7.

Perché gli animali, nostri parenti, non mostrano alcuna simile lotta per la civiltà? Oh, non lo sappiamo. Molto probabilmente alcuni di essi, api, formiche, tèrmiti, hanno dovuto lottare per migliaia di secoli prima di trovare quelle istituzioni statali, quella distribuzione delle funzioni, quelle restrizioni individuali, che oggi ammiriamo in essi. Noi sentiamo, ed è tipico della nostra condizione presente, che non ci reputeremmo felici in nessuna delle istituzioni statali e in nessuna delle incombenze colà affidate al singolo. In altre specie animali, può essersi stabilito un temporaneo equilibrio tra le influenze dell’ambiente e le pulsioni in lotta all’interno delle specie, con il che potrebbe essersi verificato un arresto evolutivo. Nell’uomo primitivo, un nuovo assalto della libido può aver fomentato una rinnovata ritorsione da parte della pulsione distruttiva. Le domande, qui, sono molte e mancano tuttora di risposta.

Un altro problema ci interessa più da vicino. Che mezzi usa la civiltà per frenare la spinta aggressiva che le si oppone, per renderla innocua, magari per abolirla? Di alcuni di questi metodi già abbiamo fatto la conoscenza, ma non di quello che sembra essere il più importante. Possiamo studiarlo nella storia dello sviluppo individuale. Che cosa avviene nell’individuo a rendere innocuo il suo desiderio di aggressione? Qualcosa di assai curioso, che non avremmo indovinato e che pure è assai semplice. L’aggressività viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata là donde è venuta, ossia è volta contro il proprio Io. Qui viene assunta da una parte dell’Io, che si contrappone come Super-io al rimanente, e ora come “coscienza”562 è pronto a dimostrare contro l’Io la stessa inesorabile aggressività che l’Io avrebbe volentieri soddisfatto contro altri individui estranei. Chiamiamo coscienza della propria colpa la tensione tra il rigido Super-io e l’Io ad esso soggetto; essa si manifesta come bisogno di punizione.563 La civiltà domina dunque il pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da una istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata.

Sull’origine del sentimento di colpa l’analista la pensa diversamente dagli altri psicologi; ma anche per lui non è facile dar conto di questo fenomeno in modo adeguato. Innanzitutto, quando si chiede come uno giunga ad avere un sentimento di colpa, si riceve una risposta inconfutabile: uno si sente colpevole (i devoti dicono: in peccato) quando ha fatto qualcosa che riconosce come un “male”. Ma poi si vede quanto poco ci dica questa risposta. Forse dopo qualche esitazione si aggiungerà che anche chi non ha commesso questo male, ma semplicemente riconosce in sé stesso l’intenzione di commetterlo, può ritenersi colpevole, e allora sorge la domanda sul perché in questo caso l’intenzione venga considerata equivalente all’attuazione. Ambedue i casi presuppongono che il male sia stato già riconosciuto come riprovevole, come qualcosa da non fare. Come si giunge a questo giudizio? Va scartata l’ipotesi d’una originaria, per così dire naturale capacità discriminatoria tra bene e male. Il male spesso non è quel che danneggia o mette in pericolo l’Io, anzi può essere anche qualcosa che l’Io desidera, da cui trae diletto. Qui agisce dunque un influsso estraneo, il quale decide che cosa debba chiamarsi bene o male. Poiché il proprio sentire non avrebbe condotto l’uomo lungo questa via, egli deve avere un motivo per sottomettersi a tale influsso estraneo. È facile scoprire questo motivo nella debolezza dell’uomo e nella sua dipendenza dagli altri; può essere indicato meglio come paura di perdere l’amore. Se l’uomo perde l’amore degli altri da cui dipende, ci rimette anche la protezione contro molti pericoli e soprattutto si espone al rischio che la persona più forte mostri la sua superiorità punendolo. Pertanto il male è originariamente tutto ciò a causa di cui si è minacciati della perdita d’amore; bisogna evitarlo, per timore di tale perdita. Perciò conta poco se si è già fatto il male o se soltanto si intenda farlo; in entrambi i casi il pericolo si presenta solo se l’autorità lo scopre, e in entrambi i casi essa si comporterebbe nello stesso modo.

Questo stato d’animo si chiama “cattiva coscienza”, ma in verità il termine non è appropriato perché a questo stadio il senso di colpa è chiaramente solo paura della perdita d’amore, angoscia “sociale”. Nei bambini piccoli il senso di colpa non può essere nient’altro e anche in molte persone adulte l’unico cambiamento è che al posto del padre o dei due genitori subentra la più vasta comunità umana. Di conseguenza essi si permettono di solito di commettere il male che dia loro a sperare vantaggi, purché siano sicuri che l’autorità non ne venga a sapere nulla o non possa farla loro scontare, e il loro unico timore è di essere scoperti.564 Al giorno d’oggi la società non può esimersi dal tener conto in generale di questo stato d’animo.

Un grande mutamento sopravviene solo se l’autorità è interiorizzata per l’erigersi di un Super-io. I fenomeni della coscienza morale si pongono allora su un gradino più alto; in fondo solo ora si dovrebbe parlare di coscienza morale e di sentimento di colpa.565 A questo punto vengono anche a cessare sia la paura di essere scoperti, sia la differenza tra fare il male e volerlo, perché niente può rimaner celato al cospetto del Super-io, neppure i pensieri. È vero, la reale gravità della situazione è svanita, poiché la nuova autorità, il Super-io, non ha motivo, per quanto sappiamo, di maltrattare l’Io, al quale appartiene intimamente; è anche vero tuttavia che l’influsso esercitato dal modo in cui tale autorità è venuta generandosi, lasciando sopravvivere cose passate e dimenticate, traspare nel fatto che tutto rimane in sostanza come era all’origine. Il Super-io tormenta l’Io peccatore facendogli provare le medesime paure e spia ogni occasione per farlo punire dal mondo esterno.

In questo secondo stadio di sviluppo, la coscienza mostra una particolarità che era estranea al primo stadio e che non è più tanto facile da spiegare.566 Essa si comporta cioè con tanto maggior rigore e diffidenza quanto più l’uomo è virtuoso, così che alla fine proprio le persone più progredite sulla via della santità567 si accusano delle peggiori nequizie. La virtù ci scapita perciò una parte della ricompensa che le era stata promessa, l’Io docile e temperante non gode della fiducia del suo mentore e, a quanto pare, si sforza invano di ottenerla. Ora mi si obietterà prontamente che sto accumulando le difficoltà a bella posta. Una coscienza più rigida e vigilante è il segno distintivo dell’uomo virtuoso e, se i santi pretendono di essere dei peccatori, non hanno certo torto, considerate le tentazioni di soddisfacimento pulsionale alle quali sono esposti in misura particolarmente grande, dal momento che le tentazioni aumentano, come tutti sanno, se la frustrazione è continua, mentre, soddisfacendole ogni tanto, si affievoliscono almeno temporaneamente.

È un altro fatto dell’etica, campo così ricco di problemi, che la sventura, vale a dire lo scacco esterno, accresce sommamente il potere della coscienza nel Super-io. Fino a quando le cose vanno bene, la coscienza è mite e lascia che l’Io intraprenda ogni sorta di cose; ma quando è colpito da una calamità, l’uomo si raccoglie in sé stesso, riconosce la propria iniquità, eleva le proprie pretese morali, si impone astinenze e si punisce espiando.568 Popoli interi si sono comportati così e così si comportano tuttora. Ma ciò si spiega con tutta facilità mediante lo stadio originario, infantile, della coscienza morale, che dunque non viene abbandonato dopo l’introiezione nel Super-io, ma continua a sussistere accanto e dietro a quest’ultimo. Il destino è visto come sostituto dell’istanza parentale; se si ha sfortuna, significa che non si è più amati da questa somma potestà e, minacciati da questa perdita d’amore, si torna a inchinarsi davanti alla rappresentanza, nel Super-io, dei genitori, che nella fortuna era stata negletta. Ciò diventa particolarmente chiaro quando si riconosce nel destino, in senso strettamente religioso, soltanto l’espressione della volontà di Dio. Il popolo d’Israele aveva creduto di essere il figlio prediletto di Dio, e quando il Padre fece ricadere su questo suo popolo calamità su calamità, esso non perse la fede in quella relazione né dubitò della potenza e della giustizia divina, bensì generò i profeti che gli rinfacciarono la sua iniquità e dal suo senso di colpa trasse i severissimi comandamenti della sua religione sacerdotale.569 È curioso invece come il primitivo si comporti diversamente! Se ha avuto sfortuna, non attribuisce la colpa a sé stesso, ma al feticcio, che chiaramente non ha fatto il suo dovere, e lo bastona di santa ragione invece di punire sé stesso.

Il sentimento di colpa può dunque trarre origine da due fonti: dal timore che suscita l’autorità, e dal successivo timore che suscita il Super-io. La prima fonte obbliga a rinunciare al soddisfacimento pulsionale, la seconda, oltre a ciò e poiché è impossibile nascondere al Super-io che i desideri proibiti continuano a persistere, preme per la punizione. Abbiamo anche visto come si spieghi la severità del Super-io (gli scrupoli di coscienza). Essa prosegue semplicemente la severità dell’autorità esterna, alla quale è succeduta e che in parte ha sostituito. Vediamo ora in che relazione stanno la rinuncia pulsionale e il senso di colpa. In origine la rinuncia pulsionale è la conseguenza del timore che suscita l’autorità esterna; si rinuncia ai soddisfacimenti per non perdere l’amore di quella. Fatta questa rinuncia, si è per così dire a posto con l’autorità, e non dovrebbe rimanere nessun sentimento di colpa. Le cose vanno diversamente nel caso del timore suscitato dal Super-io. Qui non basta la rinuncia pulsionale, poiché il desiderio rimane e non si lascia occultare di fronte al Super-io. Così, nonostante la rinuncia sia avvenuta, sopravviene ugualmente un sentimento di colpa e questo è un grande svantaggio economico dell’istituzione del Super-io o, per dirla altrimenti, del formarsi della coscienza. La rinuncia pulsionale ora non ha più un effetto completamente liberatore, l’astinenza virtuosa non è più ricompensata dalla certezza dell’amore; una minacciosa infelicità esterna – perdita dell’amore e punizione da parte dell’autorità esterna – è stata barattata con una permanente infelicità interna, la tensione che nasce dal senso di colpa.

Questi rapporti sono così complicati e nel contempo così importanti che, a costo di correre il rischio di ripetermi, vorrei affrontarli ancora sotto un diverso profilo. La successione temporale sarebbe dunque la seguente: prima, rinuncia pulsionale per timore dell’aggressione da parte dell’autorità esterna – a ciò si riduce infatti la paura della perdita d’amore, l’amore protegge da questa aggressione punitrice, – poi l’istituzione dell’autorità interna, rinuncia pulsionale in conseguenza del timore di essa, angoscia morale.570 Nel secondo caso, azione cattiva e intenzione cattiva si equivalgono, donde il senso di colpa, il bisogno di essere puniti. L’aggressione della coscienza perpetua l’aggressione dell’autorità. Fin qui tutto è ormai abbastanza chiaro; ma dov’è lo spazio per l’influsso della sventura (della rinuncia imposta dall’esterno) che rafforzerebbe la coscienza? [vedi par. 7, in OSF, vol. 10] o per l’eccezionale severità della coscienza nelle persone migliori e più arrendevoli? [Ibid.] Abbiamo già spiegato queste due peculiarità della coscienza, ma probabilmente non abbiamo dissipato l’impressione che queste spiegazioni non giungano al fondo e lascino un residuo non chiarito. E qui interviene finalmente un’idea assolutamente tipica della psicoanalisi ed estranea al pensiero comune. Essa è di tal genere che ci fa capire perché la questione ci appaia necessariamente tanto confusa e oscura. Dice infatti che in principio la coscienza morale (più precisamente, l’angoscia che poi diventa coscienza) è la causa della rinuncia pulsionale, ma poi il rapporto si rovescia. Ogni rinuncia pulsionale diventa allora una fonte dinamica della coscienza, ogni nuova rinuncia ne accresce la severità e l’intolleranza, e se solo potessimo meglio armonizzare tutto questo con quello che già sappiamo sulla storia dell’origine della coscienza, saremmo tentati di giungere al seguente paradosso: la coscienza è il risultato della rinuncia pulsionale; oppure: la rinuncia pulsionale (impostaci dall’esterno) crea la coscienza, la quale, poi, esige ulteriori rinunce.

In effetti la contraddizione tra quest’affermazione e la genesi della coscienza che abbiamo delineato prima non è così grande e scorgiamo una via per ridurla ulteriormente. Per rendere più facile l’esposizione, scegliamo l’esempio della pulsione aggressiva e supponiamo che la rinuncia di cui si tratta sia sempre rinuncia all’aggressione. Questa naturalmente è solo una nostra supposizione provvisoria.571 L’effetto della rinuncia pulsionale sulla coscienza è allora che quella parte di aggressività che tralasciamo di soddisfare viene presa sopra di sé dal Super-io e ne accresce l’aggressività (contro l’Io). Ciò non si accorda bene col fatto che l’originaria aggressività della coscienza continua il rigore dell’autorità esterna e quindi non ha niente a che fare con la rinuncia. Ma questa discrepanza scompare se facciamo l’ipotesi che la prima aggressività di cui viene dotato il Super-io abbia un’altra derivazione. Contro l’autorità che impedì al bambino i primi ma più importanti soddisfacimenti, si dovette sviluppare in lui una considerevole dose di aggressività, a prescindere dal tipo di sacrifici pulsionali che gli venivano richiesti. Costretto dalla necessità, il bambino dovette rinunciare a soddisfare i suoi desideri aggressivi di vendetta.

Per sbrogliarsi da questa posizione economica difficile, il bambino fa ricorso a meccanismi ben noti, assorbendo in sé per mezzo dell’identificazione questa autorità inattaccabile; essa diviene allora il Super-io e si appropria di tutta l’aggressività che chiunque da bambino volentieri le eserciterebbe contro. All’Io del bambino non resta che fare la parte meschina dell’autorità così sminuita, ossia del padre. È un capovolgimento della situazione, tutt’altro che raro. “Se io fossi il padre e tu il figlio, ti tratterei male.” La relazione tra Super-io e Io riproduce, deformata dal desiderio, la relazione reale tra l’Io ancora indiviso e un oggetto esterno. Anche questo è tipico. La differenza essenziale è tuttavia che la severità originaria del Super-io non è – o è assai poco – quella sperimentata o attesa [dall’Io ancora indiviso] da parte di lui [il padre-oggetto], e sta invece a rappresentare la propria aggressività contro di lui. Se ciò è corretto, si può veramente affermare che la coscienza nasce in principio dalla repressione di un impulso aggressivo e che si rafforza con l’andare del tempo ad ogni nuova repressione cosiffatta.

Ora, quale di queste due ipotesi è giusta? Quella di prima, che ci sembra geneticamente così inoppugnabile, o quella di adesso, che integra la teoria in modo così felice? È evidente, anche per la testimonianza dell’osservazione diretta, che sono giustificate entrambe; non si contraddicono reciprocamente e in un punto convergono persino, in quanto l’aggressività vendicatrice del bambino sarà in parte determinata dalla più o meno violenta aggressione punitrice che egli si aspetta dal padre. L’esperienza insegna però che la severità del Super-io sviluppata dal bambino non corrisponde affatto alla severità del trattamento che egli stesso ha subito.572 Sembrano due cose indipendenti: da un’educazione molto mite un bambino può derivare una coscienza molto severa. Ma sarebbe anche sbagliato esagerare questa indipendenza; non è diffìcile convincersi che anche la severità dell’educazione esercita un forte influsso sulla formazione del Super-io del bambino. Ciò significa che nella formazione del Super-io e nel sorgere della coscienza morale convergono fattori costituzionali innati e influssi ambientali del mondo reale, il che non è affatto strano, anzi è la condizione etiologica universale di tutti i processi di questo genere.573

Si può anche dire che, se il bambino reagisce alle prime grandi frustrazioni pulsionali con eccessiva aggressività e corrispondente severità del Super-io, egli obbedisce a un modello filogenetico, andando al di là della reazione correntemente giustificata in quanto non v’è dubbio che il padre dei tempi preistorici era terribile e si poteva ritenerlo capace di qualsiasi aggressione. Le differenze tra le due concezioni della genesi della coscienza morale si riducono pertanto ancora di più se si passa dalla storia evolutiva individuale a quella filogenetica. In compenso, questi due processi evolutivi mostrano un’altra importante differenza. Non possiamo prescindere dall’ipotesi che il senso di colpa dell’umanità abbia origine dal complesso edipico e sia stato acquisito con l’uccisione del padre da parte dei fratelli alleatisi insieme.574 In quell’occasione un’aggressione non fu repressa ma effettuata, ed è la medesima aggressione che, repressa nel bambino, dovrebbe essere la fonte del suo senso di colpa. A questo punto non mi meraviglierei se un lettore sdegnato esclamasse: “Dunque è del tutto indifferente se uno ammazza il padre o no, si ottiene un senso di colpa in ogni caso! Ci sia concesso di dubitarne. O non è vero che il senso di colpa deriva dall’aggressione repressa, o tutta la storia del parricidio è un romanzo, e i figli dell’uomo primordiale non ammazzarono il padre più spesso di quanto siano soliti farlo i nostri contemporanei. Inoltre, se non fosse un romanzo, bensì una storia plausibile, ci troveremmo di fronte a un caso in cui le cose avvengono esattamente come tutti se le aspettano, vale a dire uno si sente colpevole perché ha effettivamente commesso qualcosa d’ingiustificabile. E per questo caso, che dopo tutto si verifica quotidianamente, la psicoanalisi ci è tuttora in debito di una spiegazione!”

È vero e dobbiamo rimediarvi. Non c’è sotto nulla di particolarmente misterioso. Se si prova un senso di colpa dopo che si è commesso un crimine e perché lo si è commesso, a questo sentimento va dato piuttosto il nome di rimorso. Esso si riferisce a una sola azione e naturalmente presuppone che una coscienza morale, la facoltà di sentirsi in colpa, esista già prima del fatto. Un simile rimorso, perciò, non ci aiuta mai a trovare l’origine della coscienza e del senso di colpa in genere. L’andamento di questi casi quotidiani è di solito il seguente: un bisogno pulsionale ha acquistato la forza di ottenere soddisfacimento nonostante la coscienza, le cui forze sono limitate; poi, con il naturale affievolirsi del bisogno soddisfatto, viene ripristinato il precedente rapporto di forze. La psicoanalisi ha dunque ragione di escludere da questa discussione il caso del senso di colpa da rimorso, per frequente che sia e per quanto grande sia la sua importanza pratica.

Ma se l’umano senso di colpa risale davvero all’uccisione del padre primordiale, esso fu pure un caso di “rimorso”. Dobbiamo credere, contrariamente alla nostra supposizione, che a quei tempi non esistessero prima dell’impresa criminosa né una coscienza morale né un senso di colpa? Donde venne allora il rimorso? Certamente questo caso deve contenere la spiegazione del mistero del senso di colpa e por termine alle nostre perplessità; e secondo me ci riesce. Quel rimorso fu il risultato dell’ambivalenza emotiva primigenia verso il padre: i figli lo odiavano ma anche l’amavano; dopo che l’odio fu soddisfatto con l’aggressione, nel rimorso per l’atto prevalse l’amore, che rinvigorì il Super-io mediante l’identificazione col padre, conferendogli il potere paterno quasi a punire l’atto d’aggressione perpetrato contro di lui e instaurando le restrizioni che dovevano prevenire il ripetersi del fatto. E giacché la tendenza ad aggredire il padre si ripeté nelle successive generazioni, perdurò anche il senso di colpa che tornò a rafforzarsi con ogni nuova aggressione repressa e trasferita sul Super-io. Ora, mi pare, abbiamo fatto piena luce su due cose: la parte avuta dall’amore nella nascita della coscienza morale e l’inevitabilità e fatalità del senso di colpa. Non è questione realmente decisiva se abbiamo ucciso il padre o se ci siamo astenuti dal farlo, in entrambi i casi dobbiamo sentirci colpevoli perché il senso di colpa è l’espressione del conflitto d’ambivalenza dell’eterna lotta tra l’Eros e la pulsione distruttiva o di morte. Questo conflitto si accende appena gli uomini sono posti nella necessità di vivere insieme. Finché l’unica forma di comunità è quella della famiglia, il conflitto si esprime per forza nel complesso edipico, insedia la coscienza morale e crea il primo senso di colpa. Quando si cerca di allargare la comunità, lo stesso conflitto si perpetua in forme che dipendono dal passato, si rafforza e provoca un’ulteriore esaltazione del senso di colpa. Dato che la civiltà obbedisce a una spinta erotica interna che le ordina di unire gli uomini in una massa intimamente coesa, essa può raggiungere tale meta solo per la via di un sempre crescente rafforzamento del senso di colpa. Ciò che cominciò col padre, si compie nella massa. Se la civiltà è il cammino evolutivo necessario dalla famiglia all’umanità, ad essa inseparabilmente si ricollega l’esaltazione del senso di colpa, come conseguenza del conflitto d’ambivalenza innato, dell’eterna disputa tra amore e desiderio di morte: un’esaltazione che forse giunge ad altezze difficilmente sopportabili per il singolo. Ricordate la commovente accusa del grande poeta contro le “potenze celesti”?

Ihr führt ins Leben uns hinein,
Ihr lasst den Armen schuldig werden,
Dann überlasst Ihr ihn der Pein,
Denn jede Schuld rächt sich auf Erden.

[Voi ci sospingete nella vita,
Voi fate il misero divenir colpevole,
Poi alla sua pena lo lasciate,
Perché ogni colpa s’espia sulla terra.]575

E ci sia consentito trarre un sospiro di sollievo vedendo che a singoli uomini è dato ricavare senza una vera fatica dal vortice dei propri sentimenti le più profonde intuizioni, mentre a noialtri non resta che farci strada a tastoni, senza posa, in tormentosa incertezza, verso le medesime verità.

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