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Inizio del trattamento449
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Chi voglia imparare sui libri il nobile giuoco degli scacchi si accorgerà ben presto che soltanto le mosse di apertura e quelle finali consentono una presentazione sistematica esauriente, mentre ad essa si sottraggono le innumerevoli svariatissime mosse che si succedono dopo l’apertura. Soltanto un assiduo studio di partite in cui abbiano gareggiato dei maestri può colmare la lacuna esistente in queste istruzioni. A limitazioni analoghe soggiacciono senza dubbio le regole che possono essere fissate per l’esercizio del trattamento psicoanalitico.
Tenterò ora di raggruppare ad uso dell’analista pratico alcune di queste regole per l’avviamento della cura. Vi sono fra esse disposizioni che possono apparire, e certamente sono, assai minute. A loro giustificazione valga il fatto che si tratta appunto di regole di un giuoco destinate ad acquistare importanza dal piano del giuoco nel suo complesso. Comunque mi sembra opportuno presentare queste regole come “consigli” e non pretendere che vengano accettate incondizionatamente. La straordinaria diversità delle costellazioni psichiche di cui siamo costretti a tener conto, la plasticità di tutti i processi psichici e la quantità dei fattori che si rivelano di volta in volta determinanti, sono tutti elementi che si oppongono a una standardizzazione della tecnica e fanno sì che un procedimento peraltro legittimo risulti talvolta inefficace, mentre un procedimento solitamente difettoso vada una volta ogni tanto a buon fine. Queste circostanze non impediscono tuttavia di stabilire le regole per un comportamento mediamente appropriato da parte del medico.
Già anni fa ho fornito le indicazioni più importanti per selezionare i malati.450 Non intendo perciò ripeterle in questa sede; esse nel frattempo hanno trovato il consenso di altri psicoanalisti. Aggiungo però che da allora ho preso l’abitudine, se so poco di un paziente, di accettarlo dapprima solo in via provvisoria, per la durata di una o due settimane. Se il rapporto si interrompe entro questo periodo, si risparmia al malato la penosa impressione di un tentativo di guarigione fallito. Si è trattato appunto soltanto di un sondaggio per conoscere il caso e per decidere se era adatto alla psicoanalisi. A parte questo tentativo, non disponiamo di alcun altro tipo di verifica; né varrebbero a sostituirlo conversazioni e interrogatori, per prolungati che fossero, durante la normale ora di consultazione. Comunque questo tentativo preliminare è ormai l’inizio della psicoanalisi e deve seguirne le regole. Lo si può eventualmente tenere distinto da essa, per il fatto che si fa parlare soprattutto il paziente e gli si forniscono solo i chiarimenti strettamente indispensabili per la prosecuzione del suo racconto.
Far iniziare il trattamento con un periodo di prova siffatto di alcune settimane ha del resto anche una motivazione diagnostica. Molto spesso, quando si ha dinanzi a sé una nevrosi con sintomi isterici o ossessivi non eccessivamente pronunciati e di comparsa piuttosto recente – le forme appunto che siamo inclini a considerare favorevolmente ai fini di un trattamento – è necessario domandarsi se il caso non corrisponda invece allo stadio preliminare di una cosiddetta dementia praecox (schizofrenia secondo Bleuler, parafrenia secondo la mia proposta),451 destinata prima o poi a manifestarsi in un quadro clinico ben delineato. Contesto che sia sempre così facile operare questa distinzione. So che alcuni psichiatri non sono così esitanti nella diagnosi differenziale, ma mi sono convinto che altrettanto spesso essi sbagliano. Per lo psicoanalista però l’errore è più denso di conseguenze che per il cosiddetto psichiatra clinico. Infatti quest’ultimo sia in un caso che nell’altro non intraprende nulla da cui si possa trar profitto; egli corre soltanto il rischio di commettere un errore teorico e l’interesse della sua diagnosi è meramente accademico. Lo psicoanalista invece in caso sfavorevole commette uno sbaglio pratico, si rende responsabile di un inutile dispendio e getta il discredito sul suo metodo terapeutico. Egli non può tener fede alla sua promessa di guarire il malato se quest’ultimo non soffre d’isteria o di nevrosi ossessiva bensì di parafrenia; l’analista ha perciò motivi particolarmente seri per evitare l’errore diagnostico. In un trattamento di prova di alcune settimane gli capiterà spesso di osservare indizi sospetti che potranno determinarlo a non proseguire l’esperimento. Purtroppo non posso affermare che il trattamento di prova consenta invariabilmente una decisione sicura; è soltanto una buona precauzione in più.452
Lunghe conversazioni preliminari prima dell’inizio del trattamento analitico, una precedente terapia di altro genere così come una conoscenza già in atto tra il medico e l’analizzando hanno particolari conseguenze sfavorevoli alle quali bisogna esser preparati. Queste situazioni fanno infatti sì che il paziente si ponga di fronte al medico in un atteggiamento di traslazione già definito, atteggiamento che il medico è costretto a scoprire soltanto lentamente, anziché avere l’opportunità di osservare il crescere e il divenire della traslazione fin dal suo inizio. In questo modo il paziente ha per un certo tempo un vantaggio sul medico che solo a malincuore gli è concesso durante la cura.
Si diffidi di coloro che vogliono cominciare la cura con un rinvio. L’esperienza dimostra che, trascorso il termine concordato, non arrivano, anche se la motivazione di questo rinvio, ossia la razionalizzazione del loro proposito, appare insospettabile al non iniziato.
Particolari difficoltà insorgono quando tra il medico e il paziente che inizia l’analisi o tra le famiglie di costoro si sono stabiliti rapporti di amicizia o relazioni sociali. Lo psicoanalista al quale si richiede di prendere in trattamento la moglie o il figlio di un amico, può prepararsi a che l’impresa, qualunque sia il suo esito, gli costi l’amicizia. Egli dev’esser disposto a fare questo sacrificio, se non è in grado di fornire un sostituto degno di fiducia.
Profani e medici, ai quali piace pur sempre scambiare la psicoanalisi per un trattamento suggestivo, sono soliti attribuire grande valore all’aspettativa del paziente nei confronti del nuovo trattamento. Essi pensano spesso che con un certo malato non si farà molta fatica dal momento che egli nutre grande fiducia nella psicoanalisi ed è pienamente convinto della sua verità ed efficacia. Nel caso di un altro malato essi ritengono che la cosa sarà più difficile, perché egli si comporta in modo scettico e a nulla vuol credere prima di aver visto il risultato sulla propria persona. In realtà questa impostazione del malato ha un significato molto ridotto; la sua provvisoria fiducia o sfiducia non conta quasi rispetto alle resistenze interne che ancorano la nevrosi. La fiducia cieca del paziente rende certo molto piacevole il primo contatto con lui; lo si ringrazierà di questo, ma lo si avvertirà che la sua favorevole predisposizione è destinata a infrangersi contro la prima difficoltà emergente nella cura. Allo scettico si dirà che l’analisi non ha bisogno di alcuna fiducia, che gli è consentito di essere critico e diffidente come meglio crede, che non si intende affatto mettere in conto alle sue valutazioni codesto atteggiamento, poiché infatti egli non è in grado di farsi un giudizio sicuro su questi punti; la sua sfiducia è un sintomo come gli altri, e non darà alcun disturbo, purché egli si disponga a seguire scrupolosamente quanto la regola del trattamento esige da lui.
Chi abbia familiarità con l’essenza della nevrosi non si stupirà di sentire che anche colui il quale è perfettamente capace di esercitare la psicoanalisi sulle altre persone, può comportarsi come qualsiasi altro essere umano e produrre le resistenze più intense appena egli stesso sia fatto oggetto della psicoanalisi. In questo caso ancora una volta ci si rende conto di quanto sia profonda la dimensione della psiche e non si trova nulla di sorprendente nel fatto che la nevrosi sia radicata in strati psichici ai quali la cultura analitica non è pervenuta.
Sono punti importanti all’inizio della cura analitica le determinazioni relative al tempo e al denaro.
Quanto al tempo io seguo esclusivamente il principio del noleggio di una determinata ora. Ad ogni paziente viene assegnata una certa ora ancora disponibile nella mia giornata lavorativa; quest’ora è sua ed egli deve risponderne anche se non la utilizza. Questa decisione, che per l’insegnante di musica o di lingue è considerata ovvia nella nostra buona società, presa da un medico suona forse dura o addirittura indegna del suo ruolo. Si sarà forse inclini a porre in rilievo le numerose occorrenze che di tanto in tanto potrebbero impedire al paziente di comparire dinanzi al medico ogni volta alla stessa ora, e si pretenderà che si tenga conto delle numerose malattie intercorrenti che possono capitargli nel corso di un trattamento analitico piuttosto lungo. La mia risposta però è una sola: non si può fare altrimenti. Con un comportamento più mite le sospensioni “occasionali” si accumulerebbero al punto che il medico vedrebbe minacciata la propria sussistenza materiale. Se invece ci si attiene rigorosamente a questa determinazione, risulta che gli ostacoli casuali non si presentano affatto e le malattie intercorrenti solo molto di rado. Quasi mai l’analista gode di agi di cui chi si guadagna onestamente da vivere dovrebbe vergognarsi; e in tal modo può continuare indisturbato il proprio lavoro ed evita la penosa e imbarazzante esperienza di una pausa immeritata, proprio e immancabilmente quando il lavoro promette di diventare particolarmente importante e ricco di contenuto. Ci si fa una convinzione precisa sull’importanza dei fattori psicogenetici nella vita quotidiana degli uomini, sulla frequenza delle finte malattie e sulla non esistenza del caso, soltanto dopo aver esercitato per anni la psicoanalisi seguendo rigorosamente il principio del noleggio dell’ora. In caso di indubbie affezioni organiche, che certo non possono venir eliminate mediante l’interesse psichico, interrompo il trattamento, mi considero autorizzato a disporre in altro modo dell’ora resasi libera e riprendo in cura il paziente appena si è ristabilito e ho a disposizione un’altra ora.
Lavoro con i miei pazienti tutti i giorni ad eccezione delle domeniche e delle grandi festività: dunque, di regola, sei giorni alla settimana. Per casi lievi o quando il trattamento è già molto avanzato sono sufficienti anche tre ore settimanali. Negli altri casi le limitazioni di tempo non sono vantaggiose né per il medico né per il paziente; all’inizio devono essere categoricamente respinte. Già per brevi interruzioni capita sempre che il lavoro si insabbi un poco; usavamo parlare scherzosamente di una sorta di “crosta del lunedì”, quando si riprende il lavoro dopo il riposo domenicale; con un lavoro poco frequente esiste il pericolo che non si riesca a tenere il passo con l’esperienza reale del paziente, che la cura perda il contatto con l’attualità e venga sospinta su vie laterali. Di quando in quando ci imbattiamo addirittura in malati ai quali bisogna dedicare più tempo della misura media di un’ora al giorno, dal momento che essi impiegano la maggior parte di essa a disgelarsi, e comunque a diventare comunicativi.
Una domanda spiacevole per il medico, che il malato gli rivolge proprio all’inizio, è la seguente: “Quanto tempo durerà il trattamento? quanto tempo Le occorre per liberarmi dal mio male?” Se si è proposto un trattamento di prova di alcune settimane, si evita di rispondere direttamente a questa domanda promettendo che una dichiarazione più attendibile potrà esser resa al termine del periodo di prova. Pressappoco come Esopo nella favola del viandante che chiede quanto sia lunga la via la risposta che diamo è un “va!”, e la motivazione di questo decreto è che bisogna imparare a conoscere il passo del viandante prima di poter calcolare la durata del suo cammino. Pronunciandosi in questo modo si superano le prime difficoltà, ma il paragone non è felice, poiché il nevrotico può facilmente mutare il proprio ritmo e in certi periodi non fare che progressi molto lenti. In verità è quasi impossibile rispondere alla domanda sulla presumibile durata del trattamento.
La scarsa avvedutezza dei malati e l’insincerità dei medici concorrono a far sì che all’analisi si rivolgano le pretese più esagerate in un tempo limitatissimo. A mo’ di esempio, comunico i dati seguenti che traggo da una lettera pervenutami qualche giorno fa da una signora che risiede in Russia. Ha 53 anni,453 è sofferente da 23, da 10 anni non è più in grado di esercitare continuativamente un’attività lavorativa. “Trattamenti in vari istituti per malattie nervose” non hanno saputo renderle possibile una “vita attiva”. Spera di essere guarita completamente grazie alla psicoanalisi, di cui ha letto. Ma la sua cura è già costata così tanto alla famiglia, che non può permettersi un soggiorno a Vienna più lungo di sei settimane, o al massimo di due mesi. A ciò si aggiunge la difficoltà che sin dall’inizio ella vuole “chiarirsi” soltanto per iscritto, poiché il toccare i suoi complessi provocherebbe in lei un’esplosione oppure la “farebbe temporaneamente ammutolire”. – Nessuno normalmente si aspetterebbe che un pesante tavolo possa esser sollevato con due dita come se si trattasse di un leggerissimo sgabello, o che si possa costruire una grande casa nello stesso tempo richiesto per erigere una piccola capanna di legno; eppure, appena si tratta delle nevrosi, che a tutt’oggi non sembrano ancora aver trovato una propria collocazione nell’ambito del pensiero umano, anche persone intelligenti dimenticano la necessaria proporzionalità tra tempo, lavoro e risultato. È questa del resto una conseguenza ben comprensibile della profonda insipienza relativa all’etiologia delle nevrosi. Grazie a quest’ignoranza, la nevrosi è per questa gente una sorta di “fanciulla di terra straniera”.454 Non si sa da dove venga e perciò ci si aspetta che un bel giorno sparisca.
I medici favoriscono questa credulità; tra di loro anche persone competenti spesso non valutano correttamente la gravità delle malattie nevrotiche. Un collega e amico, che stimo molto poiché dopo parecchi decenni di lavoro scientifico condotto in base a premesse diverse si è volto a un apprezzamento della psicoanalisi, mi scrisse una volta: “Ciò di cui abbiamo bisogno è un trattamento breve, comodo, ambulatoriale, delle nevrosi ossessive.” Non potendo soddisfarlo, me ne vergognai e cercai di scusarmi osservando che probabilmente anche gli internisti sarebbero molto soddisfatti di una terapia della tubercolosi o del carcinoma che riunisse in sé questi vantaggi.
Per dirla in termini più diretti, nella psicoanalisi si tratta sempre di periodi lunghi, mezzi anni o anni interi, comunque di periodi più lunghi di quanto i malati si aspettano. Si ha quindi l’obbligo di rivelare questa circostanza al paziente prima ch’egli si decida definitivamente a intraprendere il trattamento. Ritengo in generale più degno, ma anche più opportuno, richiamare l’attenzione del malato – pur senza scoraggiarlo – sulle difficoltà e i sacrifici della terapia analitica, togliendogli così ogni diritto di sostenere in seguito che lo si è trascinato verso un trattamento di cui ignorava mole e significato. Chi si lascia distogliere da siffatte comunicazioni si sarebbe comunque rivelato inadatto in seguito. È bene effettuare una selezione del genere prima dell’inizio del trattamento. Con il progredire dell’opera di chiarificazione tra i malati, cresce comunque il numero di coloro che superano questa prima prova.
Mi rifiuto di impegnare i pazienti a perseverare per un determinato periodo nel trattamento, permetto a ciascuno di interrompere la cura quando gli aggrada, non gli nascondo però che un’interruzione dopo un breve lavoro non lascerà dietro di sé alcun risultato e potrà metterlo con facilità, al pari di un’operazione incompiuta, in una situazione insoddisfacente. Nei primi anni della mia attività psicoanalitica trovavo enormi difficoltà nell’indurre i malati a perseverare nell’analisi; questa difficoltà si è da tempo spostata: ora devo darmi gran pena per costringerli a smettere.
L’abbreviazione della cura analitica rimane un legittimo desiderio, al cui appagamento si tende, come vedremo, per diverse vie. Ad essa si oppone purtroppo un elemento di grande rilievo, la lentezza con la quale si compiono modificazioni psichiche profonde, dunque in ultima analisi l’“atemporalità” dei nostri processi inconsci.455 Quando i malati vengono posti dinanzi alla difficoltà del grande dispendio di tempo necessario all’analisi, non di rado sanno proporre un certo espediente. Suddividono le loro sofferenze in mali che descrivono come insopportabili e in altri che definiscono secondari, e dicono: “Purché Lei mi liberi dal tal male (per esempio dal mal di capo, da una determinata paura), con il resto saprò cavarmela.” Così facendo però sopravvalutano la virtù selettiva dell’analisi. Certo, il medico analista può molto, ma non può decidere con esattezza cosa sarà in grado di fare. Egli mette in moto un processo, quello di scioglimento delle rimozioni esistenti; può vigilare su questo processo, promuoverlo, liberarlo dagli ostacoli che gli si frappongono per via, e anche, non c’è dubbio, sciuparne gran parte. Complessivamente però, il processo, una volta avviato, va per la sua strada e non si lascia prescrivere né la direzione né la sequenza dei punti da intaccare. Quanto al potere dell’analista sui fenomeni morbosi la situazione è dunque paragonabile a quella della potenza virile. L’uomo più vigoroso può sì generare un bambino intero, ma non può far nascere nell’organismo femminile una testa, un braccio o una gamba soltanto; e neppure può decidere sul sesso del bambino. Anch’egli appunto non fa che avviare un processo estremamente complicato e originato da eventi remotissimi, processo che si conclude con il distacco del bambino dalla madre. Anche la nevrosi di una persona possiede i caratteri di un organismo, le sue manifestazioni parziali non sono indipendenti tra loro, si condizionano a vicenda e sono solite rafforzarsi reciprocamente; si soffre sempre soltanto di un’unica nevrosi, non di più nevrosi che casualmente si siano incontrate in un individuo. Il malato che secondo il suo desiderio sia stato liberato da un sintomo insopportabile, potrebbe agevolmente fare l’esperienza che un sintomo, sino a quel momento lieve, cresce sino a diventare insopportabile a sua volta. L’analista desideroso che il successo del trattamento dipenda il meno possibile dai suoi elementi di suggestione (vale a dire dalla traslazione), farà bene a rinunciare anche a quel poco di influsso selettivo sull’esito terapeutico che eventualmente sarebbe in grado di esercitare. Lo psicoanalista deve preferire quei pazienti che esigono da lui, nei limiti del possibile, la guarigione piena e gli mettono a disposizione il tempo necessario perché si compia il processo di ristabilimento. Naturalmente è lecito attendersi condizioni così favorevoli soltanto in pochi casi.
Il punto successivo sul quale bisogna decidere all’inizio di una cura è il denaro, l’onorario del medico. L’analista non mette in dubbio che il denaro debba essere considerato innanzitutto un mezzo per sopravvivere e ottenere potere, ma egli sostiene che nella valutazione del denaro sono coinvolti potenti fattori sessuali. Può richiamarsi quindi al fatto che le faccende di denaro sono trattate dalle persone civili in modo del tutto analogo alle cose sessuali, con la stessa contraddittorietà, pruderie e ipocrisia. Egli è dunque deciso in partenza a non fare altrettanto, e a trattare invece i rapporti di denaro dinanzi ai propri pazienti con la stessa naturale sincerità alla quale vuole educarli nelle questioni della vita sessuale. Dà loro la prova ch’egli stesso ha deposto un falso pudore, comunicando spontaneamente quanto valuta il proprio tempo. Umana prudenza impone poi di non lasciar accumulare grandi somme bensì di fissare il pagamento a intervalli regolari piuttosto brevi (mensili per esempio). (Com’è noto non si accresce agli occhi del paziente il valore del trattamento se glielo si offre molto a buon mercato). Questa non è, come si sa, la prassi abituale del neurologo o dell’internista nella nostra società europea. Ma allo psicoanalista è consentito porsi sul piano del chirurgo, che è schietto e costoso perché dispone di ausili terapeutici davvero efficaci. Ritengo comunque più degno ed eticamente meno discutibile dichiarare apertamente le proprie pretese e i propri reali bisogni piuttosto che, com’è ancor oggi in uso fra medici, fare la parte del filantropo disinteressato – situazione che davvero non si confà ad alcuno – rammaricandosi in segreto o deprecando a viva voce la mancanza di riguardi e la mania che hanno i pazienti di approfittarsi dei medici. Per la sua richiesta di pagamento l’analista farà inoltre valere il fatto che pur con un lavoro pesante egli non potrà mai guadagnare quanto altri specialisti medici.
Per le stesse ragioni egli potrà anche rifiutarsi di curare senza onorario, non facendo eccezione neppure a favore dei colleghi o dei loro congiunti. L’ultima pretesa sembra contravvenire alle regole della collegialità medica; si tenga conto però che un trattamento gratuito significa per lo psicoanalista molto di più che per qualsiasi altro medico; significa cioè la sottrazione di una quota rilevante del suo tempo disponibile per il guadagno (un ottavo, un settimo e simili), e ciò per la durata di molti mesi. Un secondo trattamento gratuito, che avvenga contemporaneamente, gli ruba addirittura un quarto o un terzo della sua capacità di guadagno, il che dovrebbe essere equiparato all’effetto di un grave incidente traumatico.
Si tratta allora di vedere se il vantaggio per il malato bilancia in qualche modo il sacrificio del medico. Posso certo consentirmi un giudizio in proposito poiché per dieci anni circa ho dedicato giornalmente un’ora, talora anche due ore, a trattamenti gratuiti, dato che per orientarmi nella nevrosi volevo lavorare nel modo più libero possibile da resistenze. Non trovai in questa pratica i vantaggi che cercavo. Alcune resistenze del nevrotico sono enormemente accresciute dal trattamento gratuito: per esempio nella giovane donna, la tentazione implicita nel rapporto di traslazione; nel giovane, l’op-posizione (derivante dal complesso paterno) all’obbligo della gratitudine, opposizione che rappresenta una delle più spiacevoli incombenze per chi si dedica all’assistenza medica. La mancanza dell’effetto di regolarizzazione, che pure si verifica quando si salda il conto al proprio medico, si fa sentire in modo molto penoso; tutto il rapporto si sposta fuori dal mondo reale; un buon motivo per aspirare alla fine della cura viene sottratto al paziente.
Si può essere lontanissimi da un atteggiamento di ascetica condanna del denaro e purtuttavia deplorare che la terapia analitica sia quasi inaccessibile per motivi esterni e interni alle persone povere. C’è poco da fare a questo proposito. Forse è giustificata l’asserzione assai diffusa secondo cui cade meno facilmente preda della nevrosi chi dalle necessità della vita è costretto a un duro lavoro. Del tutto incontestabile si presenta invece l’altra esperienza per cui il povero nel quale si sia radicata una nevrosi, se la lascia sottrarre soltanto con molta fatica. Essa gli rende troppi buoni servigi nella lotta per l’autoaffermazione; il tornaconto secondario che la malattia gli offre è troppo importante.456 La pietà che gli uomini hanno negato al suo bisogno materiale, il povero la reclama ora grazie al titolo che la nevrosi gli conferisce e che lo assolve dall’obbligo di combattere la sua povertà lavorando. Chi si occupa della nevrosi di un povero con i mezzi della psicoterapia fa dunque di regola l’esperienza che in questo caso gli si richiede in verità una terapia pratica di tutt’altro genere, una terapia come quella usata, a quanto dice la tradizione, dall’imperatore Giuseppe II. Naturalmente si trovano pure, a volte, persone eccellenti che si trovano in miseria senza averne colpa, e per le quali il trattamento gratuito non urta contro gli ostacoli anzidetti e raggiunge anzi brillanti risultati.
Per le classi medie il dispendio di denaro necessario per la psicoanalisi è soltanto in apparenza eccessivo. A prescindere dal fatto che la salute e la capacità di fare da una parte, e un moderato dispendio di denaro dall’altra sono entità tra loro assolutamente inconfrontabili, se si sommano le interminabili spese per sanatori e cure mediche e a queste si contrappone l’incremento della capacità di fare e guadagnare ottenuto al termine di una cura analitica portata a buon fine, si può dire che i malati hanno fatto un buon affare. Nella vita non c’è nulla di più dispendioso della malattia e della stupidità.
Prima di concludere queste osservazioni sull’inizio del trattamento analitico, dirò qualche parola ancora su un preciso cerimoniale che attiene alla situazione nella quale la cura si attua. Insisto nella raccomandazione di far stendere il malato su un divano mentre prendiamo posto dietro di lui, in modo ch’egli non possa vederci. Questa disposizione ha un significato storico, è ciò che è rimasto del trattamento ipnotico dal quale si è sviluppata la psicoanalisi. Merita però di essere mantenuta per molteplici ragioni. In primo luogo per un motivo personale, che però altri, forse, condividono con me. Non sopporto di essere fissato ogni giorno per otto (o più) ore da altre persone. Dato che mi abbandono io stesso, mentre ascolto, al flusso dei miei pensieri inconsci, non desidero che l’espressione del mio volto offra al paziente materiale per interpretazioni o lo influenzi nelle sue comunicazioni. Il paziente avverte di solito la situazione impostagli come una privazione e vi si ribella, soprattutto se la pulsione di guardare (voyeurismo) ha una parte importante nella sua nevrosi. Insisto però su questa misura, che ha lo scopo e ottiene l’esito di evitare l’impercettibile commistione fra traslazione e libere associazioni del paziente, di isolare la traslazione e farla affiorare a suo tempo in modo spiccatamente delineato sotto forma di resistenza. So che molti analisti agiscono in modo diverso, ma nutro il sospetto che in questo loro discostarsi dal mio modo di procedere abbia più parte la brama di fare diversamente che non un effettivo vantaggio ch’essi vi abbiano riscontrato. [Vedi oltre].
Quando dunque le condizioni della cura siano state così stabilite, sorge il problema: in quale punto e con quale materiale si deve dar inizio al trattamento?
In complesso è indifferente con che materiale si inizia il trattamento, se con la biografia del paziente, la storia della sua malattia o i suoi ricordi d’infanzia. In ogni caso bisogna cominciare in modo da lasciar parlare il paziente e rimettere al suo arbitrio la scelta del punto di partenza. Gli si dice dunque: Prima di poterLe dire qualcosa, devo apprendere una quantità di cose su di Lei; mi racconti per favore ciò che Lei sa di sé.
Si fa un’eccezione soltanto per la regola fondamentale della tecnica psicoanalitica457 che il paziente è tenuto a osservare. Gliela si rende nota sin dal primo momento: Ancora una cosa prima che Lei cominci. In un punto il Suo racconto deve differenziarsi da una comune conversazione. Mentre Lei di solito cerca, giustamente, di tener fermo nella Sua esposizione il filo del discorso e di ricacciare tutte le idee improvvise e i pensieri secondari che lo intralciano, per non saltare, come si dice, di palo in frasca, qui deve procedere in modo diverso. Lei osserverà che durante il Suo racconto Le vengono in mente diversi pensieri, che vorrebbe respingere con determinate obiezioni critiche. Sarà tentato di dirsi: Questo o quello non c’entra oppure non ha alcuna importanza, oppure è insensato, perciò non c’è bisogno di dirlo. Non ceda mai a questa critica e nonostante tutto dica, anzi dica proprio perché sente un’avversione a dire. Il motivo di questa prescrizione – in fondo l’unica che Lei debba seguire – verrà a saperlo più tardi e imparerà a comprenderlo. Dica dunque tutto ciò che Le passa per la mente. Si comporti, per fare un esempio, come un viaggiatore che segga al finestrino di una carrozza ferroviaria e descriva a coloro che si trovano all’interno il mutare del panorama dinanzi ai suoi occhi. Infine non dimentichi mai di aver promesso assoluta sincerità e non passi sotto silenzio alcunché di cui le dispiaccia parlare per un motivo qualsiasi.458
I pazienti che fanno risalire la loro malattia a un determinato momento si concentrano di norma sulla causa immediata della malattia; altri, che non disconoscono il rapporto tra la loro nevrosi e l’infanzia, cominciano spesso con l’esposizione di tutta la loro biografia. In nessun caso ci si aspetti una narrazione sistematica e comunque non si faccia alcunché per sollecitarla. Ogni più piccolo brano della storia dovrà essere in seguito raccontato di nuovo e soltanto nel corso di queste ripetizioni compariranno le aggiunte che forniscono le connessioni importanti, ignote al malato.
Vi sono pazienti che sin dalle prime ore si preparano accuratamente alla loro narrazione, apparentemente allo scopo di assicurarsi la migliore utilizzazione possibile del tempo a disposizione per il trattamento. Ciò che così si panneggia come zelo è in realtà una resistenza. Si sconsigli tale preparazione, che viene effettuata soltanto per salvaguardarsi dalla comparsa di associazioni indesiderate.459 Per quanto sincero possa essere il malato nel credere alla propria lodevole intenzione, la resistenza reclamerà la sua parte in questa preparazione deliberata e riuscirà a far sì che il materiale più prezioso della comunicazione sfugga. Si noterà ben presto che il paziente scopre altri metodi per sottrarre al trattamento quanto da esso gli viene richiesto. Ogni giorno per esempio parlerà della cura con un amico intimo e porterà in questa conversazione tutti i pensieri che avrebbe dovuto dire in presenza del medico. La cura presenta in questo caso una falla, attraverso la quale defluisce proprio il meglio. Giungerà quindi presto il momento di consigliare al paziente di trattare la sua cura analitica come una faccenda tra il suo medico e lui stesso, evitando di portarla a conoscenza di chiunque, per intimo e curioso che sia. In fasi successive del trattamento il paziente di solito non è soggetto a tentazioni del genere.
A certi malati che vogliono tener segreto il loro trattamento, spesso perché hanno tenuto segreta anche la loro nevrosi, non oppongo difficoltà. Non ha naturalmente importanza se, grazie a questa riservatezza, alcuni tra i più bei risultati terapeutici sfuggono a coloro che li circondano. La decisione dei pazienti in favore della segretezza porta ovviamente alla luce un tratto della loro storia segreta.
Ingiungendo ai malati di mettere al corrente, all’inizio della cura, il minor numero possibile di persone, li proteggiamo anche in certa misura dai molti influssi ostili che tenteranno di distoglierli dall’analisi. Tali influssi possono risultare esiziali all’inizio della cura. In seguito sono perlopiù indifferenti o addirittura utili per portare alla luce alcune resistenze che tendono a celarsi.
Se durante il trattamento analitico il paziente ha bisogno transitoriamente di un’altra terapia, interna o specialistica, è molto più conveniente ricorrere a un collega non analista, anziché prestare di persona questa altra assistenza.460 I trattamenti combinati per disturbi nevrotici connessi a una grave sofferenza organica sono perlopiù irrealizzabili. I pazienti distolgono il loro interesse dall’analisi appena si indica loro più di una via che deve portare alla guarigione. La cosa migliore è quella di differire il trattamento organico sino alla conclusione di quello psichico; se si facesse precedere il primo, esso rimarrebbe nella maggior parte dei casi senza risultato.
Torniamo all’inizio del trattamento. Si incontreranno talvolta pazienti che iniziano il loro trattamento con l’assicurazione negativa che non viene loro in mente alcunché da raccontare, quantunque abbiano ben presente dinanzi a sé tutta la storia della loro vita e della loro malattia.461 Non si aderisca, né la prima volta né quelle successive, alla preghiera di indicare loro di cosa debbono parlare. Si tenga presente che cosa si ha di fronte in questi casi. È passata in prima linea una forte resistenza, volta a difendere la nevrosi; se ne accetti subito la sfida e la si affronti di petto. L’assicurazione, energicamente ripetuta, che non è possibile all’inizio una tale assoluta mancanza di associazioni, e che si tratta di una resistenza contro l’analisi, obbliga ben presto il paziente alle confessioni sospettate o mette allo scoperto una prima parte dei suoi complessi. È un cattivo segno se egli è costretto ad ammettere che, ascoltando la regola fondamentale, si è creato la riserva di tenere tuttavia per sé questo o quello. Meno grave se ha bisogno di comunicare soltanto la sfiducia che prova di fronte all’analisi o le scoraggianti cose che ha udito su di essa. Se egli esclude queste e analoghe possibilità che gli veniamo prospettando, lo si può costringere, insistendo, ad ammettere che ha tuttavia trascurato certi pensieri che lo tengono occupato. Egli ha pensato alla cura in sé, ma non a qualche cosa di preciso; oppure lo ha tenuto occupato l’immagine della stanza in cui si trova; oppure forse pensa agli oggetti presenti nell’ambiente in cui avviene il trattamento, e al fatto che si trova qui steso su un divano: tutte cose ch’egli ha sostituito con la dichiarazione: “nulla”. Si tratta di indizi ben comprensibili; tutto ciò che si riallaccia alla situazione attuale corrisponde a una traslazione sul medico, che si rivela adatta a una resistenza. Si è così obbligati a cominciare rivelandogli la presenza di questa traslazione;462 partendo da essa si trova rapidamente la via d’accesso al materiale patogeno del malato. Saranno soprattutto certe donne che secondo il contenuto della loro biografia sono preparate a un’aggressione sessuale, certi uomini con fortissima omosessualità rimossa, a dar inizio all’analisi con un simile diniego associativo.
Al pari della prima resistenza, anche i primi sintomi o i primi atti casuali dei pazienti possono rivendicare uno speciale interesse e rivelare un complesso che domina la loro nevrosi. Un giovane filosofo ricco d’ingegno, con squisite inclinazioni estetiche, si affretta ad assettare la banda dei pantaloni prima di mettersi sdraiato per il primo trattamento; si rivela un antico coprofilo di suprema raffinatezza, il che non può certo stupire in un futuro esteta. Nella stessa situazione una giovane ragazza allunga frettolosamente l’orlo della sottana sopra il malleolo che spunta; ella rivela in questo atto ciò che di più interessante scoprirà la successiva analisi, il suo orgoglio narcisistico per la bellezza del proprio corpo e le sue inclinazioni esibizionistiche.
Numerosissimi pazienti si oppongono alla posizione che vien loro proposta, mentre il medico siede, non visto, dietro di loro [vedi sopra], e chiedono il permesso di effettuare il trattamento in una posizione diversa, perlopiù perché non vogliono rinunciare a vedere il medico. Questo viene loro regolarmente negato; non si può però impedir loro di organizzarsi in modo da dire alcune frasi prima dell’inizio della “seduta” oppure dopo che se ne è dichiarata la conclusione quando si sono alzati dal divano. Così facendo essi suddividono il trattamento in una fase ufficiale, durante la quale si comportano di solito in maniera molto inibita, e in una fase “alla buona”, durante la quale parlano con vera libertà, comunicando ogni sorta di cose ch’essi stessi non considerano parte del trattamento. Il medico non tollera a lungo questa distinzione, egli bada anche ai discorsi che vengono fatti prima o dopo la seduta, e, utilizzandoli alla prima occasione, abbatte la parete divisoria che il paziente voleva erigere. Questa parete è anch’essa fabbricata con il materiale di una resistenza di traslazione.
Ora, fintanto che le comunicazioni e le idee improvvise del paziente si susseguono senza interruzione, si lasci intatto il tema della traslazione. Per questa procedura più delicata di qualsiasi altra, si aspetti che la traslazione si sia fatta resistenza.
La domanda successiva di fronte a cui ci troviamo è fondamentale: Quando dobbiamo iniziare le comunicazioni all’analizzato? Quando è il momento di svelargli il significato recondito delle sue idee improvvise, di introdurlo ai presupposti e alle procedure tecniche dell’analisi?
La risposta non può essere che una sola: Non prima che si sia instaurata nel paziente una efficace traslazione, un vero e proprio rapporto con il medico. La prima meta del trattamento rimane quella di legare il paziente alla cura e alla persona del medico. A questo scopo non occorre far altro che lasciargli tempo. Se gli si dimostra un interesse serio, se si eliminano accuratamente le resistenze che compaiono all’inizio e si evitano passi falsi, il paziente sviluppa da solo tale attaccamento e inserisce il medico fra le imagines di quelle persone dalle quali è stato abituato a ricevere del bene. Naturalmente ci si può giocare questo primo successo se dall’inizio si adotta un punto di vista che non sia quello dell’immedesimazione, per esempio un punto di vista moraleggiante, oppure se ci si atteggia a rappresentante o mandatario di una parte, per esempio dell’altro membro della coppia coniugale e simili.463
Questa risposta implica naturalmente la condanna di un procedimento che intendesse comunicare al paziente la traduzione dei suoi sintomi, appena sia stata individuata, o che ravvisasse addirittura un particolare trionfo nello scaraventargli in faccia al primo incontro queste “soluzioni”. Per un analista sufficientemente esperto non è difficile distinguere con chiarezza i desideri trattenuti di un malato già dalle sue lagnanze e dal resoconto della sua malattia; ma ci vuole una bella presunzione e avventatezza per rivelare a un estraneo conosciuto da poco, ignaro di tutte le premesse analitiche, ch’egli è legato incestuosamente a sua madre, che nutre desideri di morte verso la moglie apparentemente amata, che accarezza l’intenzione di ingannare il suo principale e così via!464 Ho sentito parlare di analisti i quali vantano diagnosi istantanee e trattamenti rapidi di questo genere, ma la mia esortazione è di non seguirne l’esempio. Da un tale comportamento non si otterrà che discredito per sé e la propria causa e si provocheranno le più violente opposizioni, indipendentemente dalla correttezza delle proprie intuizioni; anzi, la resistenza sarà tanto più violenta quanto più esatta è stata l’intuizione. Se l’effetto terapeutico sarà di regola in un primo tempo pari a zero, lo scoraggiamento suscitato nel paziente di fronte all’analisi sarà definitivo. Anche in stadi ulteriori del trattamento si dovrà usare prudenza, al fine di non comunicare la soluzione di un sintomo o la traduzione di un desiderio prima che il paziente non vi si trovi talmente vicino da dover fare soltanto un breve passo ancora per impadronirsene egli stesso. Negli anni passati ho avuto sovente l’opportunità di sperimentare come la comunicazione prematura di una soluzione provocasse una fine prematura della cura; ciò avveniva sia a causa delle resistenze che venivano così improvvisamente destate, sia in base al sollievo ottenuto grazie alla soluzione offerta.
A questo punto si obietterà: Ma il nostro compito consiste allora nel prolungare il trattamento e non invece nel portarlo a termine il più rapidamente possibile? Non soffre il malato a causa del suo non sapere e non capire, e non è doveroso renderlo consapevole il più presto possibile, vale a dire appena il medico stesso è diventato consapevole?
La risposta a questa domanda suggerisce una breve digressione sul significato del sapere e sul meccanismo della guarigione in psicoanalisi.
All’epoca degli esordi della tecnica analitica attribuivamo in verità grande valore, grazie a un atteggiamento mentale di tipo intellettualistico, alla conoscenza da parte del malato di ciò che era stato da lui dimenticato, non distinguendo quasi tra la nostra conoscenza e la sua. Ci ritenevamo particolarmente fortunati se riuscivamo ad avere notizie del trauma infantile dimenticato dal malato da un’altra fonte, per esempio dai genitori, dalle persone che lo avevano accudito, o dal suo stesso seduttore, come risultò possibile in singoli casi; e ci affrettavamo a portare al malato la notizia, insieme alle prove della sua esattezza, certi di far giungere in tal modo a rapida conclusione nevrosi e trattamento. Era per noi una grave delusione allorché veniva a mancare il risultato atteso. Come poteva accadere che il malato, il quale ora sapeva del suo episodio traumatico, si comportasse tuttavia come se non ne sapesse più di prima? Dopo aver comunicato e descritto il trauma rimosso, non ne affiorava nemmeno il ricordo.
In un determinato caso, la madre di una ragazza isterica mi aveva rivelato l’episodio omosessuale che aveva considerevolmente contribuito alla fissazione degli attacchi della ragazza. Era stata la madre stessa che aveva sorpreso il fatto; ma la malata l’aveva completamente dimenticato quantunque esso si fosse verificato in età prepuberale. Potei allora fare un’esperienza istruttiva. Ogni volta che ripetevo il racconto della madre alla ragazza, questa reagiva con un attacco isterico, dopo il quale l’informazione era di nuovo dimenticata. Non v’era alcun dubbio che la paziente manifestava la più violenta resistenza contro un sapere che le veniva imposto; alla fine simulò debolezza mentale e perdita completa della memoria per proteggersi dalle mie comunicazioni. Ci si dovette così decidere a privare la conoscenza in sé del significato che le era stato attribuito, e a porre l’accento sulle resistenze che avevano a suo tempo provocato la mancanza di conoscenza ed erano tuttora pronte a tutelarla. Mentre il sapere cosciente, anche quando non veniva nuovamente respinto, era comunque impotente di fronte a queste resistenze.465
Il singolare comportamento dei malati, che sanno conciliare un sapere cosciente con un non sapere, rimane inspiegabile per la cosiddetta psicologia normale. Per la psicoanalisi invece, che ammette l’esistenza dell’inconscio, tale comportamento non presenta difficoltà alcuna; anzi il fenomeno suddetto è uno dei più forti sostegni di una concezione che accosta i processi psichici dal punto di vista di una differenziazione topica. Ora i malati sanno dell’episodio rimosso nel loro pensiero cosciente, ma a quest’ultimo manca il collegamento con il punto in cui il ricordo rimosso è in certo qual modo contenuto. Una modificazione può subentrare solo quando il processo ideativo cosciente è penetrato fino a quel punto e vi ha sgominato le resistenze della rimozione. È proprio come se dal ministero della giustizia fosse stato emanato un decreto, in base al quale le mancanze giovanili si devono giudicare con una certa clemenza. Fintantoché questo decreto non è giunto a conoscenza dei singoli tribunali distrettuali, o se per caso i giudici distrettuali non hanno intenzione di attenervisi e preferiscono giudicare di testa propria, non può esservi alcuna variazione nel trattamento dei singoli delinquenti giovanili. Comunque aggiungiamo a scanso di equivoci che il rendere consapevole il malato del materiale che egli ha rimosso non rimane senza conseguenze. Non produrrà l’effetto desiderato, e cioè di porre fine ai sintomi, ma inciderà in altro modo. Susciterà in un primo tempo delle resistenze, ma quando queste saranno superate, darà luogo a un processo ideativo nel cui decorso s’inserirà, alla fine, l’atteso influsso del ricordo inconscio.466
È giunto ora il momento di ricavare una visione d’insieme del giuoco di forze che mettiamo in moto attraverso l’analisi. Il motore primo della terapia è la sofferenza del malato e il desiderio di guarigione che ne deriva. La grandezza di questa forza motrice viene diminuita da parecchi fattori che si scoprono soltanto nel corso dell’analisi, soprattutto dal “tornaconto secondario della malattia”;467 la forza tuttavia persiste sino alla fine del trattamento anche se ogni miglioramento provoca una sua diminuzione. Di per sé, essa è incapace di eliminare la malattia; a tal fine le mancano due cose: non conosce le vie che bisogna imboccare per giungere a questa conclusione e non riesce a trovare l’importo di energia necessario per debellare le resistenze. Il trattamento analitico pone rimedio a entrambe queste carenze. Le quantità d’affetto richieste per superare le resistenze vengono fornite mobilitando le energie disponibili per la traslazione; attraverso tempestive comunicazioni il trattamento indica inoltre al malato le vie sulle quali deve dirigere queste energie. Abbastanza spesso la traslazione può allontanare da sola i sintomi del male, ma in questo caso solo transitoriamente, fintanto appunto ch’essa stessa persiste. Si tratta in questo caso di un trattamento suggestivo, non di psicoanalisi. Il trattamento merita la denominazione di psicoanalisi solo quando l’intensità della traslazione è impiegata per vincere le resistenze. Solo allora diventa impossibile continuare a star male, anche se la traslazione è stata di nuovo sciolta, così com’è suo destino.
Nel corso del trattamento viene sollecitato un altro elemento che può essere d’aiuto: l’interesse intellettuale e l’intelligenza del malato. Ma è un fattore che conta poco di fronte alle altre forze in lotta tra loro e che corre continuamente il pericolo di essere svalutato a causa dell’offuscamento del giudizio prodotto dalle resistenze. In tal modo le nuove fonti a cui il malato attinge forza e di cui è debitore all’analista si riducono alla traslazione e all’ammaestramento (per mezzo della comunicazione). Dell’ammaestramento però egli si serve solo in quanto vi è indotto dalla traslazione; per questo motivo la prima comunicazione dovrebbe attendere sino a che si sia prodotta una forte traslazione. E, vorremmo aggiungere, lo stesso vale per ogni comunicazione successiva. In ogni caso bisogna attendere sino a che il perturbamento della traslazione sia eliminato dalle resistenze di traslazione che affiorano una dopo l’altra.468