Quest’opera, scritta nell’estate del 1925 e revisionata nel dicembre dello stesso anno (come ci narra Jones) apparve nel febbraio successivo col titolo Hemmung, Symptom und Angst, pubblicata dall’Internationaler Psychoanalytischer Verlag (Lipsia-Vienna-Zurigo 1926). È stata poi riprodotta in Gesammelte Schriften, vol. 11 (1928), pp. 23-115, in Schriften zur Neurosenlehre und zur psychoanalytischen Technik (1913-1926) (Vienna 1931), pp. 205-99, e in Gesammelte Werke, vol. 14 (1948), pp. 113-205. La traduzione italiana è di Mario Rossi.
Si tratta di un lavoro che, malgrado alcune imperfezioni formali derivanti dalla massa di problemi affrontati in una esposizione relativamente breve e riassuntiva, fornisce un contributo fondamentale alla dottrina psicoanalitica.
Dopo la profonda trasformazione operatasi nel suo pensiero nei primi anni ’20 (soprattutto in L’Io e l’Es del 1922), Freud sentì il bisogno di rivedere i problemi della psicogenesi delle manifestazioni nevrotiche in base a tali nuovi punti di vista teorici. E s’interessò soprattutto al problema dell’angoscia e delle fobie.
All’inizio della sua attività scientifica, Freud aveva fondato la concezione delle psiconevrosi sulla nozione di difesa (Abwehr). Più tardi la forma tipica della difesa nevrotica gli era apparsa la rimozione (Verdrängung), come espulsione della coscienza nell’inconscio. La tecnica stessa della psicoanalisi, ribadita in modo specifico in Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi: 2. Ricordare, ripetere e rielaborare (1914), appariva come lotta contro la rimozione, anche se la semplice rievocazione della situazione traumatica non risultava per sé stessa sufficiente a produrre automaticamente la guarigione.
Già in altre opere, dedicate soprattutto alle nevrosi ossessive, era apparso a Freud che oltre alla rimozione, altri meccanismi sostenessero la nevrosi. Nella presente opera Freud osserva che questi altri meccanismi non possono essere considerati semplici manifestazioni accessorie. Essi svolgono un’azione di difesa dall’angoscia che equivale, per importanza, all’azione svolta dalla rimozione nell’isteria. È perciò conveniente riprendere l’originario concetto di difesa, e considerare la rimozione come uno dei tanti meccanismi di difesa, accanto al quale vanno indicati tutti i procedimenti messi in atto dall’Io contro l’angoscia, come le tecniche dell’“isolare” e del “rendere non avvenuto” tipiche delle nevrosi ossessive.
Appare così in germe lo studio generale dei meccanismi di difesa dell’Io, che verrà condotto sistematicamente da Anna Freud.
Ma alla base della nevrosi rimaneva l’angoscia, l’angoscia che è collegata all’attesa di un pericolo indeterminato, e che diventa paura (Furcht) quando si collega a un oggetto avvertito come pericolo. Ma va detto che non sempre Freud è coerente con tale distinzione terminologica e spesso usa il termine Angst riferito a un oggetto ben preciso che il soggetto reputa pericoloso. Per questo nella traduzione italiana tale termine è reso ora con angoscia, ora con paura o timore.
La vecchia teoria, enunciata da Freud, secondo cui l’angoscia altro non sarebbe che libido convertita, viene qui, se non decisamente rifiutata, svuotata del suo originario significato. Essa rimane vera, dice Freud qui nel cap. 2, se ci si limita a una descrizione dei fenomeni, non se di essi si vuol dare una rappresentazione metapsicologica. È invece ripresa la distinzione fra l’angoscia quale segnale di pericolo, e l’angoscia quale reazione al pericolo stesso.
Freud affronta anche il problema dei rapporti fra angoscia e trauma della nascita. Mentre conviene che le prime manifestazioni fisiche dell’angoscia possano sorgere in occasione della nascita, rifiuta e confuta la dottrina di Otto Rank, che attribuisce al trauma della nascita un significato psicologico fondamentale per la produzione della nevrosi.
Le difficoltà incontrate da Freud nell’affrontare secondo la nuova concezione metapsicologica i problemi dell’angoscia e dei sintomi nevrotici è rivelata, nella presente opera, anche dalla necessità da lui avvertita di aggiungere allo scritto una sorta di appendice (il cap. 11), anzi di più appendici raggruppate in quel capitolo, nelle quali vengono ripresi, per meglio chiarirli, i problemi già precedentemente trattati.
Quest’opera è stata portata a conoscenza del pubblico italiano nella traduzione di Emilio Servadio, in un volumetto a sé: S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia (Einaudi, Torino 1951). Della prefazione di Servadio riportiamo qui l’ultima pagina:
“Sebbene, come si è visto, alquanto oscillante, non priva di punti oscuri e ricca di quesiti non risolti, l’esposizione freudiana dell’angoscia è tuttavia estremamente stimolante e tale da indurre a sempre nuove e utili riflessioni. Forse il luogo d’incontro che potrebbe conciliare le varie e diverse vedute qui ricordate, va cercato nel fondamentale e precoce stabilirsi di una ‘dialettica’ interiore in seno all’apparato psichico umano. I vari aspetti fenomenologici di questa dialettica si possono ravvisare sia in taluni momenti salienti della progressiva individualizzazione rispetto al mondo esterno, – nascita, divezzamento –; sia, e a nostro avviso con molto maggiore importanza per la formazione dell’individualità psichica, nelle precoci ‘divisioni interne’ per cui l’uno o l’altro oggetto o istanza interiore assume una sorta di autonomia rispetto ad altri oggetti e istanze. Dalla fase di ‘non distinzione’, propria alla vita fetale, l’individuo passa, con la nascita, dapprima a una nuova situazione, puramente subiettiva, di non distinzione (l’‘Io egocosmico’ di Federn), e subito dopo, già nei primi mesi dell’esistenza, a situazioni di ‘distinzione’ sia esterna che interna. A tale sorte dell’essere, alla tensione che si stabilisce tra la situazione di fatto e la tendenza a un ritorno all’indistinto, alla contraddizione immanente tra il desiderio dell’uno e la necessità del molteplice, è probabilmente da ricondurre l’origine di ogni angoscia umana. L’angoscia del neonato che non fa più tutt’uno con la madre, quella dell’infante separato dalla mammella materna, quella del bambino che teme la perdita della figura protettrice, quella del fanciullo – o dell’adulto nevrotico – insicuro, quella dell’Io di fronte alle ‘forze straniere’ dell’Es o all’‘oggetto temibile’ interno (Super-io o suo precursore) – tutti questi tipi di angoscia hanno un aspetto comune: il fatto che l’individuo, per vivere, deve ‘distinguere’ – dentro e fuori di sé; mentre rimane in lui l’attrazione regressiva verso l’indistinto, quell’attrazione perigliosa che Freud ha descritto nelle prime pagine del Disagio della civiltà (1929), il ‘sentimento oceanico’ per cui si vorrebbe – contro le forze che spingono all’obiettivazione – far tutt’uno col mondo e con le cose (vedi cap. 1, in OSF, vol. 10). L’angoscia è il prezzo di questa rinunzia: prezzo eccessivo e antieconomico nel nevrotico, giusto prezzo per chi accetta di vivere e di operare.”