratteri dell’inattendibilità. Sono pieni di contraddizioni, rielaborazioni, falsificazioni, dove ci forniscono attestazioni di ordine fattuale, risultano essi stessi inverificabili. Affermare che, per quel che riguarda il loro enunciato o anche soltanto il loro contenuto, questi scritti traggono origine dalla rivelazione divina non serve a molto; già di per sé tale affermazione è infatti parte delle dottrine che vanno esaminate per verificarne la credibilità; ed è ovvio che nessuna proposizione può provare sé stessa.
Giungiamo così alla strana conclusione che proprio le informazioni del nostro patrimonio culturale che potrebbero rivestire il massimo significato e alle quali è affidato il compito di chiarirci gli enigmi del mondo e riconciliarci con i dolori dell’esistenza, proprio queste informazioni hanno la più debole delle convalide. Per parte nostra non sapremmo deciderci ad ammettere neppure un fatto per noi assolutamente irrilevante, come ad esempio che le balene partoriscono i loro piccoli invece di deporre uova, se esso non risultasse fondato su prove più attendibili.
Questo stato di cose costituisce di per sé un problema psicologico assai notevole. Nessuno creda però che le precedenti osservazioni sull’indimostrabilità delle dottrine religiose contengano qualcosa di nuovo. Se ne è avuto sentore in ogni tempo e certamente ne hanno avuto sentore anche quegli avi remoti che ci hanno tramandato tale eredità. Molti di loro nutrirono probabilmente i nostri stessi dubbi, ma troppo forte fu la pressione cui soggiacquero perché osassero manifestarli. E da allora uomini innumerevoli si sono tormentati alle prese con questi stessi dubbi, che pure avrebbero voluto reprimere perché si ritenevano obbligati a credere; molti brillanti intelletti non hanno retto a questo conflitto, molti caratteri sono stati danneggiati dai compromessi nei quali avevano cercato una via d’uscita.
Se tutte le prove che vengono addotte a sostegno della credibilità dei dogmi religiosi hanno origine nel passato, è naturale guardarsi intorno per vedere se il presente, su cui è più facile esprimere una valutazione attendibile, non possa fornire anch’esso prove al riguardo. Se fosse in tal modo possibile sottrarre al dubbio anche una parte soltanto del sistema religioso, l’insieme ne risulterebbe infinitamente più credibile. A ciò mira l’attività degli spiritisti, che sono convinti della sopravvivenza dell’anima individuale e vogliono dimostrarci in modo incontrovertibile quest’unica proposizione della dottrina religiosa. Purtroppo non riescono a confutare l’idea che le apparizioni e le manifestazioni dei loro spiriti altro non siano che produzioni della loro stessa attività psichica. Hanno evocato gli spiriti degli uomini più grandi, dei pensatori più eminenti, ma tutte le manifestazioni e le informazioni che hanno ottenuto da costoro sono state così stupide, così desolatamente insignificanti, che nulla vi si può trovare di credibile salvo la capacità degli spiriti di adeguarsi alla cerchia degli uomini che li evocano.
Occorre adesso menzionare due tentativi che danno l’impressione di uno sforzo spasmodico per eludere il problema. L’uno, di natura violenta, è antico, l’altro è raffinato e moderno. Il primo è il Credo quia absurdum dei Padri della Chiesa.427 Esso intende affermare che le dottrine religiose si sottraggono alle esigenze della ragione, la sovrastano. Bisogna coglierne la verità interiormente, non è necessario comprenderle. Ma questo Credo è interessante solo come ammissione individuale, come enunciato vincolante non ha alcuna forza. Posso essere obbligato a credere ad ogni assurdità? E se no, perché proprio a questa? Non esistono istanze al di sopra della ragione. Se la verità delle dottrine religiose dipende da un’esperienza interiore che attesta tale verità, che dire di tutti coloro che non hanno questa rara esperienza? Possiamo esigere da tutti gli uomini che facciano uso del dono, da essi posseduto, della ragione, ma non possiamo fondare un’obbligazione valida per tutti su un motivo presente solo in pochissimi. Se, grazie a uno stato di estasi che lo ha profondamente soggiogato, un individuo ha acquisito la salda convinzione della reale verità delle dottrine religiose, che significato può avere tutto ciò per un altro individuo?
Il secondo tentativo è quello della filosofia del “come se”. In base ad esso si fa presente come nella nostra attività di pensiero numerosi siano gli assunti della cui infondatezza – o addirittura assurdità – siamo pienamente consapevoli. Anche se li chiamiamo finzioni, per svariati motivi pratici siamo indotti a comportarci “come se” a queste finzioni prestassimo fede. Ciò varrebbe anche per le dottrine religiose, data la loro importanza incomparabile ai fini della sopravvivenza della società umana.428 Quest’argomentazione non è molto lontana dal Credo quia absurdum. Ritengo però che l’esigenza del “come se” sia di natura tale da poter essere concepita solo da un filosofo. L’uomo che nel proprio pensiero sfugge alla suggestione degli artifici della filosofia non potrà mai accettarla; per costui, con l’ammissione dell’assurdità o dell’antirazionalità, il discorso è chiuso. Non può essere tenuto, proprio in relazione a quel che ai suoi occhi è più importante, a rinunciare alle garanzie da lui altrimenti richieste per tutte le sue abituali attività. Mi ricordo di uno dei miei figli che precocemente si distingueva per un particolare vigore del senso della concretezza. Quando ai bambini veniva raccontata una favola, che essi ascoltavano con grande attenzione, si faceva avanti e domandava: “È una storia vera?” Ottenuta la risposta negativa, si allontanava con uno sguardo sprezzante. C’è da attendersi che gli uomini si comportino fra non molto in maniera analoga nei riguardi delle favole religiose, nonostante la raccomandazione del “come se”.
Eppure a tutt’oggi essi si atteggiano in modo del tutto differente, e, a dispetto della loro incontestabile mancanza di convalide, nei tempi andati le rappresentazioni religiose hanno esercitato sull’umanità l’influsso più poderoso. Questo è un problema psicologico nuovo. Occorre domandarsi in che cosa risieda la forza interna di queste dottrine e a che cosa esse debbano la loro efficacia, che non dipende in alcun modo da un’accettazione razionale.