6.

Il risultato che le nostre ricerche hanno raggiunto a questo punto è che esiste un netto contrasto fra le “pulsioni dell’Io” e le pulsioni sessuali, poiché le prime spingono verso la morte e le seconde verso la continuazione della vita; ma questa conclusione non sarà certamente soddisfacente neanche per noi, da molti punti di vista. Si aggiunga il fatto che abbiamo potuto attribuire un carattere conservatore, o meglio regressivo, e tale da corrispondere a una coazione a ripetere, solo al primo gruppo di pulsioni. Infatti, secondo la nostra ipotesi, le pulsioni dell’Io traggono origine dal farsi vivente della materia inanimata, e cercano di ripristinare lo stato privo di vita. Al contrario è evidente che, se pure è vero che le pulsioni sessuali riproducono stati primitivi dell’organismo, lo scopo che esse perseguono con tutti i mezzi è quello di fondere insieme due cellule germinali che sono differenziate in una maniera particolare. Se questa unificazione non è realizzata, la cellula germinale muore come tutti gli altri elementi dell’organismo pluricellulare. È solo a questa condizione che la funzione sessuale può prolungare la vita e conferirle una parvenza di immortalità. Ma qual è, nello sviluppo della sostanza vivente, l’importante evento che viene ripetuto dalla riproduzione sessuale o dall’atto che la precede, la copulazione di due protisti?210 Non possiamo dirlo, e quindi ci sentiremmo sollevati se tutta la nostra costruzione si rivelasse sbagliata. In questo caso il contrasto fra le pulsioni dell’Io (o di morte)211 e le pulsioni sessuali (o di vita) verrebbe meno, e la coazione a ripetere perderebbe l’importanza che le abbiamo attribuito.

Ritorniamo allora a un’ipotesi che avevamo già formulato, nella speranza di riuscire a confutarla in modo categorico. Abbiamo tratto ulteriori conclusioni partendo dal presupposto che tutti gli esseri viventi debbano morire per cause interne! Abbiamo avanzato questa ipotesi così, con una certa noncuranza, perché essa non ci sembrava neppure un’ipotesi. Siamo abituati a pensare che le cose stiano così e in ciò siamo rafforzati dai nostri poeti. Forse questo convincimento si è formato in noi perché ha in sé qualcosa di consolatorio. Se dobbiamo necessariamente morire, e prima dobbiamo perdere le persone che ci sono più care, preferiamo esser soggetti a una legge naturale inesorabile, alla sublime Anánkē [necessità], piuttosto che a un caso che forse avremmo potuto evitare. Ma questa convinzione della necessità interna della morte è forse soltanto una delle illusioni che l’uomo si è creato perché “solo così sopporta il peso della vita”.212 Non si tratta certamente di una credenza originaria: l’idea di una “morte naturale” è estranea ai popoli primitivi, che attribuiscono ogni morte che ha luogo tra loro all’influsso di un nemico o di uno spirito maligno. Se vogliamo controllare la validità di questa credenza dobbiamo dunque tornare alla biologia.

Ma se consideriamo come il problema della morte naturale è trattato dai biologi, possiamo costatare con sorpresa che fra essi non regna affatto l’accordo, e che anzi lo stesso concetto della morte sfugge loro di mano. Naturalmente il fatto che almeno tra gli animali superiori si possa stabilire una determinata durata media della vita è un argomento a favore della tesi che la morte avviene per cause interne; ma quest’impressione è nuovamente cancellata dalla circostanza che certi animali molto grandi e certi alberi giganteschi raggiungono un’età molto avanzata e finora non valutabile con esattezza. Secondo la grandiosa concezione di Wilhelm Fliess,213 tutti i fenomeni vitali di un organismo – e certamente anche la morte – sono legati al raggiungimento di determinate scadenze nelle quali si esprime la dipendenza delle due sostanze viventi (la maschile e la femminile) dall’anno solare. Ma se consideriamo quanto facilmente e in quale misura l’influenza di forze esterne possa cambiare la data della comparsa dei fenomeni della vita (in particolare nel mondo vegetale), anticipandola o ritardandola, siamo indotti a ritenere troppo rigide le formule di Fliess e quanto meno a dubitare che le sue leggi costituiscano l’unico fattore determinante.

La trattazione che il problema della durata della vita e quello della morte degli organismi ha trovato nei lavori di August Weismann214 riveste per noi un grandissimo interesse. Questo ricercatore ha introdotto la differenziazione della sostanza vivente in due metà, una mortale e una immortale; la parte mortale è il corpo nel senso più stretto, il “soma”, che è il solo ad esser soggetto a morte naturale; le cellule germinali, invece, sono potenzialmente immortali, poiché date certe condizioni favorevoli sono in grado di svilupparsi così da costituire un nuovo individuo, o, in altre parole, di avvolgersi di un nuovo soma.215

Ciò che ci colpisce, in questa concezione, è l’inattesa analogia con l’ipotesi a cui noi stessi siamo giunti percorrendo una strada così diversa. Weismann, che considera la sostanza vivente morfologicamente, vede in essa una parte che è destinata a morire, il soma, il corpo con esclusione della sostanza legata al sesso e all’ereditarietà, e una parte immortale costituita appunto da questo plasma germinale che si pone al servizio della conservazione della specie, della riproduzione. Noi invece, essendoci interessati non già della sostanza vivente, bensì delle forze che agiscono in essa, siamo stati indotti a distinguere due specie di pulsioni: quelle che spingono la vita verso la morte, e le altre, le pulsioni sessuali che provano e riescono continuamente a rinnovare la vita. Questa nostra ipotesi appare una sorta di corollario dinamico della teoria morfologica di Weismann.

Ma l’apparenza di una concordanza significativa si dissolve non appena vediamo come Weismann risolve il problema della morte. Secondo Weismann, infatti, la distinzione fra il soma mortale e il plasma germinale immortale vale solo nel caso degli organismi pluricellulari, mentre negli organismi unicellulari l’individuo e la cellula riproduttiva sono ancora fra loro identici.216 Egli afferma dunque che gli organismi unicellulari sono potenzialmente immortali, che la morte sopravviene solo nel caso dei metazoi, degli organismi pluricellulari. Ora è vero che questa morte degli esseri superiori è una morte naturale che avviene per cause interne, ma essa non si fonda su una proprietà originaria della sostanza vivente,217 non può essere concepita come una necessità assoluta, insita nella stessa natura della vita.218 La morte ha piuttosto una funzione pratica, è una manifestazione dell’adattamento alle condizioni esterne della vita, poiché dopo che le cellule del corpo si sono divise nel soma e nel plasma germinale la durata illimitata della vita individuale è diventata, secondo Weismann, un lusso del tutto inopportuno. Soltanto in seguito a questa differenziazione dei pluricellulari la morte è diventata possibile e opportuna. Dopo di allora il soma degli organismi superiori muore allo scadere di un periodo di tempo determinato e per ragioni interne, mentre i protisti sono rimasti immortali. D’altra parte, la riproduzione non ha avuto origine contemporaneamente alla morte, essa è piuttosto una proprietà originaria della materia vivente, come la crescita (da cui è derivata), e dal momento in cui la vita è comparsa sulla terra, su di essa è rimasta ininterrottamente.219

È facile rendersi conto che l’attribuzione di una morte naturale agli organismi superiori non ci è di grande aiuto. Se la morte è un’acquisizione tardiva degli esseri viventi, non ha senso supporre che siano esistite delle pulsioni di morte fin dal primo apparire della vita sulla terra. Gli organismi pluricellulari possono benissimo morire per ragioni interne perché la loro differenziazione è difettosa o perché il loro metabolismo presenta delle imperfezioni: ciò non ha alcun interesse per la questione di cui ci stiamo occupando. Ed è certo che una siffatta concezione e spiegazione dell’origine della morte è molto più conforme al modo usuale di pensare degli uomini che non la strana ipotesi delle “pulsioni di morte”.

A mio giudizio, la discussione che è stata suscitata dai lavori di Weismann non ha portato a risultati decisivi in nessuna direzione.220 Alcuni autori sono tornati al punto di vista di Goette,221 che vedeva nella morte la diretta conseguenza della riproduzione. Hartmann222 non reputa che la morte sia caratterizzata dalla comparsa di un “cadavere” (di una sostanza vivente morta), egli la definisce invece come la “conclusione dello sviluppo individuale”. In questo senso anche i protozoi sono mortali; nel loro caso la morte coincide sempre con la riproduzione, ma viene in certo modo dissimulata dal fatto che tutta la sostanza del genitore può essere trasmessa direttamente nella giovane progenie.

Ben presto la ricerca si è proposta di verificare sperimentalmente l’asserita immortalità della sostanza vivente degli organismi unicellulari. Un biologo americano, Woodruff, ha fatto un esperimento con un infusorio ciliato, il “paramecio”, che si riproduce dividendosi in due individui; lo ha seguito fino alla tremilaventinovesima generazione (a questo punto ha interrotto l’esperimento), isolando ogni volta uno dei prodotti della divisione e mettendolo in un recipiente di acqua fresca. L’ultimo discendente del primo paramecio era altrettanto vitale del suo progenitore e non mostrava alcun segno di invecchiamento o di degenerazione; quindi, nella misura in cui tali cifre hanno già valore dimostrativo, l’immortalità dei protisti sembrava sperimentalmente verificabile.223

Altri ricercatori sono pervenuti a risultati diversi. Maupas, Calkins e altri hanno riscontrato, in contrasto con Woodruff, che dopo un certo numero di divisioni anche questi infusori diventano più deboli e più piccoli, perdono una parte della loro organizzazione e alla fine muoiono, a meno che non vengano sottoposti a determinati influssi rigeneratori. Secondo costoro i protozoi muoiono dopo una fase di invecchiamento, proprio come gli animali superiori, in assoluta contraddizione con le tesi di Weismann che reputa la morte un’acquisizione tardiva degli organismi viventi.

Dall’insieme di queste ricerche selezioniamo due fatti che paiono offrirci un solido punto d’appoggio.

In primo luogo, se in un momento in cui non rivelano ancora segni di invecchiamento due piccoli animali possono fondersi tra loro o “coniugarsi” (per poi separarsi nuovamente dopo qualche tempo), essi non invecchiano più, sono “ringiovaniti”. Questa coniugazione può essere certamente considerata come il precorrimento della riproduzione sessuale degli organismi superiori; non ha ancora niente a che fare con la proliferazione, si limita alla mescolanza (che Weismann chiama “anfimissi”) delle sostanze di due individui. Ma l’effetto rigenerativo della coniugazione può anche essere sostituito da determinati mezzi stimolanti, alterando la composizione del liquido di cui questi animaletti si nutrono, aumentando la loro temperatura o scuotendoli. Ricordiamo il celebre esperimento di J. Loeb, che mediante alcuni stimoli chimici determinò la segmentazione delle uova dei ricci di mare, che di solito ha luogo solo dopo la fertilizzazione.224

In secondo luogo, è probabile che gli infusori siano portati dal proprio processo vitale a una morte naturale; infatti la contraddizione fra i risultati di Woodruff e degli altri è dovuta al fatto che Woodruff trasportava ogni nuova generazione in un liquido nutritivo fresco. Se tralasciava di farlo, osservava gli stessi segni di invecchiamento rilevati dagli altri ricercatori. Da ciò egli trasse la conclusione che i piccoli animali sono danneggiati dai prodotti del metabolismo che essi stessi espellono nel liquido circostante e dimostrò inoltre in maniera convincente che solo i prodotti del loro stesso metabolismo porta alla morte questa generazione di animaletti. Infatti gli stessi animali che ammassati nel proprio liquido nutritivo sarebbero certamente morti, prosperavano invece se venivano immessi in una soluzione satura dei rifiuti di una specie con cui avevano una lontana parentela. Dunque, se l’infusorio è lasciato a se stesso muore di una morte naturale dovuta all’imperfetta eliminazione dei prodotti del proprio metabolismo; ma forse anche tutti gli animali superiori muoiono, in ultima analisi, per questa stessa incapacità.

A questo punto può sorgere in noi il dubbio se sia stato opportuno cercare la soluzione del problema della morte naturale nello studio dei protozoi. È possibile che l’organizzazione primitiva di questi organismi ci tenga celate importanti condizioni che, pur presenti anche in essi, diventano tuttavia visibili soltanto negli animali superiori dove hanno trovato un’espressione morfologica. Se abbandoniamo il punto di vista morfologico per adottare quello dinamico, ci può essere del tutto indifferente il fatto che la morte naturale dei protozoi risulti dimostrabile o meno. Nel loro caso la sostanza che più tardi sarà riconosciuta come immortale non si è ancora separata in nessun modo da quella mortale. Le forze pulsionali che cercano di portare l’essere vivente alla morte potrebbero agire anche nei protozoi fin dall’inizio, ma i loro effetti essere celati in un modo così completo dagli effetti delle forze che tendono alla conservazione della vita, da far sì che diventi estremamente difficile dimostrarne l’esistenza. Abbiamo effettivamente udito che le osservazioni dei biologi ci consentirebbero di supporre che tali processi interni che portano alla morte esistano anche nei protisti. Comunque, se pure i protisti si rivelassero immortali nel senso di Weismann, l’affermazione di quest’ultimo che la morte è un’acquisizione tardiva varrebbe unicamente per le manifestazioni visibili della morte, e non invaliderebbe affatto l’ipotesi che esistano dei processi i quali tendono alla morte. La nostra attesa che la biologia potesse escludere decisamente l’esistenza delle pulsioni di morte non si è rivelata fondata. Possiamo continuare a prendere in considerazione la loro possibilità se abbiamo altri motivi per farlo. L’evidente analogia fra la distinzione di soma e plasma germinale stabilita da Weismann e la nostra separazione tra pulsioni di morte e pulsioni di vita rimane valida e riacquista tutto il suo valore.

Soffermiamoci brevemente a considerare questa concezione squisitamente dualistica della vita pulsionale. Secondo la teoria di E. Hering, nella sostanza vivente sono incessantemente in atto due tipi di processi di direzione opposta, i primi costruttivi o di tipo anabolico e gli altri distruttivi o di tipo catabolico.225 Dovremmo arrischiarci a riconoscere, in questi due orientamenti dei processi vitali, l’attività dei nostri due moti pulsionali, delle pulsioni di vita e delle pulsioni di morte? Ma c’è ancora qualcos’altro di cui non possiamo evitare di prendere atto: improvvisamente ci accorgiamo di essere approdati nel porto della filosofia di Schopenhauer, per il quale la morte è “il vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita”,226 mentre la bramosia sessuale è l’incarnazione della volontà di vivere.

Cerchiamo coraggiosamente di fare un altro passo avanti. Secondo il giudizio generale l’unione di parecchie cellule in un’associazione vitale, la pluricellularità degli organismi, è diventata un mezzo per il prolungamento della loro vita. Una cellula serve a conservare la vita delle altre, e la comunità di cellule può continuare a vivere anche se certe singole cellule devono morire. Abbiamo già sentito che anche la coniugazione, la temporanea fusione di due organismi unicellulari, ha l’effetto di mantenere in vita e ringiovanire entrambi gli individui. Potremmo quindi provare ad applicare la teoria della libido a cui è giunta la psicoanalisi al rapporto che le cellule hanno fra loro; potremmo supporre che le pulsioni di vita o pulsioni sessuali che agiscono in ogni cellula assumano come proprio oggetto le altre cellule, neutralizzino parzialmente le pulsioni di morte, ossia i processi che dalle pulsioni di morte sono messi in moto in queste cellule, e le mantengano così in vita; contemporaneamente altre cellule farebbero lo stesso nei loro confronti, e altre ancora si sacrificherebbero nell’esercizio di questa funzione libidica. Le stesse cellule germinali si comporterebbero in modo assolutamente “narcisistico”, secondo l’espressione che siamo soliti adoperare nella teoria delle nevrosi per indicare un individuo umano che ritiene tutta la sua libido nell’Io senza consumarla neanche un po’ negli investimenti oggettuali. Le cellule germinali hanno bisogno di tenere presso di sé la loro libido, l’attività delle loro pulsioni di vita, come riserva per la grandiosa attività costruttiva che dovranno svolgere in seguito. (Forse anche le cellule dei neoplasmi maligni che distruggono l’organismo possono essere definite narcisistiche in questo stesso senso: la patologia è in effetti propensa a considerare innati i loro germi e ad attribuire ad esse proprietà embrionali.)227 In questo modo la libido delle nostre pulsioni sessuali coinciderebbe con l’Eros dei poeti e dei filosofi che tiene unito tutto ciò che è vivente.

A questo punto ci si offre l’opportunità di riconsiderare globalmente il lento sviluppo della nostra teoria della libido. In un primo tempo l’analisi delle nevrosi di traslazione ci aveva costretti a stabilire un contrasto fra le “pulsioni sessuali”, che sono dirette sull’oggetto, e altre pulsioni che conoscevamo solo in una misura molto insufficiente e che definimmo provvisoriamente “pulsioni dell’Io”.228 Tra queste ultime, com’è ovvio, una posizione di primo piano fu attribuita alle pulsioni che servono all’autoconservazione dell’individuo. Era impossibile sapere quali altre distinzioni si dovessero tracciare. Ai fini della fondazione di una valida scienza psicologica nessuna conoscenza sarebbe stata importante come una visione approssimativa della natura comune e delle eventuali particolarità delle diverse pulsioni. Ma in nessun’altra regione della psicologia si brancolava nel buio come in questa. Ciascuno postulava l’esistenza delle pulsioni o “pulsioni fondamentali” che più gli aggradavano, e poi le maneggiava allo stesso modo con cui i filosofi della natura della Grecia antica avevano maneggiato i loro quattro elementi: l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria. La psicoanalisi, che non poté evitare di proporre una sua ipotesi sulle pulsioni, dapprima si attenne alla distinzione popolare, il cui paradigma è costituito dall’espressione “fame e amore”. Perlomeno questa ipotesi non rappresentava un nuovo atto di arbitrio, e col suo aiuto l’analisi delle psiconevrosi poté essere notevolmente sviluppata. Naturalmente si dovette ampliare il concetto di “sessualità” – e quindi quello di pulsione sessuale – in modo tale da includervi molte cose che non rientrano nell’ambito della funzione riproduttiva, e ciò fece gran chiasso in un mondo austero e rispettabile, o semplicemente ipocrita.

Il passo successivo fu compiuto quando la psicoanalisi poté considerare più da vicino l’Io psicologico, che in un primo momento aveva conosciuto solo nella forma di un’istanza rimovente e censoria, capace di produrre strutture protettive e formazioni reattive. È vero che menti critiche e lungimiranti avevano da tempo sollevato obiezioni contro la limitazione del concetto di libido all’energia delle pulsioni sessuali rivolte verso l’oggetto. Costoro tuttavia non avevano spiegato come fossero giunti a una visione più corretta del concetto di libido, né erano riusciti a ricavare da tale visione qualche conseguenza utile per l’analisi. Procedendo con maggiore cautela, la psicoanalisi si rese conto della regolarità con cui la libido viene ritratta dall’oggetto e diretta sull’Io (introversione); e studiando l’evoluzione libidica del bambino nelle sue primissime fasi arrivò alla conclusione che l’Io è il vero e originario serbatoio della libido, che solo a partire dall’Io viene poi esternata sull’oggetto.229 L’Io entrava così a far parte degli oggetti sessuali, e veniva immediatamente riconosciuto come l’oggetto sessuale preminente. Questa libido che aveva sede nell’Io era chiamata “narcisistica”.230 Naturalmente essa era anche una manifestazione della forza delle pulsioni sessuali nel senso analitico dell’espressione, e doveva essere identificata con le “pulsioni di autoconservazione” la cui esistenza era stata riconosciuta fin dall’inizio. In tal modo l’originaria contrapposizione fra pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali si rivelava inadeguata. Fu riconosciuto il carattere libidico di una parte delle pulsioni dell’Io; nell’Io erano all’opera – probabilmente accanto ad altre – pulsioni sessuali. Eppure è lecito affermare che la vecchia formula secondo cui la psiconevrosi si fonda su un conflitto fra le pulsioni dell’Io e le pulsioni sessuali non conteneva nulla che oggi debba esser ripudiato. Si tratta semplicemente di determinare in modo diverso – e cioè in senso topico – la distinzione fra le due specie di pulsioni alla quale in origine avevamo attribuito un carattere per così dire qualitativo. In particolare, rimane valida la tesi che le nevrosi di traslazione – le quali costituiscono l’oggetto precipuo della ricerca psicoanalitica – sono il risultato di un conflitto fra l’Io e l’investimento libidico degli oggetti.

A maggior ragione accentueremo il carattere libidico delle pulsioni di autoconservazione giacché, procedendo ancora di un passo, ci arrischiamo a ravvisare nella pulsione sessuale l’Eros che preserva ogni cosa e a derivare la libido narcisistica dell’Io dagli apporti libidici con cui le cellule del soma si connettono l’una all’altra. A questo punto, però, ci troviamo improvvisamente di fronte al problema seguente: se è vero che anche le pulsioni di autoconservazione sono libidiche, allora, forse, non esistono in generale che pulsioni libidiche; comunque non se ne vedono altre. Ma in questo caso siamo costretti a dar ragione a quei critici che fin dall’inizio hanno sospettato che la psicoanalisi dia una spiegazione di tutto a partire dalla sessualità, o agli innovatori come Jung che senza pensarci troppo hanno usato il termine “libido” per indicare la forza pulsionale in genere. Che dire di tutto ciò?

Comunque sia, non è questo l’esito che ci eravamo proposti di raggiungere. Al contrario, siamo partiti da una netta distinzione fra le pulsioni dell’Io, che abbiamo identificato con le pulsioni di morte, e le pulsioni sessuali, che abbiamo identificato con le pulsioni di vita. (A un certo punto della nostra ricerca eravamo disposti [vedi par. 5] a includere le cosiddette pulsioni di autoconservazione dell’Io fra le pulsioni di morte; ma in seguito ci siamo corretti e abbiamo ritirato questa ipotesi.) La nostra concezione è stata dualistica fin dall’inizio, e oggi – da che i termini opposti non sono più chiamati pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali, ma pulsioni di vita e pulsioni di morte – lo è più decisamente che mai. Al contrario, la teoria della libido di Jung è monistica; il fatto che egli abbia chiamato la sua unica forza pulsionale “libido” non poteva che generare equivoci; ma d’ora in avanti non dobbiamo più lasciarcene influenzare.231 Noi sospettiamo che nell’Io agiscano anche altre pulsioni, oltre alle pulsioni libidiche232 di autoconservazione, e dovremmo essere in grado di dire quali sono. C’è da rammaricarsi che l’analisi dell’Io abbia fatto così scarsi progressi da renderci molto difficile tale indicazione. È certamente possibile che le pulsioni libidiche dell’Io siano unite in modo particolare con le altre pulsioni dell’Io che ancora non conosciamo.233 Anche prima che avessimo riconosciuto chiaramente l’esistenza del narcisismo, la psicoanalisi aveva il sospetto che le “pulsioni dell’Io” avessero attirato su di sé componenti libidiche. Ma si tratta di possibilità assai indeterminate che i nostri avversari non terranno praticamente in alcun conto. Resta il fatto increscioso che fino a questo punto l’analisi ci ha consentito di dimostrare sempre e soltanto l’esistenza di pulsioni [dell’Io] di natura libidica. Non per questo tuttavia riteniamo di poter sottoscrivere la conclusione che non ne esistano altre.

Data l’oscurità in cui la teoria delle pulsioni è attualmente immersa, non sarebbe saggio respingere un’idea qualsivoglia che prometta di fare luce su di essa. Abbiamo preso le mosse dalla grande contrapposizione fra le pulsioni di vita e le pulsioni di morte. Lo stesso amore oggettuale ci mostra una seconda polarità di questo tipo, quella fra amore (tenerezza) e odio (aggressività). Magari riuscissimo a mettere in rapporto fra loro queste due coppie polari, a far risalire l’una dall’altra! Abbiamo sempre riconosciuto la presenza di una componente sadica nella pulsione sessuale;234 come sappiamo, essa può rendersi autonoma e, sotto forma di perversione, dominare tutti gli impulsi sessuali di un individuo. Essa compare anche, come pulsione parziale dominante, in una di quelle che ho chiamato “organizzazioni pregenitali”. Ma come è possibile derivare la pulsione sadica, che mira a danneggiare l’oggetto, dall’Eros che preserva la vita? Non si potrebbe supporre che questo sadismo sia in realtà una pulsione di morte che a causa della libido narcisistica è stata costretta a staccarsi dall’Io, per cui può manifestarsi soltanto in relazione all’oggetto? Il sadismo entra al servizio della funzione sessuale nel modo seguente: nella fase orale di organizzazione della libido l’impossessamento erotico coincide ancora con l’annientamento dell’oggetto, più tardi la pulsione sadica si separa, e infine, nella fase del primato genitale, si subordina alla meta della riproduzione assumendosi la funzione di sopraffare l’oggetto sessuale nella misura in cui lo richiede l’esecuzione dell’atto sessuale. Si potrebbe dire addirittura che il sadismo espulso dall’Io ha indicato la strada alle componenti libidiche della pulsione sessuale, e che più tardi queste ultime si accalcano nell’oggetto. Quando il sadismo originario non si attenua né si mescola con altre pulsioni, si instaura, nella vita amorosa, la nota ambivalenza amore-odio.235

Se questa ipotesi fosse legittima, avremmo soddisfatto l’esigenza di produrre un esempio di pulsione di morte (sia pure spostata). Solo che questa concezione è ben lungi dall’essere intuitivamente evidente e dà l’impressione di qualche cosa di mistico, destando il sospetto che abbiamo cercato ad ogni costo una via d’uscita da una situazione di grande imbarazzo. Ma possiamo replicare che non c’è nulla di nuovo in un’ipotesi di questo genere; l’avevamo già avanzata in un’occasione precedente, quando non ci trovavamo affatto in difficoltà. Osservazioni cliniche ci avevano costretti, in passato, a ritenere che il masochismo, e cioè la pulsione parziale complementare al sadismo, debba essere inteso come un sadismo che è tornato a rivolgersi contro l’Io del soggetto.236 Ma una pulsione che abbandona l’oggetto per indirizzarsi sull’Io non è affatto diversa, in linea di principio, da una pulsione che compie il movimento inverso – dall’Io all’oggetto – tema di cui ci stiamo attualmente occupando. Il masochismo, e cioè il volgersi della pulsione contro l’Io del soggetto, sarebbe dunque in realtà un ritorno a una fase precedente della storia della pulsione stessa, sarebbe una regressione. L’interpretazione del masochismo che avevo dato in passato dovrebbe essere rettificata in un punto, perché troppo perentoria: il masochismo potrebbe anche avere carattere primario, possibilità che avevo allora escluso.237 [Vedi sopra “Un bambino viene picchiato”, par. 5.]

Ma torniamo alle pulsioni sessuali che hanno la funzione di conservare la vita. Già dagli esperimenti sui protisti abbiamo appreso che la fusione di due individui a cui non segua una divisione cellulare, vale a dire la coniugazione di due individui che poco dopo si staccano nuovamente l’uno dall’altro, ha l’effetto di rafforzarli e ringiovanirli entrambi.238 Le generazioni successive non rivelano alcun segno di degenerazione, e sembrano in grado di resistere più a lungo alle ingiurie del loro stesso metabolismo. Ritengo che questa possa essere assunta come un’osservazione paradigmatica per gli effetti che produce anche l’unione sessuale. Ma come può accadere che la fusione di due cellule poco diverse tra loro determini questo rinvigorimento vitale? L’esperimento che sostituisce la coniugazione dei protozoi con l’azione di stimoli chimici o anche meccanici239 ci permette di dare una sicura risposta a questo interrogativo: tale risultato è ottenuto con l’intervento di un nuovo ammontare di stimoli. Ma ciò si accorda bene con l’ipotesi che il processo vitale dell’individuo per ragioni interne tende a livellare le tensioni chimiche, e cioè tende alla morte, mentre l’unione con la sostanza vivente di un individuo diverso accresce queste tensioni, introducendo per così dire nuove differenze vitali che dovranno essere soppresse dalla morte. È ovvio che per quanto concerne questa diversità ci dev’essere un optimum, o più di uno. L’aver riconosciuto come tendenza dominante della vita psichica, e forse della vita nervosa in genere, lo sforzo che si esprime nel principio di piacere, sforzo inteso a ridurre, a mantenere costante, a eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli240 (il “principio del Nirvana”, per usare un’espressione di Barbara Low241), è in effetti uno dei più forti motivi che ci inducono a credere nell’esistenza delle pulsioni di morte.

Ma le nostre argomentazioni ci sembrano tuttora sensibilmente disturbate dal fatto che proprio per la pulsione sessuale non possiamo dimostrare quel carattere di una coazione a ripetere che per primo ci aveva messo sulle tracce delle pulsioni di morte. È vero che l’ambito dei processi di sviluppo degli embrioni è estremamente ricco di questi fenomeni di ripetizione; le due cellule germinali che intervengono nella riproduzione sessuale e la storia della loro esistenza altro non sono esse stesse che ripetizioni degli esordi della vita organica; tuttavia l’essenza dei processi a cui tende la pulsione sessuale è la fusione di due corpi cellulari. L’immortalità della sostanza vivente negli organismi superiori non può essere garantita altrimenti.

In altri termini, noi dobbiamo chiarire l’origine della riproduzione sessuale e la provenienza delle pulsioni sessuali in genere. È questo un compito di fronte al quale l’osservatore esterno non può che arretrare spaventato, e che gli stessi specialisti non sono ancora riusciti a risolvere. Noi ci limiteremo a dare una rapidissima sintesi delle molteplici e discordanti affermazioni e opinioni in merito, sottolineando ciò che ci pare interessante dal nostro punto di vista.

Una di queste concezioni sottrae al problema della riproduzione il suo misterioso fascino, dal momento che lo fa rientrare nei fenomeni della crescita (moltiplicazione per scissione, germinazione o gemmazione). L’origine della riproduzione attraverso cellule germinali sessualmente differenziate si spiegherebbe dunque, con un ragionamento sobriamente darwiniano, supponendo che due protisti si siano coniugati per caso, e che il vantaggio costituito dall’anfimissi sia stato poi ritenuto e utilizzato nella successiva evoluzione.242 In questo modo il “sesso” non sarebbe un fenomeno molto antico, e le pulsioni straordinariamente violente che mirano a realizzare l’unione sessuale ripeterebbero qualcosa che in passato si è verificato per caso e che poi si sarebbe stabilizzato in ragione dei suoi vantaggi.

Anche qui, come già nel caso della morte [vedi sopra], sorge il problema se sia giusto attribuire ai protisti solo le caratteristiche da essi possedute palesemente, nonché se sia lecito supporre che le forze e i processi che diventano visibili solo negli organismi superiori siano in effetti sorti per la prima volta in questi stessi organismi. La concezione della sessualità che abbiamo menzionato non ci è di grande aiuto. Per confutarla si può obiettare che essa postula l’esistenza di pulsioni di vita che operano già nel più semplice organismo; infatti, se così non fosse, la coniugazione, che opera contro il corso naturale della vita e rende più difficile il compito della dipartita, non sarebbe stata conservata ed elaborata, ma invece evitata. Dunque, se non vogliamo abbandonare l’ipotesi delle pulsioni di morte, dobbiamo supporre che fin dall’inizio esse si siano associate alle pulsioni di vita. Ma dobbiamo ammettere che qui lavoriamo con un’equazione a due incognite. A parte questo, quello che la scienza ci sa dire a proposito dell’origine della sessualità è talmente poco che questo problema può essere paragonato a un sito tenebroso dove non è penetrato neppure il raggio di un’ipotesi. Vero è che in un ambito completamente diverso incontriamo un’ipotesi del genere; ma essa ha un carattere talmente fantastico – è certamente un mito assai più che una spiegazione scientifica – che non oserei menzionarla se non soddisfacesse proprio quella condizione che noi cerchiamo di soddisfare. Essa fa derivare in effetti l’esistenza di una pulsione dal bisogno di ripristinare uno stato precedente.

È ovvio che mi riferisco alla teoria che nel Simposio platonico viene attribuita ad Aristofane, e che non tratta solo dell’origine della pulsione sessuale, ma anche della sua più importante variazione in rapporto all’oggetto.243

“Anticamente, infatti, la nostra natura non era la stessa di ora, ma differente. Anzitutto, invero, i generi dell’umanità erano tre, e non due – come adesso – il maschio e la femmina; piuttosto c’era inoltre un terzo genere partecipe di entrambi i suddetti... l’androgino...” Ma in questi uomini tutto era doppio, avevano dunque quattro mani e quattro piedi, due volti, due parti pudende ecc. Ora Zeus si lasciò indurre a tagliare ogni uomo in due parti, “come quelli che tagliano le sorbe per metterle in conserva... Allora, una volta divisa in due la natura primitiva, ciascuna metà, bramando la metà perduta che era sua, la raggiungeva; e avvicinandosi con le braccia e intrecciandosi l’un con l’altra, per il desiderio di fondersi insieme, perivano di fame...”244

Dovremmo seguire l’indicazione che ci dà il poeta-filosofo, e azzardare l’ipotesi che la sostanza vivente nel momento in cui venne in vita sia stata frantumata in piccole particelle, che dopo di allora tendono a riunirsi mediante le pulsioni sessuali? Che queste pulsioni, nelle quali si continua l’affinità chimica della materia inanimata, sviluppandosi attraverso il regno dei protisti, riescano gradualmente a superare le difficoltà che a questa tensione vengono opposte da un ambiente denso di stimoli mortalmente pericolosi che le costringe a formare uno strato corticale protettivo? Che questi frammenti di sostanza vivente attingano in tal modo la pluricellularità, e alla fine demandino la pulsione della riunificazione, in una forma estremamente concentrata, alle cellule germinali? Ritengo che a questo punto facciamo bene a fermarci.

Ma non senza aver prima aggiunto alcune parole di riflessione critica. Mi si potrebbe chiedere se e in che misura sono io stesso convinto della validità delle ipotesi che ho sviluppato in queste pagine. La mia risposta sarebbe: non ne sono convinto né mi sentirei di fare alcunché per indurre altri a credere in tali ipotesi. O meglio: non so fino a che punto credo in esse. Ma mi pare che non ci sia affatto bisogno che intervenga qui il fattore affettivo della convinzione. Dopo tutto è lecito abbandonarsi a una certa linea di pensiero, svilupparla fin dove è possibile per pura curiosità scientifica, o, se si vuole, facendo la parte dell’advocatus diaboli, senza per questo vendere l’anima al diavolo. Non mi nascondo che il terzo passo che sto compiendo nella teoria delle pulsioni non può pretendere la stessa certezza dei primi due: l’estensione del concetto di sessualità e l’ipotesi del narcisismo. Queste due innovazioni erano l’immediata trasposizione dell’osservazione analitica nel linguaggio teorico, e non erano esposte al rischio di errori maggiori di quelli che sono inevitabili in ognuno di questi casi. È vero che anche la mia affermazione relativa al carattere regressivo delle pulsioni si fonda su un materiale empirico, e cioè sull’osservazione dei fatti che si riferiscono alla coazione a ripetere. Ma può darsi che io abbia sopravvalutato la loro importanza. E in ogni caso quest’idea può essere sviluppata solo a condizione di combinare ripetutamente i dati di fatto con elementi puramente speculativi, e quindi allontanandosi assai dall’osservazione. Si sa che il risultato finale di una costruzione teorica diventa tanto meno attendibile quanto più spesso si compie questa operazione. Ma il grado dell’incertezza non è decidibile. Si può arrivare felicemente in porto o finire ignominiosamente fuori strada. In lavori di questo tipo attribuisco scarsa importanza alla cosiddetta intuizione; per quello che ho potuto vedere, mi sembra che essa sia piuttosto il risultato di una certa imparzialità dell’intelletto. Solo che purtroppo gli uomini sono raramente imparziali quando si tratta delle cose ultime, dei grandi problemi della scienza e della vita. Credo che in questi casi ciascuno di noi sia dominato da intime e profondissime predilezioni di cui le nostre speculazioni fanno inconsapevolmente il giuoco. Dal momento che abbiamo così valide ragioni per diffidare dei risultati dei nostri sforzi intellettuali, l’unica cosa che ci resta da fare è considerarli con fredda benevolenza [vedi in questo volume la Premessa a L’Io e l’Es]. Mi affretto però ad aggiungere che questo atteggiamento autocritico non ci obbliga affatto a dimostrare una particolare tolleranza verso le opinioni che divergono dalle nostre. È perfettamente legittimo respingere inesorabilmente quelle teorie che nell’analisi si rivelano fin dai primi passi in contrasto con l’osservazione, ed essere al tempo stesso consapevoli che la validità delle teorie da noi proposte è soltanto provvisoria.

La valutazione attinente alle nostre speculazioni che riguardano le pulsioni di vita e di morte non dovrebbe esser gran che disturbata dal fatto che vi compaiono processi tanto strani e oscuri come quello per cui una pulsione viene espulsa da altre o abbandona l’Io per indirizzarsi sull’oggetto, e così via. Tutto ciò deriva semplicemente dal fatto che siamo costretti a lavorare con i termini scientifici, e cioè col linguaggio immaginifico proprio della psicologia (o, più esattamente, della psicologia del profondo). Non potremmo descrivere altrimenti i processi in questione, anzi, non li avremmo nemmeno percepiti. Probabilmente le carenze della nostra esposizione scomparirebbero se fossimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con quelli della fisiologia o della chimica. È vero che anche questi ultimi fanno parte soltanto di un linguaggio immaginifico, ma si tratta di un linguaggio che ci è familiare da tempo, e che forse è anche più semplice.

D’altra parte andrebbe chiarito inequivocabilmente che l’incertezza della nostra speculazione è stata considerevolmente accresciuta dalla necessità di ricorrere alla scienza biologica. La biologia è veramente un campo dalle possibilità illimitate, dal quale ci dobbiamo attendere le più sorprendenti dilucidazioni; non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che le abbiamo posto. Forse queste risposte saranno tali da far crollare tutto l’artificioso edificio delle nostre ipotesi. Ma se le cose stanno così – ci si potrebbe domandare –, perché intraprendere lavori come quello esposto in questo paragrafo, e perché, comunque, renderli noti al pubblico? Ebbene, non posso fare a meno di dichiarare che alcune delle analogie, dei collegamenti e delle connessioni che esso contiene mi sono sembrati degni di esser presi in attenta considerazione.245

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