Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen
In una cerchia di persone fra le quali è invalsa l’opinione che i principali enigmi relativi al sogno siano stati risolti ad opera di chi scrive,264 è sorta un giorno la curiosità di occuparsi di quei sogni che non sono stati sognati da alcuno e che invece sono stati inventati da poeti e da essi attribuiti, nel contesto di un racconto, ai personaggi da loro immaginati. L’idea di sottoporre a indagine tale specie di sogni poteva apparire oziosa e strana, ma da un certo punto di vista poteva anche considerarsi giustificata. In genere non si crede al fatto che il sogno abbia un significato e sia suscettibile d’interpreta-zione. La scienza e la maggior parte delle persone colte sorridono quando si propone loro d’interpretare i sogni. Solo il popolo, legato alle superstizioni, perseverando in credenze tramandate dai tempi antichi, non vuol rinunciare all’interpretazione dei sogni; e l’autore dell’Interpretazione dei sogni, nonostante la protesta della scienza più severa, non ha temuto di schierarsi dalla parte degli antichi e della superstizione. Naturalmente egli si guarda bene dal riconoscere al sogno quella previsione del futuro che l’uomo da tempi immemorabili aspira invano di ottenere con ogni mezzo più insensato. Non può tuttavia neppure scartare del tutto una certa relazione del sogno con il futuro, poiché, dopo aver compiuto un lungo lavoro di traduzione del sogno, questo gli è apparso null’altro che un desiderio del sognatore raffigurato come esaudito; e non si può contestare che i desideri riguardino prevalentemente l’avvenire.
Ho detto che il sogno è un desiderio esaudito. Chi non tema di studiare un libro difficile, e rinunci alla pretesa che, per risparmiargli la fatica, un problema complesso gli venga esposto in modo facile e semplice, con sacrificio però del rigore e della verità, può trovare nel libro citato la prova particolareggiata di questa mia asserzione; egli dovrebbe quindi per il momento tenere in sospeso quelle obiezioni contro l’asserita equivalenza tra sogno e appagamento di un desiderio, che indubbiamente sorgeranno in lui.
Ma abbiamo corso troppo. Non si tratta per il momento di stabilire se il senso di un sogno debba in ogni caso corrispondere a un desiderio esaudito, o se non corrisponda anche altrettanto spesso a un’attesa ansiosa, a un proposito, a una riflessione eccetera. La questione pregiudiziale è piuttosto se il sogno abbia in genere un senso, e se gli si debba attribuire il valore di un processo psichico. La scienza risponde di no, e spiega il sogno come un semplice processo fisiologico, dietro al quale non occorrerebbe cercare un senso, un significato, uno scopo. Durante il sonno stimoli fisici suonerebbero lo strumento psichico, portando alla coscienza ora queste ora quelle rappresentazioni, prive di qualsiasi connessione psichica. I sogni sarebbero paragonabili soltanto a sobbalzi, non a movimenti espressivi della vita psichica.
In tale polemica sul valore del sogno, i poeti e gli scrittori sembrano essere dalla stessa parte degli antichi, del popolo superstizioso e dell’autore dell’Interpretazione dei sogni. Giacché quando fanno sognare i personaggi immaginati dalla loro fantasia, essi si attengono all’esperienza comune per cui i pensieri e i sentimenti degli uomini continuerebbero anche nel sonno; e altro non cercano, mediante i sogni, che descrivere gli stati d’animo dei loro eroi. I poeti sono però alleati preziosi, e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sono soliti sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta.265 Particolarmente nelle conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono ancora state aperte alla scienza. Se solo questa presa di posizione dei poeti a favore del carattere significativo dei sogni fosse meno ambigua! A rigore infatti si potrebbe obiettare che veramente il poeta non si pronuncia né pro né contro il significato psichico del singolo sogno, ma ch’egli si limita a mostrare come la psiche dormiente reagisca alle sollecitazioni rimaste in essa attive come propaggini della vita vigile.
Questa disincantata considerazione non diminuisce tuttavia il nostro interesse per il modo col quale i poeti si servono del sogno. Infatti, anche se la ricerca non dovesse insegnarci nulla di nuovo sull’essenza del sogno, essa può forse consentirci d’intravedere, da questo particolare angolo visuale, qualche cosa sulla natura della produzione poetica. Se già i sogni veri vengono considerati formazioni disordinate prive di leggi, figurarsi poi che ne sarà delle libere imitazioni poetiche di tali sogni! Eppure nella vita psichica vi è assai minore libertà e arbitrarietà di quanto in genere si creda; e forse anzi non ve n’è affatto. Com’è noto, tutto ciò che chiamiamo casuale nel mondo esterno può essere ricondotto a leggi; anche ciò che chiamiamo arbitrario in sede psichica si fonda su leggi, per quanto si tratti per ora di leggi appena intraviste in modo confuso. Stiamo dunque a vedere che cosa scopriamo!
Due vie si aprono per questa ricerca. La prima potrebbe consistere nello studio approfondito di un singolo caso particolare, e cioè dei sogni creati da un poeta in una sua opera. L’altra consisterebbe invece nella raccolta e nel vaglio di tutti gli esempi di utilizzazione del sogno che si possono trovare nelle opere di differenti poeti. Questa seconda via sembrerebbe di gran lunga la più appropriata ed è forse l’unica veramente corretta, giacché essa ci libererebbe fin da principio dagli inconvenienti legati all’assunzione dell’artificioso concetto unitario di “poeta”. Quella unità si frange durante l’indagine in molteplici individui-poeti di diversissimo valore, alcuni dei quali siamo soliti onorare come profondi conoscitori dell’anima umana. Ciò nonostante l’indagine esposta in queste pagine appartiene alla prima specie. È accaduto che nella cerchia di persone in cui era sorta questa idea, qualcuno266 si sia ricordato che in un’opera recentemente piaciutagli in modo particolare fossero contenuti diversi sogni: questi sogni lo avevano guardato con volti familiari, come invitandolo a cercar di applicare su loro il metodo dell’Interpretazione dei sogni. Egli confessò che l’argomento della breve opera e il luogo dell’azione avevano avuto parte preponderante nella compiacenza sorta in lui: la storia infatti si svolge a Pompei e tratta di un giovane archeologo che aveva convertito l’interesse per la vita in quello per i resti dell’antichità classica, e che è poi ricondotto alla vita attraverso una via indiretta straordinaria, ma pienamente corretta. Lo svolgimento di questa vicenda autenticamente poetica suscita nei lettori ogni genere di reazioni ad essa affini e concordanti. L’opera è il breve racconto Gradiva di Wilhelm Jensen, che l’autore stesso denomina “fantasia pompeiana”.
Ora dovrei a rigore pregare tutti i miei lettori di mettere da parte il presente scritto e di sostituirlo per un po’ con la Gradiva, pubblicata nel 1903; e ciò perché mi sia in seguito possibile far riferimento a cose note al lettore. A coloro che hanno già letto la Gradiva, voglio rammentarne il contenuto con un breve riassunto, e conto sul fatto che essi possano con il loro diretto ricordo rinnovare quel fascino del racconto che nel riassunto può andare perduto.
Un giovane archeologo, Norbert Hanold, ha scoperto in un museo di antichità a Roma un bassorilievo;267 ne è stato attratto in modo tanto eccezionale che è stato assai lieto di poterne ottenere un perfetto calco in gesso, da appendere nel suo studio in una città universitaria tedesca, così da poterlo studiare accuratamente. L’immagine riproduce, nell’atto di camminare, una giovinetta in pieno fiore, la quale solleva un po’ la sua ricca veste, così da lasciar scoperti i piedi nei sandali. Un piede poggia completamente sul terreno, l’altro retrostante è sollevato e tocca il terreno solo con le punte delle dita, mentre la pianta e il calcagno si alzano quasi perpendicolarmente. Questo modo di camminare insolito e particolarmente grazioso aveva probabilmente attratto l’attenzione dello scultore, ed ora, dopo tanti secoli, affascina lo sguardo del nostro osservatore archeologo.
Questo interesse dell’eroe del racconto per il bassorilievo descritto è il fatto psicologico fondamentale del racconto. Esso non si spiega senza approfondire le cose. “Il dottor Norbert Hanold, docente di archeologia, non aveva propriamente trovato nel bassorilievo nulla di notevole per la sua scienza” (Gradiva, p. 22);268 “egli non riusciva a capacitarsi di ciò che avesse richiamato la sua attenzione; il fatto è che egli era stato attratto da qualche cosa, e che questa prima impressione si era poi mantenuta inalterata”. Ma la sua fantasia non cessa di occuparsi di questa immagine. Egli vi trova un che di “moderno”, come se l’artista l’avesse intravista per la strada e ritratta “dal vero”. Attribuisce alla ragazza raffigurata nell’atto di camminare un nome: Gradiva, “l’avanzante”;269 egli fantastica ch’essa appartenga a una famiglia distinta, sia forse “la figlia di un edile patrizio esercitante il suo ufficio nel nome di Cerere”, e ch’essa si stia avviando al tempio della dea. Ma poi gli ripugna d’immaginare la sua figura tranquilla e silenziosa nel traffico di una grande città, e finisce col persuadersi che debba piuttosto venir collocata a Pompei, e ch’essa là cammini su quelle apposite pietre per il passaggio che si son trovate negli scavi e che, pur non ostacolando il transito dei carri, consentivano col brutto tempo di attraversare senza infangarsi la strada da un lato all’altro. Il suo profilo gli sembra di tipo greco e perciò gli appare indubbia la discendenza ellenica. Tutte le sue cognizioni scientifiche sul mondo antico si pongono un po’ alla volta al servizio di questa e di altre fantasie, riguardanti colei che doveva essere stata il modello del bassorilievo.
In seguito però gli s’impone un problema apparentemente scientifico che richiede una soluzione. Si tratta per lui di pronunciare un giudizio critico: “se, nella Gradiva, l’artista avesse riprodotto il modo di camminare in maniera rispondente alla vita reale”. Ma non riesce a riprodurre egli stesso questo modo di camminare, e nella sua ricerca della “realtà” egli giunge “ad effettuare, per chiarire la cosa, osservazioni personali sulla realtà vivente” (p. 26). Ciò lo costringe però a fare qualche cosa di assolutamente inabituale per lui. “Il sesso femminile era stato infatti per lui un concetto che riguardava soltanto oggetti marmorei o rinvenimenti di scavo; e le sue rappresentanti contemporanee non avevano ancora suscitato da parte sua la benché minima attenzione.” Il frequentare la società gli era sempre apparso soltanto un sacrificio a cui non ci si poteva purtroppo sottrarre. Guardava e ascoltava così poco le giovani signore che vi incontrava, che imbattendosi successivamente in qualcuna di loro passava oltre senza salutare: ciò che non contribuiva certo a metterlo in buona luce ai loro occhi. Ora però il compito scientifico che si era proposto lo costringeva a osservare con attenzione per la strada i piedi delle signore e delle ragazze, sia col bel tempo sia soprattutto con la pioggia, ogni volta che i piedi stessi diventavano visibili: attività questa che gli procurò da parte delle persone osservate sguardi in parte di collera in parte di incoraggiamento; “egli tuttavia non si rendeva conto né dell’una né dell’altra cosa” (p. 27). Il risultato di questi studi accurati fu ch’egli dovette convenire che il particolare modo di camminare della Gradiva non era riscontrabile nella realtà: fatto questo che gli procurò rammarico e delusione.
Subito dopo ebbe un sogno terribilmente affannoso, che lo trasportò nell’antica Pompei nel giorno dell’eruzione del Vesuvio e che lo fece assistere alla distruzione della città: “Mentre egli si trovava così a lato del Foro, presso il Tempio di Giove, vide improvvisamente poco distante avanti a sé la Gradiva; fino allora non gli era venuto in mente che potesse trovarsi là; ora però fu per lui del tutto naturale ch’essa fosse una pompeiana, che abitasse nella sua stessa città e – senza ch’egli lo sospettasse – proprio contemporaneamente a lui” (p. 28). L’angoscia per la sorte che su lei incombeva gli strappò un grido; al che la figura che procedeva imperturbata volse il capo verso di lui. Ma essa proseguì poi tranquilla il proprio cammino fino al portico del tempio,270 si sedette là su un gradino e abbassò lentamente il capo su quello, mentre il volto impallidiva sempre più come se si mutasse in marmo bianco. Quando egli giunse vicino a lei la trovò con un’espressione tranquilla come se dormisse distesa sull’ampio gradino, fino a che la pioggia di cenere non seppellì la sua figura.
Quando egli si svegliò, credette di avere ancora nelle orecchie le grida confuse degli abitanti di Pompei in cerca di salvezza e il cupo rimbombo del mare agitato. Ma anche quando, riacquistata la piena coscienza, gli fu possibile riconoscere in questi rumori le manifestazioni sonore della grande città che si ridestava, continuò per lungo tempo a credere nella realtà di quanto aveva sognato; e anche se alla fine gli riuscì di liberarsi dall’idea di aver assistito, quasi duemila anni prima, alla distruzione di Pompei, gli rimase però il convincimento sicuro che la Gradiva aveva vissuto a Pompei ed era rimasta là sepolta nell’anno 79. Le sue fantasie sulla Gradiva furono tanto esaltate dall’impressione lasciatagli dal sogno ch’egli d’ora in poi la pianse come un essere perduto.
Mentre preso da questi pensieri se ne stava affacciato alla finestra, la sua attenzione fu attratta da un canarino che alla finestra aperta della casa di fronte lanciava dalla gabbia il proprio canto. A un tratto egli, che sembrava non essersi ancora del tutto risvegliato dal suo sogno, fu pervaso da una scossa. Gli parve di vedere per la via una figura come quella della sua Gradiva, e gli sembrò anche di riconoscere il suo caratteristico modo di camminare; senza riflettere si precipitò nella strada per raggiungerla, e soltanto le risate e i commenti ironici della gente per il suo sconveniente abbigliamento mattutino lo risospinsero rapidamente in casa. In camera sua tornò a interessarsi al canarino che cantava in gabbia e fu indotto a istituire un confronto fra quello e sé stesso. Anch’egli era come in gabbia, si disse, ma per lui era più facile abbandonarla. Come per ulteriore effetto del sogno, ma pure sotto l’influenza della tepida aria di primavera, si venne formando in lui il proposito di fare un viaggio primaverile in Italia, per il quale fu presto trovato un pretesto scientifico, anche se “l’impulso a compiere questo viaggio era sorto in lui in base a un’impressione imprecisa” (p. 36).
Pianta degli scavi di Pompei all’inizio del secolo.
Il bassorilievo della Gradiva (Vaticano: Museo Chiaramonti).
Abbandoniamo per un momento questo viaggio la cui motivazione sembra straordinariamente tenue, e consideriamo più da vicino la personalità e il comportamento del nostro eroe. Egli ci appare per il momento incomprensibile e folle; né ancora immaginiamo per quale via la sua specifica follia troverà un nesso con quanto è propriamente umano, così da suscitare la nostra simpatia. È un privilegio del poeta poterci lasciare in questa incertezza; con la bellezza del suo linguaggio, con la delicatezza delle sue intuizioni, egli ci compensa fin d’ora della fiducia che gli prestiamo e della simpatia, per ora immeritata, che abbiamo per il suo eroe. Di un tale eroe egli ci dice ancora che, destinato già dalla tradizione familiare a divenire uno studioso del mondo antico, dopo che era rimasto solo e indipendente s’era completamente immerso nella sua scienza, allontanandosi del tutto dalla vita e dai suoi piaceri. Marmo e bronzo erano per lui l’unica realtà vivente capace di esprimere lo scopo e il valore della vita umana. Tuttavia la natura, forse con ottime intenzioni, gli aveva messo nel sangue un correttivo che nulla aveva a che fare con la scienza, e cioè una fantasia estremamente vivace, la quale non si limitava ad agire nei sogni, ma era spesso attiva anche durante la veglia. Una tale scissione della fantasia dalle facoltà razionali doveva predisporlo a divenire o poeta o nevrotico; egli apparteneva a quella specie di uomini il cui regno non è di questa terra. Così appunto gli era potuto capitare di rimanere fissato col suo interesse a un bassorilievo raffigurante una fanciulla che camminava in modo particolare, di concentrarvi le proprie fantasie, di darle un nome e un’origine e di collocare il personaggio da lui creato nella città di Pompei sepolta più di 1800 anni prima, e infine, dopo uno straordinario sogno d’angoscia, di elevare la fantasia dell’esistenza e della morte della fanciulla chiamata Gradiva a un delirio che doveva influenzare tutto il suo comportamento. Straordinaria e incomprensibile ci apparirebbe tale azione della fantasia, se dovessimo incontrarla nella vita reale. Ma dal momento che il nostro eroe è una creazione del poeta, vorremmo timidamente chiedere a quest’ultimo se a guidare la sua immaginazione siano state altre forze in luogo del suo semplice arbitrio.
Abbiamo lasciato il nostro eroe nel momento in cui egli si era lasciato indurre, apparentemente dal canto di un canarino, a intraprendere un viaggio in Italia, il cui vero motivo non gli era tuttavia per nulla chiaro. Apprendiamo in seguito che neppure la meta e lo scopo del viaggio sono nettamente determinati. Un’interna inquietudine e insoddisfazione lo conducono da Roma a Napoli, e da qui ancora più lontano. Egli s’imbatte in uno sciame di sposi in viaggio di nozze, è costretto a osservare le amorose coppie di “August” e di “Grete”, ed è assolutamente incapace di comprendere il loro modo di fare. Finisce col concludere che fra tutte le follie degli uomini “il matrimonio era la follia maggiore e più inconcepibile. Quanto all’insulso viaggio di nozze in Italia, esso rappresentava il degno coronamento di quella pazzia” (p. 38). A Roma, disturbato nel sonno dalla vicinanza di una tenera coppia, fugge improvvisamente a Napoli, ma solo per trovarvi altri “August” e “Grete”. Poiché gli sembra di capire dai loro discorsi che la maggioranza di questi colombi non ha in animo di nidificare fra le rovine di Pompei, ma piuttosto di dirigere il proprio volo verso Capri, decide di fare ciò ch’essi non fanno, e si ritrova pochi giorni dopo la sua partenza, “contro ogni attesa e ogni sua intenzione” (p. 45), a Pompei.
Non vi trova tuttavia la pace che cercava. La parte fino allora sostenuta dalle coppie di sposi, nel turbare il suo umore e nell’irritare i suoi sensi, viene ora assunta dalle mosche, nelle quali egli tende a vedere l’incarnazione del male assoluto e dell’assoluta inutilità. Le due specie di esseri tormentosi si fondono per lui in unità; alcune coppie di mosche gli ricordano le coppie in viaggio di nozze, e dicono probabilmente anch’esse nella loro lingua “August, amor mio” e “Mia dolce Grete”. Alla fine non può far a meno di riconoscere “che la sua insoddisfazione non doveva esser determinata soltanto da circostanze esterne, ma doveva trarre la sua origine anche da qualche cosa che era in lui stesso” (p. 47). “Si rendeva conto che era di malumore perché gli mancava qualche cosa, pur senza capire di che si trattasse.”
Il giorno appresso entra, attraverso l’“Ingresso”,271 a Pompei, e dopo aver congedato la guida se ne va senza meta per la città; lo strano è che in questa occasione non gli viene per nulla in mente di avere qualche tempo prima assistito in sogno alla distruzione di Pompei. Quando poi nella “sacra, calda”272 ora meridiana, che gli antichi consideravano l’ora degli spiriti, gli altri visitatori se ne vanno e di fronte a lui si stendono, deserti nel riflesso solare, gli ammassi di rovine, si desta in lui la capacità di riportarsi in quella vita sommersa, non però con l’aiuto della scienza: “Ciò che questa insegnava era una fredda concezione archeologica, ciò che parlava era un morto linguaggio filologico. Essi non aiutavano per nulla a capire qualche cosa con l’anima, lo spirito, il cuore, o come si voglia dire; e chi di questo avesse sentito in sé stesso il bisogno, doveva da solo, soltanto come individuo vivente, venire qui nel caldo silenzio del mezzogiorno fra i monumenti del passato, per guardare e per ascoltare non con gli occhi e con le orecchie del corpo. Allora... i morti si sarebbero levati e Pompei avrebbe ripreso a vivere” (p. 55).
Mentre egli fa così rivivere con la sua fantasia il passato, d’improvviso vede l’inconfondibile Gradiva del suo bassorilievo uscire da una casa e passare sull’altro lato della strada camminando leggermente sopra le pietre di lava del passaggio; proprio così come l’aveva veduta quella notte in sogno quand’essa si era disposta come per dormire sui gradini del Tempio di Apollo. “E insieme con questo ricordo gli venne per la prima volta in mente un’altra cosa: che egli, pur senza essere consapevole dentro di sé dell’impulso che lo aveva mosso, era venuto in Italia e, senza sostare a Roma e a Napoli, era arrivato fino a Pompei, proprio allo scopo di tentare di ritrovare qui tracce di lei. E questo in senso letterale, dato che essa per il suo particolare modo di camminare doveva aver lasciato nella cenere le impronte delle sue dita, inconfondibili rispetto a quelle di qualsiasi altro” (p. 57).
La tensione nella quale il poeta ci ha finora tenuto si accentua a questo punto e assume per un attimo il carattere di un penoso stato d’incertezza. Non solo il nostro eroe ha chiaramente perduto il suo equilibrio mentale, ma anche noi ci troviamo a disagio di fronte all’apparizione della Gradiva, che finora era un’immagine marmorea e poi un’immagine fantastica. Si tratta di un’allucinazione del nostro eroe, preso nell’inganno del delirio, oppure di uno spettro “reale”, o di una persona in carne e ossa? Non occorre che crediamo agli spettri per elencare queste possibilità. Il poeta, che ha chiamato il proprio racconto una “fantasia”, non ha finora avuto occasione di spiegarci se egli ci voglia lasciare nel nostro mondo, che si proclama ragionevole e dominato dalle leggi della scienza, o se ci vuole condurre in un altro mondo fantastico, in cui si attribuisce realtà agli spiriti e agli spettri. Come prova l’esempio dell’Amleto e del Macbeth, noi siamo pronti a seguirlo senza esitazione in tale mondo. Il delirio del nostro archeologo pieno di fantasia dovrebbe in tal caso essere giudicato con un metro differente. Anzi, se consideriamo l’inverosimiglianza della reale esistenza di una persona che riproduca fedelmente le sembianze dell’antica immagine di pietra, il nostro elenco di possibilità si riduce a questa alternativa: o allucinazione o spettro del mezzodì. Un piccolo particolare nel racconto elimina subito la prima possibilità. Una grande lucertola giace immobile ai raggi del sole; fugge però all’avvicinarsi del piede della Gradiva e sguscia via sulle pietre di lava della strada. Niente allucinazione dunque, ma qualche cosa al di fuori della mente del nostro sognatore. Ma la realtà di una rediviva può disturbare una lucertola?
Davanti alla Casa di Meleagro la Gradiva scompare. Non ci meravigliamo che Norbert Hanold continui il proprio delirio e che gli sembri che, avendo Pompei tutt’intorno a lui ripreso a vivere, anche la Gradiva sia risuscitata per recarsi nella casa da lei abitata prima del fatale giorno d’agosto del 79. Sottili ipotesi sulla personalità del proprietario da cui sarebbe derivato il nome della casa, e sui rapporti della Gradiva con lui, gli attraversano ora la mente, e mostrano che la sua scienza si è ormai posta completamente al servizio della sua fantasia.
Entrato nell’interno della casa, ritrova a un tratto nuovamente l’apparizione, seduta sui bassi gradini fra due gialle colonne. “Sulle sue ginocchia era steso qualche cosa di bianco che egli non riusciva bene a distinguere: gli parve un foglio di papiro...” Movendo dall’ultima ipotesi da lui formulata sull’origine di lei, egli la interpella in greco, nella trepidante attesa di sapere se a lei, nella sua esistenza apparente, fosse concesso il dono della parola. Poiché non risponde, egli passa a usare il latino. Allora dalle labbra sorridenti squilla una voce: “Se Lei vuol parlare con me, bisogna che lo faccia in tedesco.”
Quale vergogna per noi lettori! Dunque il poeta ha preso in giro anche noi e ci ha attirato – mediante il semplice riflesso del sole ardente di Pompei – in un piccolo delirio, per costringerci a essere più indulgenti nel giudizio su quel poveretto su cui arde davvero il sole del mezzogiorno. Ora però, guariti del nostro breve stato confusionale, sappiamo che la Gradiva è una ragazza tedesca in carne e ossa: proprio ciò volevamo scartare come l’ipotesi più inverosimile. E adesso, con un tranquillo senso di superiorità, possiamo attendere di conoscere quale rapporto vi sia fra la fanciulla e la sua immagine di pietra, e come il nostro giovane archeologo sia giunto alle fantasie riguardanti la personalità reale di lei.
Il nostro eroe non viene strappato così presto come noi dal suo delirio, giacché, come dice l’autore: “se la fede rendeva felice, bisognava pure che essa fosse ripagata con una bella somma di assurdità” (p. 105); e inoltre questo delirio ha probabilmente radici interne in lui, di cui non sappiamo nulla e che non esistono in noi. Egli ha veramente bisogno di un trattamento radicale per essere ricondotto alla realtà. Per il momento non può far altro che adattare il proprio delirio alla straordinaria esperienza testé fatta. La Gradiva, che è stata sepolta con tutto il resto nella distruzione di Pompei, non può essere altro che un fantasma di mezzodì, che ritorna in vita nella breve ora degli spiriti. Ma perché dopo la risposta datagli in tedesco egli si lascia sfuggire l’esclamazione: “Sapevo che la tua voce sarebbe stata così”? Non soltanto noi, ma anche la ragazza è indotta a chiederselo; e Hanold deve ammettere di non aver mai udito la sua voce, ma di aver solo aspettato di udirla quella volta in sogno quando l’aveva chiamata mentre essa si posava sui gradini del tempio per dormire. La prega di rifare il gesto di allora, ma essa si alza, gli volge uno strano sguardo e scompare dopo pochi passi fra le colonne della corte. Una bella farfalla aveva svolazzato poco prima un paio di volte attorno a lei; ed egli l’aveva interpretata come un messo dell’Ade che dovesse invitare al ritorno la defunta, essendo già trascorsa l’ora meridiana degli spiriti. Hanold riesce tuttavia a gridar dietro a lei che sta scomparendo: “Tornerai ancora qui domani a mezzogiorno?” Noi però che, adesso, azzardiamo più modeste interpretazioni, abbiamo l’impressione che la giovane abbia veduto nell’invito [di rifare il gesto] rivoltole da Hanold qualche cosa di sconveniente, e che, offesa, se ne sia andata: essa infatti non poteva saper nulla del sogno. Non potrebbe la sua sensibilità aver intuito la natura erotica di quella richiesta, che per Hanold traeva motivo dalla connessione con il suo sogno?
Dopo che la Gradiva è scomparsa il nostro eroe passa in rassegna tutti gli ospiti presenti a tavola all’Hôtel Diomede, e poi anche quelli dell’Hôtel Suisse; e può così dire a sé stesso che in nessuno dei due soli alberghi a lui noti di Pompei può trovarsi una persona la quale abbia la benché minima somiglianza con la Gradiva. Naturalmente avrebbe considerata assurda l’ipotesi di poter veramente incontrare la Gradiva in una delle due locande. Il vino maturato sul caldo suolo del Vesuvio contribuisce poi ad accentuare quello stato di ebbrezza nel quale aveva passato l’intera giornata.
Per il giorno seguente è solo stabilito che Hanold a mezzogiorno debba nuovamente trovarsi nella Casa di Meleagro; e nell’attesa di quell’ora egli entra, per una via non regolamentare oltre le vecchie mura della città, in Pompei. Un ramoscello di asfodelo con le bianche campanule gli appare abbastanza significativo, come fiore del mondo sotterraneo, per coglierlo e portarlo con sé. Durante la sua attesa però tutt’intera la scienza dell’antichità gli appare quanto di più inutile e di più indifferente ci sia al mondo, giacché un altro interesse si è completamente impadronito di lui, e cioè il problema “di quale essenza fosse l’apparenza corporea di un essere, come la Gradiva, contemporaneamente morto e vivo, anche se vivo solo durante l’ora meridiana degli spiriti” (pp. 69 sg.). Egli è anche ansioso perché teme di non incontrare oggi l’essere desiderato, in quanto un ritorno potrebbe forse esserle consentito solo dopo molto tempo; e quando la scorge di nuovo fra le colonne prende l’apparizione per un’illusione creata dalla propria fantasia, così che disperato esclama: “Oh perché non ci sei veramente, e non vivi ancora!” Ma questa volta il suo dubbio è eccessivo, giacché l’apparizione dispone di una voce, la quale gli domanda se egli vuol portarle il fiore bianco, e intraprende un lungo discorso con lui che è di nuovo del tutto disorientato.
A noi lettori che cominciamo già a interessarci alla Gradiva come persona vivente, il poeta comunica che il malumore e lo sdegno espressi il giorno avanti dal suo sguardo avevano ceduto ora a un’espressione di curiosità e d’interesse. Essa effettivamente lo interroga a lungo, vuole che egli le spieghi le frasi del giorno prima, gli chiede quando le era stato vicino mentre lei si sdraiava per dormire; viene così a sapere del sogno in cui lei era stata sepolta con la sua città, e poi del bassorilievo e della posizione del piede che era tanto piaciuta all’archeologo. Ora essa si dimostra anche disposta a far vedere il suo modo di camminare, in cui l’unica differenza che si riscontra rispetto all’originario modello della Gradiva è la sostituzione dei sandali con scarpe chiare color sabbia di pelle finissima: fatto questo che è da lei spiegato come un adattamento ai tempi moderni. Evidentemente essa stessa entra nel delirio di lui, di cui si fa esporre ogni particolare senza mai contraddirlo. Solo una volta sembra che un sentimento personale la strappi dal ruolo che si è assunta, ed è quando egli (che pensa al bassorilievo) sostiene di averla riconosciuta al primo sguardo. Poiché essa a questo punto della conversazione non sa ancora nulla del bassorilievo, le parole di Hanold provocano in lei un malinteso; essa si riprende però subito, e soltanto a noi sembra che alcuni dei suoi discorsi abbiano un doppio senso, che al di là del loro significato relativo al contenuto del delirio accennino anche a qualche cosa di reale e di attuale. Così ad esempio quando essa si rammarica che a lui non sia riuscito d’individuare per la strada il modo di camminare della Gradiva: “Peccato!... Ti saresti potuto forse risparmiare il lungo viaggio fin qui!” (p. 75). Essa viene anche a sapere ch’egli aveva chiamato “Gradiva” la sua immagine del bassorilievo, e gli dice il proprio nome reale, Zoe. “Il nome ti sta bene, ma ha per me il sapore amaro dell’ironia, giacché Zoe significa vita.” “Bisogna adattarsi all’inevitabile – risponde lei – e io mi sono abituata da gran tempo a essere morta.” Con la promessa di ritornare il giorno dopo a mezzodì nello stesso posto, essa si congeda da lui, dopo averlo ancora pregato di darle il ramoscello di asfodelo. “A quelle che sono più fortunate si danno rose di primavera, ma per me è giusto ricevere dalle tue mani il fiore dell’oblio” (p. 75). La tristezza ben si conviene a una che è morta da tanto tempo e che ritorna in vita solo per brevi ore.
Ora cominciamo a comprendere e ad avere qualche speranza. Se la giovane, sotto le cui sembianze la Gradiva è risorta, accetta così pienamente il delirio di Hanold, è probabile che essa lo faccia per liberarlo da quello. Non vi è alcuna altra strada per riuscirvi: contraddicendolo ci si chiuderebbe ogni possibilità. Anche un trattamento effettivo di un egual stato morboso reale non potrebbe procedere in altro modo che mettendosi inizialmente sul terreno stesso della costruzione delirante, per poi analizzarla nel modo più compiuto possibile. Se Zoe è la persona giusta per far ciò, sapremo presto come si cura un delirio corrispondente a quello del nostro eroe. Ci farebbe anche piacere sapere come un tale delirio insorga. E sarebbe una singolare coincidenza, tuttavia non senza esempi e paralleli, se trattamento e analisi del delirio coincidessero e se la spiegazione della sua genesi si ottenesse proprio nel corso della sua stessa scomposizione. Naturalmente viene anche il sospetto che il nostro caso patologico vada a finire in una “solita” storia d’amore; ma non bisogna poi disprezzare l’amore come forza terapeutica contro il delirio; e in fin dei conti l’infatuazione del nostro eroe per il suo bassorilievo della Gradiva non è già forse un vero innamoramento, anche se rivolto ancora a qualche cosa di passato e di inanimato?
Dopo la scomparsa della Gradiva, echeggia per un attimo da lontano come un grido, quasi una risata di un uccello che voli sulla città in rovina. Hanold, rimasto solo, raccoglie qualche cosa di bianco che la Gradiva aveva dimenticato: non è un foglio di papiro, ma un album di schizzi, con disegni a matita di vari particolari di Pompei. Per parte nostra diremmo che l’aver dimenticato il quadernetto in quel luogo è una sorta di pegno per il proprio ritorno: noi affermiamo infatti che non si dimentica nulla senza una nascosta ragione o un segreto motivo.
Il resto della giornata procura al nostro Hanold ogni genere di strane scoperte e costatazioni, che egli tuttavia non riesce a collegare tra loro. Nel muro del portico dove la Gradiva è scomparsa, scorge oggi una stretta spaccatura che è tuttavia sufficiente a lasciar passare una persona piuttosto esile. Egli riconosce che non vi era alcun bisogno che la Zoe-Gradiva sprofondasse sotto terra (cosa che ora gli pare tanto assurda da vergognarsi di averla pensata), ma che essa poteva aver utilizzato questa via per ritornare alla sua tomba. Gli sembra che una lieve ombra scompaia in fondo alla Strada dei Sepolcri, all’altezza della cosiddetta Villa di Diomede. Trasognato, come il giorno precedente, e immerso negli stessi pensieri, gironzola nei dintorni di Pompei. Pensa a quale possa essere la natura corporea della Zoe-Gradiva e che cosa si possa provare toccandole una mano. Un impulso particolare lo spingerebbe a proporsi di compiere un tale esperimento, e nello stesso tempo uno sgomento altrettanto intenso lo trattiene anche solo dal rappresentarselo. Su un pendio in pieno sole incontra un signore piuttosto anziano che dall’abbigliamento sembra essere uno zoologo o un botanico, e che pare intento a catturare qualche cosa. Questi si rivolge a lui e gli chiede: “S’interessa anche Lei alla faraglionense? Io non l’avrei creduto, ora però mi sembra probabile che essa non si trovi soltanto sui Faraglioni a Capri, ma che con la tenacia si possa trovare anche in terra ferma. Il mezzo usato dal collega Eimer273 per prenderle è veramente buono; l’ho già usato varie volte con ottimi risultati. Prego, stia fermo...” (p. 79). Il signore s’interrompe per tendere un laccio, fatto con un lungo filo d’erba, davanti a una fessura della roccia da cui sporge la testa azzurrina di una lucertola. Hanold pianta là il cacciatore di lucertole, formulando dentro di sé questo pensiero critico: è incredibile come la gente possa essere spinta a fare il lungo viaggio fino a Pompei da tanti strani e insensati motivi. Naturalmente egli non includeva in tale critica il suo proposito di rintracciare nella cenere di Pompei le impronte dei piedi della Gradiva. Gli era sembrato del resto di conoscere il volto di quel signore, come se lo avesse fuggevolmente veduto in uno dei due alberghi, e anche il discorso da lui tenuto aveva il carattere di un discorso rivolto a una persona conosciuta.
Continuando a girovagare, è condotto attraverso un sentiero a un caseggiato che non aveva mai veduto prima, e che risulta essere un terzo albergo, l’“Albergo del Sole”. L’oste disoccupato approfitta dell’occasione per fare un po’ di propaganda alla sua casa e ai tesori, provenienti dagli scavi, in essa contenuti. Racconta inoltre di essere stato presente al ritrovamento, nei pressi del Foro, della giovane coppia che di fronte alla catastrofe inevitabile si era stretta in un abbraccio e aveva atteso così la morte. Hanold aveva già sentito parlare in passato di ciò e aveva allora alzato le spalle considerandolo un’invenzione di qualche narratore fantasioso. Oggi però i discorsi dell’oste lo trovano credulo, e la sua credulità va ancora aumentando quando l’oste va a prendere un fermaglio metallico coperto di patina verde, che in sua presenza sarebbe stato raccolto dalla cenere accanto ai resti della ragazza. Egli acquista questo fermaglio senza esitazioni critiche, e quando uscendo dall’albergo vede a una finestra aperta un ramoscello d’asfodelo coperto di fiori bianchi, la vista dei fiori sepolcrali lo colpisce come una conferma dell’autenticità del suo nuovo acquisto.
Con questo fermaglio però un nuovo delirio s’impossessa di lui, o piuttosto al vecchio delirio si aggiunge un nuovo elemento: ciò che apparentemente non è di buon auspicio per la terapia iniziata. Nei pressi del Foro era stata disseppellita negli scavi una giovane coppia di amanti strettamente abbracciati, ma nella stessa zona, presso il Tempio di Apollo, egli, nel sogno, aveva veduto la Gradiva distendersi per dormire. Non poteva darsi che essa in realtà fosse andata ancora più avanti, oltre il Foro, per incontrarsi con qualcuno e che poi fossero morti insieme? Quest’ipotesi fa sorgere in lui un sentimento doloroso che potremmo forse paragonare alla gelosia. Egli lo combatte riflettendo sull’improbabilità di questa combinazione e riesce a tranquillizzarsi abbastanza da tornare al Diomede per la cena. Due ospiti nuovi arrivati, un lui e una lei, che egli in base a una certa rassomiglianza – nonostante il diverso colore dei capelli – prende per fratelli, attirano la sua attenzione. I due sono le prime persone incontrate nel viaggio che suscitino la sua simpatia. Una rosa sorrentina rossa portata dalla giovane risveglia in lui un certo ricordo, ch’egli non riesce tuttavia a precisare. Alla fine va a letto e fa un sogno strano e insensato, ma chiaramente tratto dagli avvenimenti del giorno: “In qualche posto al sole sedeva la Gradiva, faceva con un filo d’erba un laccio per prendere con esso una lucertola, e diceva: ‘Prego sta fermo... la collega ha ragione, il mezzo è veramente buono, ed è stato usato con successo’” (p. 83). Ancora nel sonno egli si difende da questo sogno pensando criticamente che era tutta una follia, e gli riesce di liberarsene con l’aiuto di un invisibile uccellino, che lancia un trillo simile a una risatina e si porta via la lucertola nel becco.
Nonostante tutto questo scompiglio nel sogno, egli si sveglia con la mente più chiara e più salda. Un cespuglio di rose, con i fiori simili a quello che aveva veduto ieri sul petto della giovane, gli fa ricordare che durante la notte qualcuno gli aveva detto che di primavera si offrono rose. Coglie distrattamente alcune rose, e quest’azione si collega a qualche cosa che esercita sulla sua mente un effetto alleviatore. Liberatosi dal timore degli uomini, entra a Pompei per la via ordinaria, con le rose, il fermaglio e il quaderno di schizzi, immerso in vari problemi riguardanti la Gradiva. Il vecchio delirio comincia già a sgretolarsi, ed egli dubita ora che la Gradiva possa fermarsi a Pompei soltanto di mezzodì e non anche in altre ore. L’accento del delirio si sposta sulla parte aggiunta per ultima, e la gelosia che vi è connessa lo tormenta sotto vari travestimenti. Quasi desidererebbe che l’apparizione rimanga visibile ai suoi occhi soltanto, e ch’essa si sottragga alla percezione altrui, così ch’egli possa considerarla sua proprietà esclusiva. Mentre se ne va in giro aspettando il mezzogiorno, fa un incontro inatteso. Nella Casa del Fauno s’imbatte in due figure che in un cantuccio, ritenendosi sicure di non essere vedute, si tengono abbracciate con le bocche congiunte. Con meraviglia riconosce in esse la simpatica coppia della sera innanzi. Ma per due fratelli il loro comportamento attuale, l’abbraccio e il bacio, paiono a lui di eccessiva durata; dunque si tratta di una coppia di innamorati, probabilmente di giovani sposi, ancora un August e una Grete. Stranamente, però, questa visione ora suscita in lui soltanto un senso piacevole, ed egli, temendo di poter disturbare un atto di segreta devozione, si ritrae inosservato. Si era ristabilito in lui un senso di rispetto che per molto tempo gli era mancato.
Giunto alla Casa di Meleagro, il timore di poter incontrare la Gradiva in compagnia di un altro lo riprende in modo così forte che, quand’essa gli appare, non trova altro modo per salutarla che chiedendo: “Sei sola?” Con fatica si lascia condurre ad ammettere di aver colto le rose proprio per lei, e le confida l’ultimo delirio, quello ch’essa sia la giovane trovata presso il Foro nell’abbraccio amoroso e alla quale il fermaglio verde avrebbe appartenuto. Non senza ironia essa gli chiede se quel fermaglio lo aveva trovato al sole. Questo (da lei nominato con la parola italiana) fa delle volte scherzi del genere. Contro la confusione ch’egli confessa di avere in testa, essa gli propone di dividere con lui il proprio spuntino e gli offre metà di un pane bianco avvolto in carta velina, di cui essa stessa addenta l’altra metà con evidente appetito. I suoi denti perfetti luccicano fra le labbra e producono nell’addentare il pane un lieve rumore crocchiante. Alla sua domanda: “Ho l’impressione come se avessimo già altra volta, duemila anni fa, mangiato insieme il nostro pane. Riesci a ricordarlo? “ (p. 92), egli non sa rispondere. Tuttavia l’azione ristoratrice del cibo e i molti segni di presenza reale ch’essa gli dà non mancano di produrre il loro effetto. La ragione in lui si sveglia mettendo in crisi l’idea delirante che la Gradiva sia soltanto uno spettro del mezzodì; benché qualcuno potrebbe obiettare ch’essa stessa gli aveva detto proprio ora di aver diviso la propria colazione con lui già duemila anni prima. In un tale conflitto gli viene in mente, come mezzo decisivo, un esperimento, ch’egli esegue con scaltrezza e con rinnovato coraggio. La mano sinistra di lei, con le sue dita sottili, poggia tranquilla sul ginocchio, e una di quelle mosche, contro la cui protervia e inutilità egli si era prima tanto adirato, si posa su quella mano. Di scatto la mano di Hanold si leva in alto per battere insieme, con un colpo per nulla delicato, sulla mosca e sulla mano di lei.
Quest’audace esperimento produce su di lui un duplice effetto. Anzitutto la lieta costatazione di aver toccato una mano umana indubbiamente reale, calda e vivente; ma poi anche un rimprovero che lo spaventa e che lo fa alzare dal gradino dove era seduto. Giacché dalla bocca della Gradiva, dopo che essa si è rimessa dalla sorpresa, risuonano le parole: “Tu sei pazzo da legare, Norbert Hanold!” Il chiamare un dormiente o un sonnambulo col suo nome è notoriamente il miglior mezzo per risvegliarlo. Purtroppo però non ci è dato osservare l’effetto prodotto su Norbert Hanold dall’essersi sentito chiamare dalla Gradiva con quel suo nome che egli non aveva comunicato ad alcuno in Pompei. Giacché in questo critico momento entra improvvisamente in scena la simpatica coppia della Casa del Fauno, e la giovane signora con tono piacevolmente sorpreso esclama: “Zoe! Anche tu sei qui? E tu pure in viaggio di nozze? Non me ne avevi scritto nulla!” Di fronte a questa nuova prova della realtà vivente della Gradiva, Hanold prende la fuga.
Neppure la Zoe-Gradiva è troppo gradevolmente sorpresa da questa inaspettata visita, che la interrompe in ciò che, a quanto pare, è un compito importante. Ma, riprendendosi, essa risponde alla domanda con disinvoltura, mediante un discorso col quale chiarisce all’amica, ma ancor più a noi, la situazione, e con cui riesce a liberarsi dalla coppia. Essa fa le proprie congratulazioni, ma precisa di non essere in viaggio di nozze: “Il giovane signore che ora se n’è andato si è ammalato, così mi sembra, di un eccesso di fantasia: egli ritiene che una mosca gli ronzi nella testa; del resto ciascuno ha una qualche specie d’insetto dentro. Io ho l’obbligo d’intendermi alquanto di entomologia, e posso quindi essere un po’ utile per simili stati. Mio padre e io abitiamo al ‘Sole’. Anche lui ha avuto un attacco improvviso, e ciò gli ha fornito la bella occasione di condurmi qui con lui: a condizione però che io passi il tempo per mio conto a Pompei, senza interferire nelle sue faccende. Mi son detta che avrei ben scavato qualche cosa d’interessante qui anche da sola. Quanto a ciò che ho trovato... – mi riferisco al piacere d’incontrarti, Gisa – non ci avevo contato” (p. 96). Ora però essa deve affrettarsi per far compagnia al padre al tavolo del “Sole”. E così si allontana dopo averci rivelato di essere la figlia dello zoologo cacciatore di lucertole, e averci accennato, con ogni sorta di doppi sensi, alle sue intenzioni terapeutiche e ad altri suoi propositi segreti.
La direzione da lei presa non è però quella dell’Albergo del Sole dove il padre l’attende. Anche ad essa pare come se nei dintorni della Villa di Diomede uno spettro stia cercando la sua tomba e scompaia sotto uno dei monumenti funebri, e perciò dirige i suoi passi, col piede ogni volta sollevato quasi perpendicolarmente, verso la Strada dei Sepolcri. Là, nella Villa di Diomede si era rifugiato, nel suo smarrimento e nella sua vergogna, anche Hanold; e vagava ora senza sosta su e giù per il portico del giardino, occupato a risolvere con ogni sforzo mentale gli elementi residui del suo problema. Una cosa gli era divenuta assolutamente chiara: era stato del tutto insensato e pazzo ritenendo di essersi intrattenuto con una giovane pompeiana ritornata in vita in una forma più o meno corporea; e questa chiara consapevolezza della propria follia costituiva indubbiamente un progresso essenziale sulla via del ritorno alla ragione. Ma d’altra parte quest’essere vivente, con cui anche altri s’intrattenevano come si fa con una persona in carne e ossa, era la Gradiva; e inoltre essa conosceva il suo nome: per risolvere quest’enigma la sua ragione, appena ridestata, non era ancora abbastanza forte. Non era inoltre sufficientemente calmo emotivamente per mostrarsi capace di affrontare un compito così difficile. Meglio sarebbe stato esser rimasto sepolto con gli altri duemila anni prima nella Villa di Diomede, che non correre il rischio di incontrare ancora la Zoe-Gradiva.
Ma insieme una violenta nostalgia di rivederla contrasta con il residuo di inclinazione alla fuga che ancora persiste in lui.
Mentre sta girando a uno dei quattro angoli del portico, si volge di scatto. Su un frammento di muro stava seduta una delle fanciulle che avevano trovato la morte qui nella Villa di Diomede. Ma si tratta dell’ultimo tentativo, presto respinto, per fuggire nel regno del delirio. No, è la Gradiva, qui giunta evidentemente per offrirgli l’ultima parte del suo trattamento terapeutico. Essa interpreta giustamente il primo movimento istintivo che egli fa come un tentativo di abbandonare il campo, e lo avverte che non è possibile che se ne vada ora perché fuori ha cominciato a scrosciare un terribile acquazzone. Essa comincia in modo implacabile il suo interrogatorio chiedendogli che cosa aveva inteso di fare con la mosca sulla sua mano. Egli non trova il coraggio di risponderle, né col Lei né col tu; ma riesce a porle egualmente quella domanda decisiva, per lui essenziale:
“Io avevo, come è stato detto da qualcuno, un po’ di confusione in testa; e chiedo scusa per la mano, se ho... non posso capire come ho potuto essere tanto sciocco... ma non riesco neppure a capire come colei a cui la mano appartiene abbia potuto rimproverarmi la mia... la mia stoltezza, chiamandomi per nome” (pp. 101 sg.).
“La tua comprensione non è ancora giunta a questo, Norbert Hanold. Non me ne posso del resto meravigliare, giacché mi ci hai abituata da molto tempo. Per farne l’esperienza non avrei avuto bisogno di venire qui lontano, fino a Pompei; e tu avresti potuto darmene una conferma restando più di cento miglia più vicino.”
“Cento miglia più vicino; un po’ di traverso, di fronte alla tua abitazione, nella casa d’angolo; alla mia finestra vi è una gabbietta con un canarino”, spiega essa a lui che ancora non riesce a capire.
L’ultima parola lo colpisce come un ricordo che venga da molto lontano. Si tratta dunque dello stesso uccellino il cui canto aveva provocato la sua decisione di fare il viaggio in Italia.
“Nella casa abita mio padre, il professore di zoologia Richard Bertgang.”
Come vicina di casa, dunque, essa conosceva la sua persona e il suo nome. Noi lettori rischiamo di rimanere delusi per una soluzione troppo futile, indegna della nostra attesa.
Norbert Hanold non dà ancora prova di aver riacquistato una piena padronanza di sé, esclamando: “Ma allora Lei è... Lei è... la signorina Zoe Bertgang! Ma quella era completamente diversa...”
La risposta della signorina Bertgang ci chiarisce ora che tra i due vi erano stati anche altri rapporti oltre a quello del vicinato. Essa sa difendere il tu confidenziale, che egli aveva usato con naturalezza di fronte allo spettro di mezzodì e che invece ritira di fronte alla donna vivente, ma nei confronti del quale essa fa valere vecchi diritti. “Se ritieni che vada meglio, posso anch’io adoperare il Lei, ma il tu mi viene più spontaneo alle labbra. Può darsi che quando andavamo ogni giorno in giro insieme da buoni amici, e anche per cambiare ci bisticciavamo e ci pattuffavamo, io fossi diversa. Ma se Lei negli ultimi anni mi avesse degnata di uno sguardo, i Suoi occhi forse avrebbero veduto che già da vario tempo il mio aspetto è questo...”
Un’amicizia di bambini, forse anche un amore di bimbi, c’era stato dunque tra i due, e da questo il “tu” traeva i propri diritti. Ma questa soluzione non è altrettanto futile della precedente? Si può però andare più a fondo e scorgere come questa relazione d’infanzia dia un’insospettata spiegazione di alcuni aspetti di quanto è accaduto tra i due nei loro attuali rapporti. Quel colpo sulla mano della Zoe-Gradiva, che Norbert Hanold razionalizza così bene col bisogno di risolvere sperimentalmente il problema della corporeità dell’apparizione, non è d’altra parte molto simile al risvegliarsi di quell’impulso al “pattuffarsi” di cui le parole di Zoe ci attestano il predominio durante l’infanzia? E quando la Gradiva rivolge all’archeologo la domanda se egli ricordi di aver già duemila anni prima diviso con lei la sua colazione, non diventa questa domanda, in sé assurda, improvvisamente sensata, se al passato storico sostituiamo il passato personale, e cioè ancora quell’età infantile i cui ricordi sembrano essere tuttora vivi nella ragazza, mentre sono dimenticati dal giovanotto? E non ci balena forse improvvisamente l’idea che le fantasie del giovane archeologo sulla sua Gradiva possano essere l’eco di questi ricordi d’infanzia dimenticati? In tal caso le produzioni della sua fantasia non sarebbero arbitrarie, ma determinate a sua insaputa da quel materiale d’impressioni da lui dimenticate e tuttavia tuttora in lui presenti ed efficaci. Noi dovremmo poter dimostrare questa origine delle fantasie nei particolari, anche se solo basandoci su supposizioni. Se ad esempio la Gradiva deve assolutamente essere di origine greca, essere la figlia di un uomo ragguardevole, forse di un sacerdote di Cerere, questo ha l’aria di essere il tardo effetto della conoscenza del suo nome greco Zoe e della sua appartenenza alla famiglia di un professore di zoologia. Ma se le fantasie di Hanold sono ricordi trasformati, possiamo attenderci di trovare in quanto racconta Zoe Bertgang l’indicazione delle fonti di queste fantasie. Stiamo dunque a sentire; essa ci ha parlato di un’intima amicizia negli anni dell’infanzia, vedremo ora quali ulteriori sviluppi hanno preso tali relazioni nei due.
“Una volta, e così fino all’adolescenza, quando, non so perché, noi ragazze veniamo chiamate in tedesco ‘pesciolini da frittura’, io avevo per Lei un grande affetto; e pensavo che non avrei mai potuto trovare al mondo un amico più caro. Non avevo né madre né sorella o fratello; e quanto a mio padre, una Caecilia conservata sotto spirito era indubbiamente per lui più interessante di me. Ma qualche cosa bisogna pure avere, pareva a me anche da ragazzina, con cui occupare il proprio pensiero e tutto il resto. Questo qualche cosa era allora per me Lei; ma quando Lei fu preso dalla scienza del mondo antico, feci la scoperta che tu... mi scusi, ma questa novità del Lei convenzionale mi suona male, e neppure corrisponde al mio pensiero... Volevo dire che era evidente che tu eri divenuto un uomo insopportabile: il quale, almeno per me, non aveva più né occhi né lingua, e che più non conservava alcun ricordo della nostra amicizia di bimbi. Perciò ero completamente diversa nell’aspetto; perché quando talora ci trovavamo in società, e ciò è accaduto una volta anche quest’inverno, tu non mi vedevi né mi accadeva di udire la tua voce: cosa questa del resto che non era un mio privilegio, dato che facevi lo stesso con tutti. Io ero pura aria per te; e tu con quel tuo ciuffo biondo, che tante volte ti ho tirato quando eravamo piccoli, eri divenuto così tedioso, arido e taciturno da sembrare un cacatua impagliato; e insieme grandioso come un... Archaeopteryx; sì, così si chiama quel mostro volante fossile che è stato trovato negli scavi. Però, che tu avessi in testa una fantasia altrettanto grandiosa, per considerarmi qui a Pompei come qualche cosa anche di tratto dagli scavi e di riesumato... no, non me lo sarei aspettato da te; e quando mi sei capitato improvvisamente di fronte, ho dovuto faticare assai a comprendere quale incredibile storia la tua immaginazione fosse venuta fabbricando. Poi la cosa mi ha divertito e, quantunque fosse del tutto pazza, non mi è neppure dispiaciuta. Giacché, come ho detto, non lo avrei mai supposto in te.”
Così essa ci spiega abbastanza chiaramente ciò che per entrambi era accaduto della loro amicizia di bambini, col passar degli anni. Per lei aveva assunto il carattere di un tenero innamoramento, giacché qualche cosa bisogna pure avere, da fanciulla, a cui dedicare il proprio cuore. La signorina Zoe, la personificazione della saggezza e della chiarezza, ci rende trasparente anche la sua vita interiore. Se per una fanciulla normale è una regola generale il rivolgere dapprima il proprio affetto al padre, ciò doveva valere in modo particolare per lei che, all’infuori del padre, non aveva in famiglia alcun altro. Ma a questo padre non rimaneva più nulla da darle, dato che gli oggetti della sua scienza avevano monopolizzato ogni suo interesse. Perciò essa aveva dovuto guardarsi attorno per un’altra persona e si era legata di particolare affetto col suo compagno di giuochi. Ma quando anche costui non ebbe più occhi per lei, il suo amore non ne fu turbato, ma anzi si accentuò poiché egli era divenuto simile al padre, assorbito come lui dalla scienza e da questa trattenuto lontano dalla vita e da Zoe. Così le era riuscito di rimanere fedele nell’infedeltà, ritrovando nell’amato il proprio padre, comprendendoli entrambi nello stesso sentimento o, si può dire, identificandoli entrambi nel proprio modo di sentire. Da che cosa ricaviamo la giustificazione di questa nostra breve analisi psicologica che potrebbe facilmente apparire arbitraria? Da un unico, ma assai caratteristico, particolare che il poeta ci fornisce. Quando Zoe descrive il cambiamento, per lei così doloroso, compiuto dal suo compagno di giuochi, essa lo apostrofa paragonandolo a un Archaeopteryx, e cioè a quel mostro volante che appartiene all’archeologia della zoologia. Essa ha trovato in tal modo un’unica espressione concreta per l’identificazione delle due persone; e il suo risentimento con la stessa parola colpisce tanto l’amato quanto il padre. L’Archaeopteryx è per così dire la rappresentazione di compromesso o intermedia,274 in cui collimano il pensiero della follia dell’amato con quello dell’analoga follia del padre.
In modo diverso si erano svolte le cose per il giovanotto. L’archeologia lo aveva sopraffatto e gli aveva lasciato solo un interesse per donne di pietra e di bronzo. L’amicizia dell’epoca infantile, invece che tramutarsi in passione, era tramontata; e i ricordi che vi si riferivano erano stati dimenticati così profondamente ch’egli più non riconosceva e notava la sua amica di un tempo quando gli capitava di incontrarla in società. Per la verità, se consideriamo il successivo sviluppo degli avvenimenti, possiamo dubitare che il termine “dimenticanza” sia la definizione psicologica esatta del destino di questi ricordi nel nostro archeologo. Vi è un modo di dimenticare che si caratterizza per la difficoltà con cui il ricordo viene risvegliato anche sotto intense sollecitazioni esterne, come se una resistenza interna lottasse contro il suo ritorno. A questo modo di dimenticare è stato dato in psicopatologia il nome di “rimozione”; il caso che il nostro poeta ci descrive sembra appunto essere un esempio di rimozione. Ora, in generale non sappiamo se il dimenticare un’impressione sia collegato con la scomparsa della sua traccia mnestica nella vita psichica; della rimozione però possiamo dire con certezza ch’essa non coincide con la scomparsa o con la dissoluzione del ricordo. Quanto è stato rimosso non può in genere imporsi senz’altro sotto forma di ricordo, ma resta capace di agire e di produrre effetti, e sotto l’influsso di qualche evento esterno può un giorno produrre conseguenze psichiche, che si possono considerare trasformazioni e derivati del ricordo dimenticato e che restano incomprensibili se non li si considera in questo modo. Nelle fantasie di Norbert Hanold sulla Gradiva abbiamo testé ritenuto di riconoscere derivazioni dei suoi ricordi rimossi sull’amicizia d’infanzia con Zoe Bertgang. Ci si può attendere con particolare regolarità un tale ritorno del rimosso, quando alle impressioni rimosse sia rimasto fedele il modo di sentire erotico di una persona, quando cioè sia stata colpita da rimozione la vita amorosa della persona stessa. Si può pertanto dar ragione al vecchio detto latino (coniato forse originariamente per l’espulsione attraverso influssi esterni, anzi che per conflitti interiori): Naturam furca expellas, semper redibit.275 Ma il motto non dice tutto; esprime semplicemente il fatto del ritorno di una parte della natura rimossa, e non descrive il modo veramente singolare di questo ritorno, che avviene come per un malizioso tradimento. Proprio ciò che è stato scelto come mezzo di rimozione – come la furca del proverbio – diventa il portatore di ciò che ritorna; nel rimovente stesso e dietro ad esso si afferma alla fine vittorioso il rimosso. Una nota acquaforte di Félicien Rops276 illustra, in modo assai più chiaro di quanto si possa fare con numerose spiegazioni, questo fatto così poco osservato e così degno invece di considerazione, e precisamente lo illustra per il tipico caso della rimozione nella vita dei santi e degli asceti. Un monaco asceta – certo per sfuggire alle seduzioni del mondo – si rifugia ai piedi di un’immagine del Redentore crocifisso. Ma questa croce scompare come un’ombra, e al suo posto sorge invece, radiosa, l’immagine di una voluttuosa donna nuda nella stessa posizione crocifissa. Altri pittori, con minore acume psicologico, in analoghe rappresentazioni della tentazione hanno posto il peccato, insolente e trionfante, in qualche posizione a lato del Redentore in croce. Solo Rops gli ha lasciato prendere il posto stesso del Redentore sulla croce; egli sembra aver saputo che quando il rimosso ritorna, sorge dallo stesso elemento rimovente.
Vale la pena di soffermarsi su ciò, per rendersi conto di quanto divenga delicata, in casi patologici, la vita psichica di un uomo in stato di rimozione, per l’avvicinamento del rimosso, e di come siano sufficienti lievi e insignificanti rassomiglianze perché il rimosso stesso riesca a imporsi dietro e attraverso il rimovente. Ho avuto occasione una volta di curare un giovane, quasi un ragazzo, che dopo esser venuto a conoscenza per la prima volta involontariamente dei processi sessuali, aveva preso la fuga da tutti i desideri che cominciavano a sorgere in lui, e si era servito per ciò di vari mezzi di rimozione: aveva accentuato la sua diligenza nello studio, aveva esagerato il suo attaccamento alla madre e aveva in genere assunto un comportamento infantile. Non voglio qui esporre nei particolari come proprio nel rapporto con la madre la sessualità rimossa tornasse ad affermarsi, ma voglio descrivere l’esempio più strano e più raro di come un altro dei suoi baluardi sia crollato in un’occasione che si stenterebbe a considerare sufficiente. Quale fattore allontanante dalle cose sessuali, la matematica gode la maggiore rinomanza. Già Jean-Jacques Rousseau si era sentito consigliare da una donna insoddisfatta di lui: “Lascia le donne e studia le matematiche.”277 Così anche il nostro fuggitivo si era gettato con particolare ardore sulla matematica e sulla geometria che apprendeva a scuola, finché la sua facoltà di apprensione un giorno si paralizzò improvvisamente di fronte ad alcuni problemi apparentemente banali. Si poté stabilire il testo esatto per due di tali problemi: Due corpi si urtano, l’uno con velocità... eccetera. E: In un cilindro di diametro m, iscrivere un cono... eccetera. Per effetto di queste allusioni (che nessun altro avrebbe trovato appariscenti) ai fatti del sesso, egli si sentì tradito anche dalla matematica e prese la fuga anche da essa.
Se Norbert Hanold fosse una persona ricavata dalla vita reale, la quale avesse bandito l’amore e il ricordo della sua amicizia d’infanzia mediante l’archeologia, sarebbe senz’altro normale e corretto che proprio un antico bassorilievo risvegliasse in lui il ricordo dimenticato di colei ch’egli aveva amato con sentimenti di fanciullo; sarebbe un meritato destino per lui l’innamorarsi dell’immagine di pietra della Gradiva, dietro la quale, per un’inspiegata rassomiglianza, traspare la Zoe vivente e da lui trascurata.
La signorina Zoe sembra condividere la nostra interpretazione del delirio del giovane archeologo, perché il compiacimento da lei espresso alla fine della sua “franca, particolareggiata e istruttiva filippica” non può aver altro fondamento che la premura con cui essa riferì a sé stessa l’interesse di lui per la Gradiva fin dall’inizio. Era precisamente questo che non si era aspettata da lui, e ch’essa tuttavia riconobbe per ciò che era, nonostante tutti i travestimenti del delirio. Per lui però il trattamento psichico da parte di lei ebbe tutto il suo effetto benefico; egli si sentiva libero, perché ora il delirio era sostituito da una realtà, della quale il delirio stesso poteva essere solo un’immagine deformata e inadeguata. Ora infatti egli non aveva più difficoltà a ricordare e a riconoscerla come la sua cara, lieta e saggia compagna, che in fondo non era cambiata per nulla. Ma vi era qualche cosa d’altro che egli trovava veramente straordinario...
“Che uno debba prima morire, per divenire vivo? – suggerì la ragazza. – Ma per gli archeologi questo è ben necessario” (p. 106). Essa evidentemente non gli aveva ancora perdonato di essere giunto, dall’amicizia di fanciulli alla nuova relazione che stava per annodarsi, passando attraverso la via indiretta dell’archeologia.
“No, io pensavo al tuo nome... Perché Bertgang equivale a Gradiva, e significa: ‘colei che risplende nel camminare’” (p. 106).278
Neppure noi eravamo preparati a ciò. Il nostro eroe incomincia a elevarsi dalla sua condizione umiliante e a esercitare un ruolo attivo. È evidentemente del tutto guarito dal suo delirio, si pone al disopra del delirio stesso, e lo dimostra rompendo egli stesso gli ultimi fili del contesto delirante. Proprio così si comportano anche gli ammalati reali, che vengano liberati dalla coazione dei loro pensieri deliranti mediante la scoperta degli elementi rimossi in essi nascosti. Se hanno capito, espongono essi stessi le soluzioni degli enigmi ultimi e più importanti della loro strana condizione in idee che vengono loro in mente all’improvviso. Avevamo già supposto che l’origine greca della leggendaria Gradiva fosse un oscuro effetto del nome greco Zoe, ma non ci eravamo arrischiati a interpretare lo stesso nome “Gradiva”, che supponevamo una semplice libera creazione della fantasia di Norbert Hanold. Ed ecco che proprio questo nome si rivela un derivato, anzi proprio una traduzione, del cognome rimosso dell’amata durante l’infanzia e apparentemente dimenticata.
La ricostruzione e la risoluzione del delirio sono ora terminati. Ciò che l’autore aggiunge deve solo servire a concludere il racconto in modo armonico. Nel seguito ci può ora soltanto commuovere dolcemente il fatto che la riabilitazione dell’uomo, che doveva prima sostenere una parte miserevole perché bisognoso di cura, progredisce tanto da rendergli possibile di suscitare in lei qualcuno di quei sentimenti di cui finora aveva sofferto egli stesso. Così accade che egli la renda gelosa nominando la simpatica giovane signora che aveva interrotto il loro colloquio nella Casa di Meleagro, e affermando ch’essa era stata la prima donna che gli era particolarmente piaciuta. Quando poi Zoe vuol prendere freddamente congedo, – osservando che ormai tutto è tornato alla ragione e soprattutto lei stessa; che egli poteva andare a cercare Gisa Hartleben, o come altro essa ora si chiami, per offrirle la sua competenza scientifica in relazione allo scopo del suo soggiorno a Pompei; che ora però essa deve andarsene all’Albergo del Sole dove il padre l’aspetta per il pasto meridiano; che forse si rincontreranno una volta o l’altra in società, in Germania o sulla luna, – egli ancora una volta riesce a prendere a pretesto la fastidiosa mosca per impossessarsi prima della sua guancia e poi delle sue labbra, mettendo in atto un’aggressione che costituisce un dovere dell’uomo nel giuoco amoroso. Una volta sola sembra sorgere un’ombra sulla loro felicità, quando Zoe accenna che ora deve proprio andarsene, perché il padre, al “Sole”, non patisca la fame. “Tuo padre... ma che cosa dirà...” (p. 109). Ma la ragazza sa acquietare rapidamente quella preoccupazione. “Mio padre probabilmente non dirà nulla; non costituisco un elemento indispensabile per la sua collezione zoologica; se lo fossi stata il mio cuore non si sarebbe probabilmente attaccato in modo tanto sconsiderato a te.” Se tuttavia il padre dovesse eccezionalmente essere di altro avviso, ci sarebbe un mezzo sicuro. Basterebbe che Hanold andasse a Capri per catturarvi una Lacerta faraglionensis (impratichendosi al caso col mignolo di lei nella tecnica della cattura), che lasciasse quindi l’animale libero qui, che lo riacchiappasse sotto gli occhi dello zoologo, lasciando a questi la scelta tra la faraglionense sulla terraferma e la figlia. Una proposta in cui all’ironia, come si vede, è congiunta una certa amarezza, e nello stesso tempo un avvertimento allo sposo di non seguire troppo fedelmente quel modello paterno in base al quale l’amata lo aveva prescelto. Norbert Hanold ci tranquillizza anche da questo lato, e la grande trasformazione che si è compiuta in lui viene espressa con ogni genere d’indizi apparentemente insignificanti. Egli annuncia il proposito di fare il viaggio di nozze con la sua Zoe in Italia e a Pompei, come se non si fosse mai irritato con gli August e le Grete in viaggio nuziale. Gli è totalmente svanito dalla memoria ciò che aveva provato per queste coppie felici, che in modo così inutile si allontanano più di cento miglia dalla loro patria tedesca. Il poeta ha certamente ragione nel presentare tale indebolimento di memoria come il segno più prezioso di un cambiamento d’animo. Zoe, al programma di viaggio proposto dal “suo amico d’infanzia, anch’esso in certo modo dissepolto dalla cenere” (p. 111), risponde che non si sente ancora abbastanza viva per prendere una tale decisione geografica.
La bella realtà ha ora vinto il delirio; tuttavia a quest’ultimo spetta ancora un onore prima che i due abbandonino Pompei. Giunti alla Porta di Ercolano, dove all’inizio della Strada consolare un passaggio con le antiche pietre attraversa la strada, Norbert Hanold si arresta e prega la ragazza di andare avanti. Essa lo comprende “e sollevando un po’ l’abito con la mano sinistra, Zoe Bertgang, Gradiva rediviva, avvolta dallo sguardo trasognato di lui, attraversò le pietre del passaggio fino all’altro lato della strada, sotto la luce del sole, col suo caratteristico passo agile e tranquillo”. Col trionfo dell’amore, trova ora riconoscimento anche quanto vi era di bello e prezioso nel delirio.
Con l’ultima similitudine dell’“amico d’infanzia dissepolto dalla cenere” il poeta ci fornisce la chiave del simbolismo di cui il delirio del nostro eroe si era servito per travestire il ricordo rimosso. Per la rimozione, la quale rende inaccessibile e contemporaneamente conserva qualche cosa di psichico, non vi è in realtà analogia migliore del destino subito da Pompei, che è stata sepolta ed è ritornata alla luce a opera della vanga. Proprio per questo il giovane archeologo ha, con la fantasia, collocato a Pompei l’originale del bassorilievo che gli rammentava il suo amore giovanile. A buon diritto il poeta si è soffermato sull’importante somiglianza che la sua acuta sensibilità ha colto tra un particolare dell’accadere psichico nell’individuo e un singolo avvenimento storico nella storia dell’umanità.279