Più volte è stata avanzata l’esigenza che una scienza sia costruita in base a concetti chiari ed esattamente definiti. In realtà nessuna scienza, neppure la più esatta, prende le mosse da definizioni siffatte. Il corretto inizio dell’attività scientifica consiste piuttosto nella descrizione di fenomeni, che poi vengono progressivamente raggruppati, ordinati e messi in connessione tra loro. Già nel corso della descrizione non si può però fare a meno di applicare, in relazione al materiale dato, determinate idee astratte: le quali provengono da qualche parte, e non certo esclusivamente dalla nuova esperienza. Ancor più indispensabili sono tali idee – destinate a diventare in seguito i concetti fondamentali della scienza – nell’ulteriore elaborazione della materia. Esse hanno necessariamente all’inizio un certo grado di indeterminatezza: né si può parlare di una chiara delimitazione del loro contenuto. Finché le cose stanno così, ci si intende sul loro significato riferendosi continuamente al materiale dell’esperienza da cui sembrano ricavate, ma che in realtà è ad esse subordinato. A stretto rigore queste idee hanno dunque il carattere di convenzioni, benché tutto lasci supporre che non siano state scelte ad arbitrio, ma siano state determinate in base a relazioni significative col materiale empirico, relazioni che supponiamo di arguire prima ancora di aver avuto la possibilità di riconoscerle e indicarle. Soltanto in seguito a un’esplorazione piuttosto approfondita di un determinato ambito di fenomeni, diventa effettivamente possibile coglierne con una certa esattezza i concetti scientifici fondamentali e modificarli progressivamente in modo tale che essi diventino da una parte ampiamente utilizzabili, e dall’altra del tutto esenti da contraddizioni. Solo allora sarà giunto forse il momento di costringere quei concetti in definizioni. Tuttavia, il progresso della conoscenza non consente definizioni rigide. Come l’esempio della fisica illustra splendidamente, anche i “concetti fondamentali” consegnati in definizioni rigorose, subiscono un costante mutamento di contenuto.1
Un concetto convenzionale di questa specie – ancora piuttosto oscuro per il momento, e di cui tuttavia non possiamo fare a meno in psicologia – è il concetto di “pulsione”. Proviamoci a dargli un contenuto, partendo da diversi punti di vista.
Anzitutto da quello della fisiologia. La fisiologia ci ha fornito il concetto di stimolo e lo schema dell’arco riflesso, per cui uno stimolo che proviene dall’esterno e si appunta sul tessuto vivente (sostanza nervosa) viene scaricato nuovamente all’esterno attraverso l’azione. Tale azione in tanto risulta efficace in quanto sottrae la sostanza stimolata all’influsso dello stimolo, escludendola dal raggio di azione di quest’ultimo.
Ma qual è dunque il rapporto tra “pulsione” e “stimolo”? Nulla ci impedisce di sussumere il concetto di pulsione in quello di stimolo: nel senso che la pulsione sarebbe uno stimolo per la sfera psichica. Tuttavia, qualcosa ci mette subito in guardia dall’equiparare pulsione e stimolo psichico: è chiaro che esistono per la sfera psichica anche altri stimoli oltre a quelli pulsionali, e che tali stimoli si comportano in un modo di gran lunga più simile agli stimoli fisiologici. Così, ad esempio, quando una luce intensa colpisce l’occhio, essa non è uno stimolo pulsionale, mentre è tale la sensazione provocata dall’inari-dimento della membrana faringea o dalla corrosione della mucosa gastrica.2
Siamo giunti dunque a disporre del materiale atto a differenziare lo stimolo pulsionale dagli altri stimoli (fisiologici) che agiscono sulla psiche. In primo luogo lo stimolo pulsionale non proviene dal mondo esterno ma dall’interno dello stesso organismo. È per questo che incide anche in modo differente sulla psiche, ed esige, per essere eliminato, azioni di natura diversa. Inoltre, tutti gli elementi essenziali dello stimolo [fisiologico] sono dati se supponiamo che esso agisca come un singolo urto: in tal caso può essere liquidato mediante un’unica azione appropriata, quale si ha in modo tipico con la fuga motoria dalla fonte dello stimolo stesso. Naturalmente questi urti possono anche ripetersi e sommarsi, ma ciò non porta alcun mutamento nella concezione del processo e nelle condizioni che presiedono all’eliminazione dello stimolo. La pulsione, al contrario, non agisce mai come una forza d’urto momentanea, bensì sempre come una forza costante. E, in quanto non preme dall’esterno, ma dall’interno del corpo, non c’è fuga che possa servire contro di essa. Indichiamo più propriamente lo stimolo pulsionale col termine “bisogno”; ciò che elimina tale bisogno è il “soddisfacimento”. Il soddisfacimento può essere ottenuto soltanto mediante una opportuna (adeguata) modificazione della fonte interna dello stimolo.
Collochiamoci dal punto di vista di un essere vivente, quasi completamente sprovveduto e ancora disorientato, il quale subisca l’azione di stimoli nella sua sostanza nervosa.3 Un tale essere perverrà ben presto nelle condizioni di effettuare una prima distinzione e di ottenere un primo orientamento. Egli avvertirà da un lato stimoli dai quali si potrà ritrarre mediante un’azione muscolare (fuga), e attribuirà questi stimoli a un mondo esterno; ma dall’altro avvertirà pure stimoli nei confronti dei quali una tale azione non serve a nulla, e che, a dispetto di essa, serbano permanentemente il loro carattere assillante; questi stimoli costituiscono l’indice di un mondo interiore, la prova dell’esistenza di bisogni pulsionali. La sostanza percipiente dell’essere vivente ha in tal modo trovato, nella efficacia della propria attività muscolare, un criterio per distinguere un “fuori” da un “dentro”.4
Scopriamo dunque l’essenza della pulsione innanzitutto nei suoi caratteri fondamentali: la provenienza da fonti stimolatrici poste nell’interno dell’organismo e il suo presentarsi come forza costante; e ne deriviamo un altro dei suoi tratti distintivi: il fatto che essa non può essere vinta mediante azioni di fuga. Nel fare queste enunciazioni ci imbattiamo però in qualche cosa che richiede una ulteriore ammissione. In relazione al nostro materiale empirico non solo ci avvaliamo di determinate convenzioni sotto forma di concetti fondamentali, ma ci serviamo altresì di alcuni complicati postulati da cui ci lasciamo guidare nella nostra elaborazione dei fenomeni psicologici. Il più importante di tali postulati lo abbiamo introdotto giusto adesso; ci resta soltanto da rilevarlo in forma esplicita. Esso è di natura biologica, ha a che fare con il concetto di intenzionalità (ed eventualmente di opportunità), e può essere così formulato: il sistema nervoso è un apparato a cui è conferita la funzione di eliminare gli stimoli che gli pervengono, o di ridurli al minimo livello; oppure è un apparato che vorrebbe, sol che ciò fosse possibile, serbare uno stato del tutto esente da stimoli.5 Non scandalizziamoci per il momento per l’imprecisione di questa idea, e – in termini generali – attribuiamo al sistema nervoso il compito di padroneggiare gli stimoli. Vediamo allora come l’introduzione della nozione di pulsione complichi il semplice schema del riflesso fisiologico. Gli stimoli esterni non pongono altro compito che quello di sottrarsi ad essi; tale compito è assolto dai movimenti muscolari, uno dei quali finalmente raggiunge lo scopo e diventa quindi, per disposizione ereditaria, il movimento appropriato. Gli stimoli pulsionali che si producono nell’interno dell’organismo non possono essere liquidati con questo meccanismo. Essi avanzano al sistema nervoso richieste assai superiori, lo inducono ad attività tortuose e tra loro correlate che modificano il mondo esterno acciocché esso fornisca soddisfacimento alle fonti interne stimolatrici, e soprattutto lo costringono a rinunciare al suo ideale proposito di tener lontani gli stimoli, giacché forniscono inevitabilmente un incessante apporto di stimolazione. Dovremmo quindi concludere che esse, le pulsioni, e non gli stimoli esterni, costituiscono le vere forze motrici del progresso che ha condotto il sistema nervoso – le cui capacità di prestazione sono illimitate – al suo livello di sviluppo attuale. Nulla vieta naturalmente di supporre che le stesse pulsioni siano almeno in parte sedimenti di azioni derivanti da stimoli esterni, azioni che nel corso della filogenesi possono aver agito sulla sostanza vivente modificandola.
Quando poi scopriamo che anche l’attività dell’apparato psichico più sviluppato è sottoposta al principio di piacere, e cioè viene automaticamente regolata in base alle sensazioni della serie piacere-dispiacere, difficilmente possiamo rifiutare l’ulteriore postulato secondo il quale queste sensazioni riproducono il modo in cui si svolge l’assoggettamento degli stimoli. E ciò certamente nel senso che la sensazione di dispiacere ha a che fare con un incremento, e la sensazione di piacere con una riduzione dello stimolo. Malgrado la sua considerevole indeterminatezza, intendiamo attenerci scrupolosamente a tale ipotesi finché ci riesca di precisare qual è il tipo di relazione che intercorre tra piacere e dispiacere, e quali sono le oscillazioni quantitative degli stimoli che agiscono sulla vita psichica. È certo che le possibili relazioni di questo genere sono numerose, svariate e niente affatto semplici.6
Se ora ci volgiamo a considerare la vita psichica dal punto di vista biologico, la “pulsione” ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea.
Possiamo ora discutere alcuni termini che vengono usati a proposito del concetto di pulsione, come ad esempio “spinta”, “meta”, “oggetto”, “fonte” della pulsione.
Per spinta di una pulsione s’intende l’elemento motorio di questa, la somma di forze o la misura delle operazioni richieste che essa rappresenta. Il carattere dell’esercitare una spinta è una proprietà generale delle pulsioni, è addirittura la loro essenza. Ogni pulsione è un frammento di attività; quando nel linguaggio corrente si parla di pulsioni passive, ciò non può significare altro che pulsioni aventi una meta passiva.7
La meta di una pulsione è in ogni caso il soddisfacimento che può esser raggiunto soltanto sopprimendo lo stato di stimolazione alla fonte della pulsione. Ma, seppure questa meta finale di ogni pulsione rimane invariata, più vie possono condurre alla stessa meta finale; perciò per una pulsione possono darsi molteplici mete prossime o intermedie le quali si combinano o si scambiano tra loro. L’esperienza ci autorizza a parlare altresì di pulsioni “inibite nella meta” quando si tratta di processi che si svolgono per un tratto nella direzione del soddisfacimento pulsionale, ma che subiscono a un certo punto una inibizione o una deviazione. È da supporre che un soddisfacimento parziale si ottenga anche in relazione a processi di questo tipo.
Oggetto della pulsione è ciò in relazione a cui, o mediante cui, la pulsione può raggiungere la sua meta. È l’elemento più variabile della pulsione, non è originariamente collegato ad essa, ma le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento. Non è necessariamente un oggetto estraneo, ma può essere altresì una parte del corpo del soggetto. Può venir mutato infinite volte durante le vicissitudini che la pulsione subisce nel corso della sua esistenza. A questo spostamento della pulsione spettano funzioni importantissime. Può accadere che lo stesso oggetto serva al soddisfacimento di più pulsioni, producendo ciò che Alfred Adler chiama un “intreccio pulsionale”.8 Un attaccamento particolarmente forte della pulsione al suo oggetto viene messo in rilievo come “fissazione” della pulsione. La fissazione si produce spesso in periodi remotissimi dello sviluppo pulsionale, e pone fine alla mobilità della pulsione opponendosi vigorosamente al suo staccarsi dall’oggetto.9
Per fonte della pulsione si intende quel processo somatico che si svolge in un organo o parte del corpo il cui stimolo è rappresentato nella vita psichica dalla pulsione. Non si sa se questo processo sia sempre di natura chimica, o se invece possa anche corrispondere allo sprigionamento di altre forze, ad esempio meccaniche. Lo studio delle fonti pulsionali non appartiene più alla psicologia: benché la sua provenienza dalla fonte somatica la condizioni certamente in modo decisivo, la pulsione non ci è nota nella vita psichica che attraverso le sue mete. La conoscenza precisa delle fonti pulsionali non è sempre indispensabile per gli scopi dell’indagine psicologica. Talvolta ci è data la possibilità di risalire dalle mete della pulsione alle sue fonti.
Dobbiamo supporre che le varie pulsioni traenti origine dal corpo e agenti sulla psiche siano contrassegnate da qualità diverse e si comportino perciò nella vita psichica in modi qualitativamente diversi? Non sembra che tale supposizione sia legittima; si ottiene molto di più con la più semplice ipotesi che le pulsioni siano tutte qualitativamente affini, e che il loro effetto sia dovuto esclusivamente alle quantità di eccitamento di cui sono latrici, o forse ancora a determinate funzioni di tali quantità. Ciò che differenzia le prestazioni psichiche delle singole pulsioni può esser fatto risalire alla varietà delle fonti pulsionali. Comunque, solo in un ulteriore contesto potremo enunciare con chiarezza cosa significhi il problema della qualità delle pulsioni.10
Di quali e quante pulsioni è lecito stabilire l’esistenza? È chiaro che vi è qui un ampio margine di discrezionalità. E non vi è nulla da obiettare contro chi voglia introdurre il concetto di una pulsione di gioco, di una pulsione di distruzione, di una pulsione di socialità, quando l’argomento lo esiga e la specificità dell’analisi psicologica induca a farlo. Tuttavia dovremmo domandarci se questi motivi pulsionali, per un verso già così specializzati, non consentano una ulteriore scomposizione nella direzione delle fonti pulsionali, e se quindi non competa un vero significato soltanto alle pulsioni originarie, ossia alle pulsioni non ulteriormente scomponibili.
Ho proposto di distinguere due gruppi di tali pulsioni originarie, quello delle pulsioni dell’Io o di autoconservazione e quello delle pulsioni sessuali. A tale enunciazione non va tuttavia attribuito il significato di un postulato necessario, qual è ad esempio l’ipotesi dell’intenzionalità biologica dell’apparato psichico (vedi sopra); si tratta di una pura congettura che deve essere mantenuta soltanto finché si dimostra utile, e la cui sostituzione con una congettura diversa non modificherà gran che gli esiti del nostro lavoro descrittivo e classificatorio.
L’occasione per questa enunciazione è scaturita dallo sviluppo storico della psicoanalisi, la quale ha assunto come primo oggetto di indagine le psiconevrosi, o meglio quel loro gruppo (isteria e nevrosi ossessiva) che va indicato col nome di “nevrosi di traslazione”; ebbene, la psicoanalisi è giunta all’idea che alla radice di ciascuna di queste affezioni sia rintracciabile un conflitto tra le esigenze della sessualità e quelle dell’Io. Non è comunque da escludere che uno studio approfondito delle altre affezioni nevrotiche (soprattutto delle psiconevrosi narcisistiche o schizofrenie) possa rendere necessaria una modificazione di questa formula, e con ciò un diverso raggruppamento delle pulsioni originarie. Tuttavia per il momento non conosciamo quest’altra formula, e non abbiamo ancora trovato alcun argomento a sfavore della contrapposizione tra pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali.
Comunque dubito assai che sia possibile, in base a un’elaborazione del materiale psicologico, ottenere indicazioni decisive ai fini di una differenziazione e classificazione delle pulsioni. Piuttosto sembra necessario, per gli scopi di una tale elaborazione, applicare al materiale stesso determinate ipotesi sulla vita pulsionale, e sarebbe augurabile che tali ipotesi potessero essere tratte da un altro campo per essere poi trasferite alla psicologia. Il contributo che la biologia può dare in proposito non contraddice certo la distinzione in pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali. La biologia insegna che la sessualità non va posta sullo stesso piano delle altre funzioni dell’individuo, poiché le sue intenzionalità travalicano l’individuo singolo e hanno come contenuto la generazione di altri individui, ovverosia la conservazione della specie. La biologia mostra inoltre che vi sono due modi paralleli, verosimilmente entrambi legittimi, di concepire i rapporti tra l’Io e la sessualità. Secondo il primo punto di vista ciò che conta è l’individuo; la sessualità è vista come una delle attività dell’individuo e il soddisfacimento sessuale come uno dei suoi bisogni. Secondo l’altro punto di vista l’individuo è l’appendice provvisoria e transeunte del pressoché immortale plasma germinale che gli è stato affidato dalla generazione.11 L’ipotesi che la funzione sessuale si distingua dagli altri processi corporei per un particolare chimismo è anche, per quanto mi consta, un presupposto delle ricerche biologiche della scuola di Ehrlich.12
Poiché lo studio delle pulsioni presenta difficoltà quasi insormontabili dal punto di vista della coscienza, l’indagine psicoanalitica dei disturbi psichici rimane la fonte principale delle nostre conoscenze. Corrispondentemente a quello che è stato il suo sviluppo, la psicoanalisi ci ha però potuto fornire fino ad ora conoscenze in qualche misura soddisfacenti soltanto per le pulsioni sessuali; ciò è accaduto perché ha potuto osservare nelle psiconevrosi, in forma per così dire isolata, precisamente e soltanto questo gruppo di pulsioni. Con l’estensione dell’indagine psicoanalitica alle altre affezioni nevrotiche, verrà certo fornito un fondamento anche alla nostra conoscenza delle pulsioni dell’Io, benché sembri temerario attendersi in questo ulteriore campo d’indagine condizioni altrettanto propizie all’osservazione.
Per caratterizzare in forma generale le pulsioni sessuali, si può enunciare quanto segue: esse sono molteplici, traggono origine da svariate fonti organiche, si comportano dapprima con reciproca autonomia e soltanto in seguito pervengono contemporaneamente a una sintesi più o meno completa. La meta, cui mira ciascuna di queste pulsioni, è il conseguimento del “piacere d’organo”,13 e soltanto dopo che è stata raggiunta la loro sintesi, esse si pongono al servizio della funzione riproduttiva, diventando con ciò universalmente riconoscibili come pulsioni sessuali. Al loro primo apparire le pulsioni sessuali si appoggiano alle pulsioni di autoconservazione (da cui si separano soltanto un po’ alla volta) e, anche nel rinvenimento dell’oggetto, seguono le vie che vengono loro indicate dalle pulsioni dell’Io.14 Una loro porzione rimane associata per tutta la vita alle pulsioni dell’Io e fornisce a queste ultime componenti libidiche che rimangono facilmente inavvertite quando la funzione è normale, e che solo il manifestarsi della malattia rende palesi.15 Le pulsioni sessuali si caratterizzano per la loro capacità di assumere funzioni in larga misura vicarianti le une rispetto alle altre, e per la facilità con cui mutano i propri oggetti. In base a queste ultime proprietà sono capaci di prestazioni che si allontanano considerevolmente dalle mete originarie delle loro attività (sublimazione).
Siamo costretti a limitare l’indagine dei destini in cui possono incorrere le pulsioni nel corso del loro sviluppo e della vita umana alle pulsioni sessuali che conosciamo meglio. L’osservazione ci insegna che una pulsione può incorrere nei seguenti destini:
La trasformazione nel contrario.
Il volgersi sulla persona stessa del soggetto.
La rimozione.
La sublimazione.
Poiché non ho in animo di occuparmi qui della sublimazione,16 e poiché dedicherò alla rimozione una trattazione a parte,17 non ci rimane che descrivere e discutere i primi due punti. Considerando i motivi che ostacolano la diretta estrinsecazione delle pulsioni, si possono descrivere i destini cui queste vanno incontro anche come aspetti della difesa contro le pulsioni medesime.
La trasformazione nel contrario si risolve, a ben vedere, in due processi di diversa natura: il cangiamento dall’attività alla passività, e la inversione di contenuto. I due processi vanno trattati separatamente poiché sono diversi nella loro essenza.
Esempi del primo processo sono forniti dalle coppie antitetiche sadismo-masochismo e piacere di guardare-esibizionismo; la trasformazione nel contrario riguarda soltanto le mete delle pulsioni: al posto della meta attiva (martoriare, contemplare) viene instaurata quella passiva (essere martoriato, essere contemplato). L’inversione di contenuto [secondo processo] si riscontra solo nel caso del mutamento dell’amore in odio.
A proposito del volgersi di una pulsione sulla persona stessa del soggetto, basta considerare che il masochismo è un sadismo rivolto contro il proprio Io, e che l’esibizione implica la contemplazione del proprio corpo. L’osservazione analitica non lascia sussistere alcun dubbio circa il fatto che il masochista goda degli insulti rivolti contro la propria persona e l’esibizionista del proprio denudarsi. L’essenza del processo è dunque il mutamento dell’oggetto, mentre la meta rimane invariata.
Tuttavia, non possiamo fare a meno di osservare che in questi esempi il volgersi di una pulsione sulla persona stessa del soggetto e il suo cangiamento dall’attività alla passività convergono o coincidono. Per chiarire la situazione è essenziale una disamina che vada maggiormente alle radici.
Per la coppia antitetica sadismo-masochismo il processo può essere descritto nel modo seguente:
a) Il sadismo consiste nell’esercizio della violenza e della forza contro un’altra persona assunta quale oggetto.
b) Questo oggetto viene abbandonato e sostituito dalla propria persona. Con il volgersi della pulsione sulla propria persona si compie pure la conversione della meta pulsionale attiva in meta pulsionale passiva.
c) Viene nuovamente cercata, quale oggetto, una persona estranea, la quale deve assumere, in seguito al cambiamento determinatosi nella meta, il ruolo di soggetto.18
Il caso c) costituisce quel che comunemente viene designato come masochismo. Il soddisfacimento è anche in esso ottenuto lungo la via dell’originario sadismo giacché l’Io passivo si traspone fantasmaticamente nella posizione precedentemente assunta, che ora è stata ceduta al soggetto19 estraneo. È assai dubbio che possa esistere un soddisfacimento masochistico più diretto; né sembra verificarsi la comparsa di un masochismo originario non derivato dal sadismo nel modo che abbiamo indicato.20 Che l’ipotesi della fase b) non sia superflua risulta dal comportamento della pulsione sadica nella nevrosi ossessiva. Qui infatti troviamo il volgersi della pulsione sulla propria persona senza un atteggiamento di passività nei confronti di una persona nuova; la trasformazione procede solo fino alla fase b); la voglia di tormentare diventa autotormento, autopunizione, non masochismo. Il verbo attivo non si fa passivo, ma assume una forma media riflessiva.21
La comprensione del sadismo viene resa anche più difficile dal fatto che questa pulsione, accanto alla sua meta generale, o meglio all’interno di essa, sembra tendere a uno scopo tutto particolare: non solo scoraggiare e sopraffare, ma, in aggiunta, arrecare dolore. Ebbene la psicoanalisi sembra indicare che l’infliggere dolore non ha niente a che fare con gli originari comportamenti finalizzati della pulsione. Il bambino sadico non prende in considerazione il fatto di arrecare dolore né si propone di farlo. Tuttavia, una volta compiuta la trasformazione in masochismo, il dolore si adatta perfettamente a fornire una meta passiva masochistica; abbiamo infatti motivo di ritenere che anche le sensazioni di dolore – come altre sensazioni spiacevoli – invadano il campo dell’eccitamento sessuale e producano uno stato di piacere in grazia del quale ci si acconcia anche all’esperienza spiacevole del dolore.22 Una volta che il subire dolori si sia trasformato in meta masochistica, può prodursi regressivamente anche la meta sadica del recare dolore: il quale, mentre viene suscitato in altre persone, procura un godimento masochistico nello stesso soggetto che si identifica con l’oggetto che soffre. Naturalmente ciò che in entrambi i casi procura il godimento non è il dolore in quanto tale, ma l’eccitamento sessuale concomitante: e ciò, nel caso del sadismo, in una forma particolarmente opportuna. Il godimento suscitato dal dolore sarebbe quindi una meta originariamente masochistica, che tuttavia può trasformarsi in meta pulsionale soltanto nell’individuo originariamente sadico.
Per amore di completezza, aggiungerò che la compassione non può esser descritta come un esito della trasformazione pulsionale occorrente nel sadismo, e richiede invece la concezione di una formazione reattiva nei confronti della pulsione (vedi oltre, a proposito di tale distinzione).23
Risultati diversi e più semplici si ottengono esaminando un’altra coppia antitetica, quella delle pulsioni che hanno come mete il guardare e il mostrarsi (voyeur ed esibizionista nella terminologia delle perversioni). Anche qui si possono istituire le stesse fasi del caso precedente:
a) Il guardare come attività rivolta a un oggetto estraneo.
b) L’abbandono dell’oggetto, il volgersi della pulsione di guardare su una parte del proprio corpo, e con ciò la trasformazione [dell’attività] in passività, e la costituzione della nuova meta: essere guardati.
c) L’introduzione di un nuovo soggetto,24 al quale ci si mostra, per essere da lui guardati.
È altresì quasi certo che la meta attiva compare prima di quella passiva; il guardare precede l’essere guardati. Tuttavia uno scostamento significativo rispetto al caso del sadismo consiste nel fatto che nella pulsione di guardare si può rintracciare una fase ancora precedente a quella indicata nel punto a). All’inizio della sua attività, la pulsione di guardare è infatti autoerotica: essa ha sì un oggetto, il quale viene però trovato sul proprio corpo. Soltanto in seguito la pulsione viene indotta (attraverso il confronto) a scambiare questo oggetto con un oggetto analogo appartenente a un corpo estraneo (fase a). La fase [autoerotica] preliminare è interessante per il fatto che proprio da essa derivano entrambe le situazioni della coppia antitetica risultante: a seconda che lo scambio venga effettuato a partire da un elemento o dall’altro. Lo schema per la pulsione di guardare potrebbe essere il seguente:
α) |
Contemplare da sé una propria parte sessuale |
= |
Esser contemplato in una parte sessuale dalla propria persona |
↓ |
↓ |
||
β) |
Contemplare da sé un oggetto
estraneo |
γ) |
Esser contemplato in un proprio
oggetto da una persona estranea |
Una fase preliminare di questo genere manca nel sadismo che si rivolge fin da principio a un oggetto estraneo; ciononostante non sarebbe irragionevole costruirla a partire dagli sforzi che il bambino compie per padroneggiare le proprie membra.25
Per entrambi gli esempi qui considerati vale l’osservazione che la trasformazione della pulsione (attraverso il cangiamento dell’attività in passività e il volgersi sulla propria persona) non viene mai compiuta sull’intero ammontare del moto pulsionale. Il più antico orientamento attivo della pulsione persiste in una certa misura accanto all’orientamento passivo più recente, anche se il processo di trasformazione della pulsione è risultato assai cospicuo. L’unica asserzione corretta a proposito della pulsione di guardare sarebbe questa: che tutte le fasi evolutive della pulsione, quella preliminare autoerotica, come le forme attive e passive che essa può assumere al termine del suo sviluppo, persistono le une accanto alle altre; e ciò risulta evidente quando al posto dei comportamenti pulsionali si assuma, come fondamento delle proprie valutazioni, il meccanismo del soddisfacimento. Inoltre, c’è forse un altro modo ancora, anch’esso legittimo, di concepire ed enunciare i fatti. La vita di ogni pulsione si può scindere in singole ondate, cronologicamente separate e omogenee all’interno di un’unità di tempo qualsivoglia, che si comportano le une rispetto alle altre all’incirca come successive eruzioni di lava. Si può allora immaginare che la più antica e originaria eruzione pulsionale proceda inalterata e non subisca evoluzione alcuna; che un successivo sopravvento sia soggetto fin dall’inizio a un mutamento, per esempio alla conversione in passività, e venga ora a sommarsi all’ondata precedente con questo nuovo carattere, e così di seguito. Ebbene, se si considera tutto il moto pulsionale dal suo inizio fino a un momento dato, la successione descritta di ondate è destinata a fornirci il quadro di un determinato sviluppo della pulsione.
Il fatto che in questa26 fase successiva dello sviluppo di un moto pulsionale si possa osservare, accanto ad esso, il suo (passivo) opposto, merita di esser messo in rilievo con il centrato termine “ambivalenza” introdotto da Bleuler.27
Lo sviluppo pulsionale diventerebbe per noi più intelligibile se si facesse riferimento alla storia evolutiva della pulsione e alla permanenza delle fasi intermedie. Il grado di ambivalenza accertabile muta, a quanto ci è testimoniato dall’esperienza, in misura notevole da individuo a individuo e a seconda dei diversi gruppi umani e delle diverse razze. Una cospicua ambivalenza pulsionale in un individuo dei nostri giorni può essere concepita come un retaggio arcaico; giacché abbiamo ragione di ritenere che la partecipazione dei moti inalterati attivi nella vita pulsionale sia stata maggiore nei tempi remoti di quanto lo sia, in media, al giorno d’oggi.28
Abbiamo preso l’abitudine di chiamare narcisismo l’antica fase evolutiva dell’Io durante la quale le pulsioni sessuali di quest’ultimo si soddisfano autoeroticamente; e ciò senza affrontare subito il discorso dei rapporti tra narcisismo e autoerotismo. Dobbiamo quindi dichiarare, a proposito della fase preliminare della pulsione di guardare, di quella fase cioè nella quale il piacere di guardare ha come oggetto il proprio corpo, che essa appartiene al narcisismo, che è una formazione narcisistica. Da essa si svilupperebbe la pulsione attiva di guardare se e in quanto viene abbandonato il narcisismo; la pulsione passiva di guardare si atterrebbe invece fermamente all’oggetto narcisistico. Parimenti la conversione del sadismo in masochismo implicherebbe un ritorno all’oggetto narcisistico, mentre in entrambi i casi [scopofilia passiva e masochismo] il soggetto narcisistico verrebbe rimpiazzato, in virtù di un’identificazione, da un altro Io estraneo.
Tenendo conto della fase preliminare narcisistica del sadismo da noi costruita, ci avviciniamo alla concezione più generale secondo cui i destini pulsionali costituiti dal volgersi sul proprio Io e dalla conversione dell’attività in passività dipendono dall’organizzazione narcisistica dell’Io e portano con sé l’impronta di questa fase. Tali vicissitudini corrispondono forse ai tentativi di difesa che in fasi più avanzate dello sviluppo dell’Io vengono effettuati con mezzi diversi.
Rammentiamo che fino a questo momento ci siamo occupati soltanto delle due seguenti coppie antitetiche di pulsioni: sadismo e masochismo, piacere di guardare e piacere di mostrare. Sono queste infatti le pulsioni sessuali che meglio conosciamo nelle loro manifestazioni ambivalenti. Le altre componenti della successiva funzione sessuale non sono ancora diventate abbastanza accessibili all’analisi per poter esser discusse in modo analogo. Possiamo dire genericamente che esse si comportano autoeroticamente, e cioè che il loro oggetto si vanifica rispetto all’organo che costituisce la loro fonte, e viene di regola a coincidere con esso. L’oggetto della pulsione di guardare, anche se al principio è una parte del proprio corpo, non è l’occhio stesso; e nel sadismo la fonte organica, ossia verosimilmente l’apparato muscolare capace di agire, rinvia direttamente a un altro oggetto, sia pure a un oggetto anch’esso appartenente al proprio corpo. Nelle pulsioni autoerotiche la funzione della fonte organica è così preminente che, secondo un’attendibile ipotesi di Federn29 e di Jekels,30 la forma e la funzione dell’organo determinerebbero l’attività o la passività della meta pulsionale.
La trasformazione di una pulsione nel suo contrario (in senso materiale)31 viene osservata in un caso soltanto: nella conversione dell’amore in odio.32 Poiché è particolarmente frequente che l’amore e l’odio si dirigano contemporaneamente sullo stesso oggetto, tale compresenza costituisce altresì l’esempio più significativo di ambivalenza emotiva.33
Il caso dell’amore e dell’odio acquista un interesse particolare per il fatto che non tollera di essere inquadrato nella nostra descrizione delle pulsioni. Non può sussistere alcun dubbio circa la relazione estremamente intima fra questi due opposti sentimenti e la vita sessuale; tuttavia ci rifiuteremo ovviamente di concepire l’amore come una sorta di pulsione parziale della sessualità, pari alle altre. Siamo piuttosto propensi a ravvisare nell’amore l’espressione degli impulsi sessuali nella loro totalità; ma anche così le cose non si aggiustano, e non si sa che significato vada attribuito al contrario (in senso materiale) di tali impulsi.
L’atto di amare non è suscettibile di uno solo, ma di tre contrari. Oltre all’antitesi amare-odiare, vi è quella amare ed essere amati; e inoltre l’amare e l’odiare presi insieme si contrappongono allo stato dell’indifferenza o della mancanza d’interesse. La seconda di queste tre antitesi, l’amare e l’essere amati, corrisponde propriamente al cangiamento dell’attività in passività, e può anch’essa esser ricondotta a una situazione di base com’è avvenuto nel caso della pulsione di guardare. Questa situazione di base consiste nell’amare sé stessi, ciò che per noi caratterizza il narcisismo. Ora, a seconda che sia sostituito con una persona estranea l’oggetto o il soggetto, si ha la meta attiva dell’amare oppure quella passiva dell’essere amati; di queste due mete l’ultima rimane vicina al narcisismo.
Forse ci avviciniamo di più alla comprensione delle molteplici antitesi dell’amore se rammentiamo che la vita psichica è dominata in generale da tre polarità, e cioè dalle antitesi:
Soggetto (Io)-oggetto (mondo esterno)
Piacere-dispiacere
Attivo-passivo.
Come già abbiamo accennato, l’antitesi Io-non Io (esterno), ossia l’antitesi soggetto-oggetto, si impone precocemente al singolo essere vivente, il quale apprende che mentre può ridurre al silenzio gli stimoli esterni mediante l’azione muscolare, è invece privo di difesa nei confronti degli stimoli pulsionali. Questa antitesi rimane soprattutto dominante nell’attività intellettuale, e genera per la ricerca una situazione fondamentale che non può in alcun modo essere mutata. La polarità piacere-dispiacere è legata a una serie di sensazioni di cui abbiamo già sottolineato l’importanza per la determinazione delle nostre azioni (ossia della nostra volontà). L’antitesi attivo-passivo non va scambiata con quella Io-soggetto - realtà esterna-oggetto. L’Io si comporta passivamente rispetto al mondo esterno fintantoché ne accoglie gli stimoli, attivamente quando reagisce ad essi. Viene costretto dalle sue pulsioni a un’attività del tutto particolare verso il mondo esterno e perciò, al fine di cogliere l’essenziale, si potrebbe dire che l’Io-soggetto è passivo nei confronti degli stimoli esterni e attivo in virtù delle proprie pulsioni. L’antitesi attivo-passivo viene in seguito a confondersi con quella maschile-femminile, la quale, preliminarmente, non ha alcuna importanza psicologica. Il saldarsi dell’attività con la mascolinità, e della passività con la femminilità ci appare infatti a prima vista un dato di fatto biologico; e invece non è affatto qualcosa di così assoluto ed esclusivo come siamo propensi a credere.34
Le tre polarità psichiche presentano tra loro connessioni molto significative. Vi è una situazione psichica originaria nella quale due di esse coincidono. Originariamente, ai primordi della vita psichica, l’Io è investito dalle proprie pulsioni e parzialmente capace di soddisfarle su sé medesimo. Chiamiamo questo stato “narcisismo”, e questo modo di ottenere il soddisfacimento “autoerotico”.35 In questa fase il mondo esterno non è investito di interesse (genericamente inteso), e appare indifferente ai fini del soddisfacimento. In questo periodo l’Io-soggetto coincide col piacevole, il mondo esterno con l’indifferente (o al caso, in quanto fonte di stimoli, con lo spiacevole). Se per il momento definiamo l’“amare” come la relazione dell’Io con le proprie fonti di piacere, la situazione in cui si ama soltanto sé stessi e si è indifferenti verso il mondo esterno illustra la prima delle relazioni antitetiche nelle quali abbiamo trovato l’“amare”.36
L’Io non ha bisogno del mondo esterno fintantoché è autoerotico; tuttavia è dal mondo che riceve gli oggetti connessi alle esperienze delle pulsioni di autoconservazione; né, per un certo periodo, può fare a meno di avvertire gli stimoli pulsionali interni come spiacevoli. Ebbene, sotto il dominio del principio di piacere si compie nell’Io un’evoluzione ulteriore. Esso assume in sé gli oggetti offertigli, in quanto costituiscono fonti di piacere, li introietta (secondo l’espressione di Ferenczi),37 e caccia d’altra parte fuori di sé ciò che nel suo stesso interno diventa occasione di dispiacere (vedi oltre il meccanismo della proiezione).
L’Io si trasforma così dall’Io-realtà primordiale che ha distinto l’interno dall’esterno in base a un buon criterio obiettivo,38 in un Io-piacere allo stato puro, che pone il carattere del piacere al di sopra di ogni altro. Il mondo esterno si scinde ora per lui in una porzione piacevole che egli ha incorporato in sé, e in una restante porzione che gli è estranea. D’altra parte ha estratto dal suo stesso Io una componente che proietta nel mondo esterno e sente nemica. In seguito a questo rivolgimento si ristabilisce la coincidenza delle due polarità: Io-soggetto con piacere e mondo esterno con dispiacere (a partire dalla precedente indifferenza).
Con la comparsa dell’oggetto nello stadio del narcisismo primario, si sviluppa anche il secondo significato opposto dell’amare, ossia l’odiare.39
Come abbiamo veduto, a tutta prima l’oggetto viene recato all’Io dal mondo esterno grazie alle pulsioni di autoconservazione; né si può escludere che anche il senso originario dell’odio stia a indicare la relazione che l’Io ha verso il mondo esterno, straniero e apportatore di stimoli. L’indifferenza rientra nell’odio, nella ripulsa, come loro caso particolare, dopo esser comparsa quale loro precorritrice. L’esterno, l’oggetto, l’odiato sarebbero a tutta prima identici. Qualora l’oggetto si riveli in seguito fonte di piacere, esso viene amato, ma anche incorporato nell’Io, così che per l’Io-piacere allo stato puro l’oggetto torna a coincidere con l’estraneo o l’odiato.
Possiamo ora osservare che, come la coppia antitetica “amore-indifferenza” rispecchia la polarità “Io-mondo esterno”, così la seconda antitesi “amore-odio” riproduce la polarità, connessa alla prima, di “piacere-dispiacere”. Dopo che alla fase puramente narcisistica è subentrata la fase oggettuale, piacere e dispiacere stanno a significare le relazioni che l’Io ha con l’oggetto. Quando l’oggetto diventa fonte di sensazioni piacevoli si produce una tendenza motoria, mirante ad avvicinare l’oggetto all’Io, a incorporarlo in esso; parliamo in tal caso anche dell’“attrazione” esercitata su di noi dall’oggetto che suscita piacere e dichiariamo di “amare” tale oggetto. Viceversa, quando l’oggetto è fonte di sensazioni spiacevoli, sorge una tendenza ad accrescere la distanza fra esso e l’Io, e cioè a ripetere, in relazione ad esso, l’originario tentativo di fuga dal mondo esterno da cui promanano gli stimoli. Avvertiamo la “repulsione” esercitata dall’oggetto e lo odiamo; quest’odio può quindi accentuarsi fino a diventare inclinazione aggressiva verso l’oggetto, proposito di annientarlo.
Si potrebbe, volendo, anche dire che una pulsione “ama” l’oggetto in relazione al quale tenta di raggiungere il proprio soddisfacimento; ci fa invece uno strano effetto dire che una pulsione “odia” un oggetto. E questo ci mette sull’avviso che gli atteggiamenti40 di amore e di odio non sono utilizzabili per i rapporti delle pulsioni con i rispettivi oggetti, ma vanno riservati alla relazione che l’Io nella sua totalità ha con gli oggetti. L’osservazione dell’uso linguistico, che è certamente significativo, ci indica però anche un’altra limitazione nel significato dell’amore e dell’odio. Degli oggetti che servono alla conservazione dell’Io non si dice che si amano, ma si precisa che se ne ha bisogno, e si esprime forse una relazione aggiuntiva di differente natura usando parole le quali alludono all’incirca all’amore, ma in forma molto attenuata; così è quando diciamo ad esempio che qualcuno o qualcosa ci piace, che lo vediamo volentieri, che è di nostro gradimento.
Così la parola “amare” viene sempre più limitata alla sfera della pura relazione di piacere che l’Io ha con l’oggetto, e si fissa in definitiva agli oggetti sessuali in senso stretto, nonché a quegli oggetti che soddisfano i bisogni di pulsioni sessuali sublimate. La separazione delle pulsioni dell’Io dalle pulsioni sessuali, che abbiamo imposto alla nostra psicologia, si rivela pertanto conforme allo spirito della nostra lingua. Se non siamo abituati a dire che la singola pulsione sessuale ama il suo oggetto, e se invece troviamo che l’uso più adeguato della parola “amare” si riferisce alla relazione che l’Io ha con il suo oggetto sessuale, proprio da questa osservazione apprendiamo che tale termine comincia ad essere impiegato con riferimento a questa relazione soltanto dopo che è avvenuta la sintesi di tutte le pulsioni parziali della sessualità sotto il primato dei genitali, e al servizio della funzione riproduttiva.
È rimarchevole il fatto che nell’uso della parola “odiare” non viene messo in rilievo un rapporto altrettanto intimo col piacere sessuale e con la funzione genitale, e sembra invece unicamente decisiva la relazione di dispiacere. L’Io odia, aborrisce, perseguita con l’intenzione di mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui fonte di sensazioni spiacevoli, indipendentemente dal fatto che essi abbiano per lui il significato di una frustrazione del soddisfacimento sessuale o del soddisfacimento dei suoi bisogni di autoconservazione. Si può addirittura asserire che gli autentici archetipi della relazione di odio non traggono origine dalla vita sessuale ma dalla lotta dell’Io per la propria conservazione e affermazione.
Amore e odio, che ci si presentano come un’antitesi assoluta quanto a contenuto, non stanno dunque in una relazione semplice l’uno rispetto all’altro. Essi non sono derivati dalla scissione di una originaria unità, ma hanno distinta origine e hanno subito ciascuno un proprio sviluppo, prima di costituirsi in antitesi sotto l’influsso della relazione piacere-dispiacere.
Nasce a questo punto la necessità di riassumere ciò che sappiamo circa la genesi dell’amore e dell’odio. L’amore nasce dalla capacità propria dell’Io di soddisfare una parte dei suoi moti pulsionali in guisa autoerotica mediante il conseguimento di un piacere d’organo. Tale piacere è originariamente narcisistico, trapassa quindi sugli oggetti che sono stati incorporati nell’Io allargato, ed esprime l’impulso motorio dell’Io verso questi oggetti quali fonti di piacere. Esso si collega intimamente con l’attività delle successive pulsioni sessuali, e, una volta compiuta la sintesi di queste ultime, coincide con la totalità dell’impulso sessuale. Fasi preliminari dell’amore si costituiscono come mete sessuali provvisorie nel mentre che le pulsioni sessuali effettuano il loro complicato sviluppo. Quale prima fra queste fasi ravvisiamo quella dell’incorporare in sé, o divorare,41 una specie di amore compatibile con l’abolizione dell’esistenza separata dell’oggetto, che può quindi esser designato come ambivalente. Nella successiva fase dell’organizzazione pregenitale sadico-anale,42 l’impulso verso l’oggetto si presenta come spinta ad appropriarsene e non importa se l’oggetto viene danneggiato o annientato. Tale forma e stadio preliminare dell’amore non si distingue quasi, per l’atteggiamento che ha verso l’oggetto, dall’odio. Solo con l’instaurarsi dell’organizzazione genitale l’amore viene a contrapporsi all’odio.
L’odio, come relazione nei confronti dell’oggetto, è più antico dell’amore; esso scaturisce dal ripudio primordiale che l’Io narcisistico oppone al mondo esterno come sorgente di stimoli. In quanto manifestazione della reazione di dispiacere provocata dagli oggetti, l’odio si mantiene sempre in intimo rapporto con le pulsioni di conservazione dell’Io, così che le pulsioni dell’Io e le pulsioni sessuali pervengono facilmente a un’antitesi che riproduce l’antitesi odio-amore. Quando le pulsioni dell’Io dominano la funzione sessuale, come accade nella fase dell’organizzazione sadico-anale, esse conferiscono anche alla meta pulsionale il carattere dell’odio.
La storia dell’origine e dei rapporti dell’amore ci fa intendere perché tanto spesso esso si manifesti in forma “ambivalente”, e cioè accompagnato da moti di odio verso il medesimo oggetto.43 L’odio mescolato all’amore proviene in parte dagli stadi preliminari non pienamente superati dell’amore, in parte si costituisce mediante reazioni di ripudio da parte delle pulsioni dell’Io, reazioni che, dati i frequenti conflitti tra gli interessi dell’Io e quelli dell’amore, possono richiamarsi a motivi effettivi e attuali. In entrambi i casi l’odio che si mescola all’amore trae dunque origine dalle pulsioni di autoconservazione. Quando la relazione amorosa verso un oggetto determinato viene troncata, l’odio sorge non di rado al suo posto, cosicché noi ritraiamo l’impressione di una conversione dell’amore in odio. Se ci spingiamo oltre tale enunciazione puramente descrittiva, sosterremo che l’odio, il quale è effettivamente motivato, viene rafforzato dalla regressione dell’amore alla fase sadica preliminare; in tal modo l’odio acquista un carattere erotico e viene garantita la continuità di una relazione amorosa.
La terza antitesi dell’amore,44 la conversione dell’amare nell’essere amati, corrisponde al modo in cui opera la polarità di attività e passività, ed è soggetta alle medesime valutazioni che abbiamo adottato per la pulsione di guardare e per il sadismo.45
Riassumendo, possiamo rilevare che i destini delle pulsioni sono essenzialmente caratterizzati dal fatto che i moti pulsionali sono soggetti all’influsso delle tre grandi polarità che dominano la vita psichica. Di queste, la polarità “attività-passività” potrebbe esser indicata come polarità biologica, quella “Io-mondo esterno” come polarità reale, e infine quella “piacere-dispiacere” come polarità economica.
Il destino pulsionale della rimozione costituirà l’oggetto di un’indagine che è qui di seguito presentata.46