Capitolo 4
Il ritorno del totemismo nei bambini
Non c’è da temere che la psicoanalisi, la quale ha scoperto per prima la regolare sovradeterminazione172 di atti e di formazioni psichiche, si lasci indurre nella tentazione di far discendere da un’unica origine qualcosa di così complesso come la religione. Se essa, obbedendo alla unilateralità cui è obbligata, e che a dire il vero è doverosa, vuole porre in luce una sola tra le fonti di questa istituzione, non per questo pretende di attribuirle carattere di esclusività, così come non le attribuisce il primo posto tra i fattori concomitanti. Soltanto una sintesi operata fra diverse sfere della ricerca è in grado di stabilire quale sia l’importanza relativa da attribuire, nella genesi della religione, al meccanismo che vogliamo discutere qui. Ma un lavoro come questo supera sia i mezzi sia, anche, il fine dello psicoanalista.
Nel primo capitolo abbiamo fatto conoscenza con il totemismo. Abbiamo appreso che è un sistema il quale, presso determinate popolazioni primitive dell’Australia, dell’America e dell’Africa, tiene il posto della religione e fornisce il fondamento dell’organizzazione sociale. Sappiamo che nel 1869 lo scozzese McLennan concentrò il suo interesse sui fenomeni del totemismo [vedi oltre, par. 2, sottopar. a], considerati fino allora come semplici curiosità, esprimendo l’ipotesi che un considerevole numero di usi e costumi presenti in diverse società, antiche e moderne, debbano essere intesi come residui di un’epoca totemistica. In seguito la scienza ha riconosciuto in tutta la sua estensione questa importanza del totemismo. Voglio citare qui, perché è una delle enunciazioni più recenti su questo problema, un passo di Wundt:173 “possiamo trarre con grande attendibilità la conclusione che la civiltà totemistica è stata una preparazione alle evoluzioni ulteriori e uno stadio di transizione fra lo stato dell’uomo primitivo e il periodo degli eroi e degli dei”.
Gli scopi del presente lavoro ci costringono a penetrare più a fondo i caratteri del totemismo.
Per motivi che diventeranno chiari più avanti, inizio col riportare una descrizione di Reinach, il quale ha schizzato nel 1900 il seguente “codice del totemismo” (code du totémisme) in dodici articoli, una sorta di catechismo della religione totemistica.174
1. È proibito sia uccidere che cibarsi di determinati animali, ma gli uomini allevano esemplari appartenenti a queste specie e se ne prendono cura.
2. Se un animale viene per caso a morire, è compianto e sepolto con gli stessi onori che spettano a un membro del clan.
3. In certi casi il divieto di cibarsi dell’animale si riferisce soltanto a una determinata parte del suo corpo.
4. Se sotto la spinta della necessità si è costretti a uccidere un animale che di regola viene risparmiato, gli si chiede perdono e si cerca di attenuare con svariati stratagemmi e sotterfugi la trasgressione del tabù, ossia l’uccisione.
5. Quando l’animale viene offerto in sacrificio rituale, lo si piange solennemente.
6. In certe occasioni solenni e cerimonie religiose si indossa la pelle di determinati animali: questi, dove il totemismo sopravvive ancora, sono i totem.
7. Clan e singoli individui adottano nomi di animali, e precisamente degli animali totemici.
8. Molti clan usano come insegne le immagini di animali e ne adornano le loro armi; gli uomini si dipingono animali sul corpo o se li fanno tatuare.
9. Se il totem è uno degli animali temuti e pericolosi, si suppone che risparmi i membri del clan che ne ha preso il nome.
10. L’animale totemico protegge e mette in guardia gli appartenenti al clan.
11. L’animale totemico rivela il futuro ai suoi fedeli e serve loro da guida.
12. I membri del clan totemico credono spesso di essere legati all’animale totemico da un’origine comune.
Questo catechismo della religione totemica può essere giudicato soltanto a patto di considerare che Reinach ha qui inserito anche tutti gli indizi e i residui in base ai quali è possibile dedurre in che cosa sia consistito un tempo il sistema totemistico. Reinach assume di fronte al problema una posizione particolare, ben visibile nel fatto che egli trascura in certa qual misura i tratti essenziali del totemismo. Avremo modo di convincerci che, dei due assiomi fondamentali del catechismo totemistico, egli ne ha respinto uno in secondo piano, mentre ha completamente tralasciato l’altro.
Per farci un’immagine esatta del carattere del totemismo, ci rivolgeremo a un autore che ha dedicato a questo tema un’opera in quattro volumi la quale unisce, alla più completa raccolta delle osservazioni compiute a questo proposito, la più penetrante discussione dei problemi che tali osservazioni hanno suscitato. Il nostro debito verso Frazer, l’autore di Totemismo ed esogamia (1910) resterà – per il piacere e l’insegnamento che ne abbiamo tratto – anche se l’indagine psicoanalitica dovesse portare a risultati che si discostano parecchio dai suoi.175
“Un totem – ha scritto Frazer nel suo primo saggio sull’argomento – 176 è una categoria di oggetti materiali alla quale il selvaggio testimonia un rispetto superstizioso, perché crede che esista tra la propria persona e ogni membro della categoria una relazione particolarissima... Il legame tra l’uomo e il suo totem è reciprocamente benefico: il totem protegge l’uomo, e l’uomo dimostra il suo rispetto del totem in molti modi, astenendosi dall’ucciderlo se il totem è un animale, e non tagliandolo o cogliendolo se è una pianta. Il totem si distingue dal feticcio per il fatto che non è mai un individuo isolato come il feticcio, bensì è sempre una categoria di oggetti, di norma una specie animale o vegetale, più raramente una categoria di oggetti naturali inanimati e, più raramente ancora, di oggetti artificiali...
Possiamo distinguere non meno di tre tipi di totem: 1) il totem del clan, comune a un intero clan e che si trasmette ereditariamente da una generazione all’altra; 2) il totem del sesso, che appartiene a tutti i maschi o a tutte le femmine di una tribù, con esclusione in entrambi i casi dell’altro sesso; 3) il totem individuale, che appartiene a una singola persona e non passa ai suoi discendenti.”
I due ultimi tipi di totem hanno un’importanza infinitamente minore del totem del clan. Se non c’inganniamo, si tratta di formazioni tardive e poco significative per quanto concerne la natura del totem.
“Il totem del clan è oggetto di venerazione da parte di una stirpe di uomini e di donne che prendono il nome del totem, si considerano consanguinei, discendenti da un avo comune, e sono legati da comuni doveri reciproci e dalla comune credenza nel totem. Il totemismo, pertanto, è un sistema sia religioso che sociale. Il suo aspetto religioso consiste nelle relazioni di vicendevole rispetto e protezione esistenti tra un uomo e il suo totem; l’aspetto sociale, nelle relazioni tra membri di uno stesso clan e di altri clan. Questi due aspetti del totemismo mostrano, nella sua storia successiva, una tendenza a dissociarsi: il sistema sociale sopravvive talvolta a quello religioso e, viceversa, residui di totemismo permangono nella religione di paesi nei quali il sistema sociale fondato sul totemismo è scomparso. La nostra ignoranza sulle origini del totemismo non ci permette di affermare con sicurezza in che rapporto stessero in origine queste due facce del totemismo. Dall’insieme emerge però con forte probabilità che, all’inizio, i due aspetti erano inseparabili; in altre parole, quanto più indietro si risale, tanto più dovrebbe risultare che il membro di un clan si considera appartenente alla stessa specie alla quale appartiene il suo totem, e tanto meno il suo comportamento verso il totem dovrebbe differenziarsi dal suo comportamento verso gli altri membri del clan.”
Nella descrizione che dedica specificamente al totemismo come sistema religioso, Frazer premette che i membri di un clan prendono il nome del loro totem e di solito credono anche di discendere dal totem. La conseguenza di questa credenza è che essi non cacciano l’animale totemico, non lo uccidono e non lo mangiano, e si vietano ogni altro uso del totem se questo è cosa diversa da un animale. I divieti di uccidere e mangiare il totem non sono gli unici tabù che lo riguardino; a volte è anche proibito toccarlo, e anzi perfino guardarlo. In un certo numero di casi il totem non dev’essere chiamato col suo vero nome. La trasgressione di questi comandamenti tabù che proteggono il totem dà origine a una punizione automatica: gravi malattie o la morte (vedi sopra, cap. 2, par. 1).
Occasionalmente il clan alleva alcuni esemplari dell’animale totemico, che vengono custoditi in cattività.177 Se si trova un animale totemico morto, lo si compiange e seppellisce come fosse un membro del clan. Se si era costretti a uccidere un animale totemico, la cosa si svolgeva secondo un rituale prescritto, di scuse e di cerimonie di espiazione.
Il clan si attendeva dal suo totem protezione e riguardi. Se si trattava di un animale pericoloso (una fiera selvaggia, un serpente velenoso), si presupponeva che non avrebbe arrecato alcun male ai suoi compagni, e se questa supposizione non si attuava il danneggiato veniva cacciato fuori dal clan. I giuramenti, pensa Frazer, erano in origine ordalie: molte prove riguardanti la discendenza e la legittimità venivano fatte dipendere dal totem. Il totem aiuta in caso di malattia, dà premonizioni e ammonimenti alla tribù. La comparsa del totem nei pressi di una casa era considerata spesso come un annuncio di morte: il totem era venuto a prendere il suo parente.178
In diverse circostanze significative il membro del clan cerca di sottolineare la sua parentela col totem rendendosi esteriormente simile a lui, celandosi nella pelle dell’animale totemico, tatuandosene l’immagine ecc. Nelle occasioni solenni, rappresentate dalla nascita, dall’iniziazione, dalla sepoltura, questa identificazione col totem viene portata avanti con parole e con fatti. Danze nelle quali tutti i membri della tribù si travestono da totem e ne imitano i movimenti, servono a svariati fini magici e religiosi. Infine vi sono cerimonie nel corso delle quali l’animale totemico viene ucciso in maniera solenne.179
L’aspetto sociale del totemismo si esprime anzitutto in un comandamento rigorosamente osservato e in una restrizione totale. I membri di un clan totemico sono fratelli e sorelle, in dovere di aiutarsi reciprocamente e di proteggersi a vicenda. Se un membro del clan viene ucciso da uno straniero, tutto il clan dell’assassino è responsabile del suo delitto, e il clan dell’assassinato si sente solidale nell’esigere che il sangue versato sia espiato. I vincoli totemici sono più forti che non i legami familiari come sono intesi da noi. Non coincidono con questi ultimi, poiché la trasmissione del totem avviene di norma in linea materna, e forse in origine l’ereditarietà paterna non era assolutamente in vigore.
La limitazione corrispondente come tabù consiste nel divieto imposto ai membri di uno stesso clan totemico di sposarsi tra di loro e di avere un qualsiasi rapporto sessuale all’interno del clan. È la famosa ed enigmatica “esogamia” connessa col totemismo. A questo argomento abbiamo dedicato tutto il primo capitolo: basterà quindi richiamare qui che l’esogamia scaturisce dall’acuito orrore per l’incesto proprio dei primitivi; essa diventerebbe perfettamente comprensibile come misura di sicurezza contro l’incesto nel caso di matrimonio di gruppo, e serve anzitutto a evitare l’incesto da parte della generazione più giovane, e solo in un contesto ulteriore diventa un ostacolo anche per la generazione più anziana.180
A questa descrizione del totemismo che si trova in Frazer e che è una delle prime nella letteratura sull’argomento, voglio aggiungere qualche passo tratto da una delle sintesi più recenti, quella di Wundt:181
“L’animale totem vale come animale antenato del rispettivo gruppo. Il ‘totem’ viene così a essere da un lato nome di gruppo, e dall’altro un nome di discendenza; in quest’ultima accezione esso ha un significato mitologico. Tutte le applicazioni di questo concetto si intrecciano e si combinano, e alcuni di questi significati possono quasi scomparire, cosicché in molti casi i totem sono diventati una mera nomenclatura genealogica, mentre in altri l’idea della discendenza o il significato rituale del totem sono rimasti predominanti”. Il concetto di totem è decisivo ai fini della suddivisione e dell’organizzazione tribale, che sono sottoposte a certe norme di costume. “A queste norme e al loro radicarsi nelle credenze e nel sentimento dei membri della tribù va connesso il fatto che l’animale totem originariamente non è soltanto considerato come un nome per un gruppo di membri della tribù, ma possiede invece spesso anche il valore di capostipite del rispettivo gruppo della tribù... Inoltre, questi antenati animali fruiscono di un culto. Anche il culto degli antenati comincia perciò non con gli antenati umani ma col culto degli animali, il quale, a prescindere da determinate cerimonie o feste rituali, si manifesta dapprincipio soprattutto nella condotta verso l’animale: non un solo animale, ma ogni rappresentante di quella stessa specie è in un certo grado un animale sacro. È proibito ai membri di quel gruppo-totem di cibarsi della carne dell’animale totem, o per lo meno ciò non è loro concesso che in determinate circostanze. A questa proibizione contrasta il fatto opposto, importante in questo complesso di costumi, che in talune circostanze ha luogo una specie di pasto rituale della carne dell’animale totem...
Il lato sociale più importante di questa differenziazione della tribù sta in ciò che per essa sorgono e si stabiliscono certe norme di costume riguardanti le relazioni dei singoli gruppi fra di loro. Fra queste norme stanno in prima linea quelle riguardanti il matrimonio. La suddivisione della tribù è dunque connessa con un fatto importantissimo che si affaccia per la prima volta nel periodo totemistico: con l’esogamia.”
Se vogliamo giungere a caratterizzare il totemismo originario, prescindendo da tutto ciò che può essere dovuto a un perfezionamento o a un affievolimento successivi, emergono ai nostri occhi i seguenti tratti essenziali: I totem erano in origine nient’altro che animali, considerati gli antenati delle singole tribù. Il totem si ereditava soltanto per linea materna. Era proibito uccidere il totem (o mangiarlo, il che è la stessa cosa in un contesto primitivo); era proibito ai membri di uno stesso clan totemico avere rapporti sessuali tra loro.182
A questo punto ci può colpire il fatto che nel “codice del totemismo” redatto da Reinach uno dei tabù fondamentali, quello dell’esogamia, non compare affatto, mentre la premessa dell’altro, ossia la discendenza dall’animale tabù, sia citata solo di sfuggita. Ho scelto però la descrizione di Reinach, un autore assai benemerito in questo settore, per preparare il lettore alle differenze d’opinione fra gli studiosi, differenze delle quali dobbiamo occuparci ora.
Quanto più ci si veniva convincendo che il totemismo costituisce una fase ricorrente in tutte le civiltà, tanto più pressante diventava il bisogno di arrivare a comprenderlo, di chiarire gli enigmi della sua natura. Perché tutto è enigmatico nel totemismo: i problemi chiave sono quelli che riguardano l’origine della discendenza dal totem e i motivi dell’esogamia (o meglio, del tabù dell’incesto che trova la sua espressione nell’esogamia), nonché la relazione fra tali due ordinamenti, cioè fra l’organizzazione totemica e il divieto dell’incesto. La spiegazione cercata doveva essere a un tempo storica e psicologica, giungere a chiarire in quali circostanze si era sviluppata questa istituzione così peculiare e quali necessità psichiche dell’uomo essa esprima.
I miei lettori saranno certo stupiti a questo punto di apprendere da quanti diversi punti di vista si sia cercato di rispondere a questi interrogativi, e quanto divergenti siano su questo tema le opinioni degli studiosi specializzati. Quasi tutto ciò che si potrebbe affermare in termini generali, in tema di totemismo ed esogamia, appare opinabile. Anche la descrizione che ho dato sopra traendola da uno scritto pubblicato da Frazer nel 1887, non può sfuggire all’obiezione di esprimere una mia preferenza arbitraria e oggi sarebbe contestata dallo stesso Frazer, il quale ha modificato a più riprese i suoi punti di vista in proposito.183
Vale la presunzione che la natura del totemismo e dell’esogamia risulterebbe assai più comprensibile se potessimo accostarci alle origini di queste due istituzioni. Ma a questo proposito non dobbiamo dimenticare l’osservazione di Andrew Lang: neanche i popoli primitivi ci hanno conservato le forme originarie di queste istituzioni o le condizioni adatte alla loro formazione, cosicché, per rimpiazzare la mancata osservazione diretta, siamo costretti ad accontentarci di pure e semplici ipotesi.184 Tra i tentativi di interpretazione proposti, alcuni appaiono a priori inadeguati a giudizio dello psicologo; sono troppo razionali e non tengono in alcun conto il carattere emotivo della materia da interpretare. Altri tentativi di spiegazione poggiano su premesse che l’osservazione non conferma in alcun modo. Altri ancora si rifanno a materiali che si prestano a una diversa e migliore interpretazione. È facile di norma contestare i diversi punti di vista: come sempre, gli autori sono più bravi nelle critiche che si muovono a vicenda che non nelle opere che producono. Un non liquet [non è chiaro] rappresenta, per la maggior parte dei punti di vista discussi, il risultato finale. Non c’è quindi da stupire se nella letteratura più recente apparsa sull’argomento, e che noi abbiamo perlopiù tralasciato di citare, affiora l’inconfondibile tendenza a ricusare, in quanto inattuabile, una soluzione generale dei problemi del totem.185 Nel riportare qui queste ipotesi contrastanti, mi sono permesso di non rispettare il loro ordine cronologico.
a. L’origine del totemismo
Il problema dell’origine del totemismo può essere formulato anche così: come sono giunti gli uomini primitivi (e i loro clan) ad assumere il nome di animali, piante, oggetti inanimati?186
John Ferguson McLennan, lo scozzese che scoprì alla scienza il totemismo e l’esogamia,187 si astenne dal pubblicare una qualche opinione sull’origine del totemismo; secondo Lang,188 McLennan fu incline per un certo periodo a far risalire il totemismo all’uso del tatuaggio. Le successive teorie pubblicate sull’origine del totemismo ricadono, secondo me, in tre gruppi: α) teorie nominalistiche, β) teorie sociologiche, γ) teorie psicologiche.
α) Teorie nominalistiche
Ciò che riferirò su queste teorie giustificherà il fatto di averle riunite sotto il titolo su riportato.
Già Garcilasso de la Vega, un discendente degli Inca peruviani che scrisse nel XVII secolo la storia del suo popolo, pare aver fatto risalire ciò che conosceva del fenomeno totemistico al bisogno dei clan di distinguersi tra di loro con nomi.189 Lo stesso pensiero riaffiora a distanza di secoli. Secondo Keane i totem sarebbero derivati da heraldic badges (insegne araldiche) con le quali individui, famiglie e clan volevano distinguersi gli uni dagli altri.190 Max Müller espresse la stessa opinione sul significato del totem:191 “Un totem è un contrassegno di clan; poi un nome di clan; poi il nome del progenitore del clan; e infine il nome della cosa venerata dal clan.” Più tardi Pikler affermava:192 “Gli uomini avevano bisogno di un nome permanente, fissato per scritto, per contraddistinguere comunità e individui... Il totemismo nasce quindi non da un’esigenza religiosa, ma dal prosaico bisogno quotidiano dell’umanità. Il nucleo del totemismo, la denominazione, è una conseguenza della tecnica primitiva di scrittura. Caratteristica dei totem è anche di essere simili a segni pittografici facilmente disegnabili. Ma se un tempo i selvaggi portavano il nome di un animale, ne derivarono l’idea di una parentela con questo stesso animale.”
Anche Spencer attribuiva alla denominazione un’importanza decisiva ai fini della nascita del totemismo.193 Le particolarità di certi individui, affermò, avrebbero indotto a chiamarli col nome di animali e queste denominazioni si sarebbero trasformate in nomi onorifici o soprannomi che si trasmisero poi ai loro successori. Data l’indeterminatezza e l’incomprensibilità delle lingue primitive, questi sarebbero stati interpretati dalle generazioni successive come una testimonianza della loro discendenza da questi stessi animali. Il totemismo sarebbe perciò il risultato di una malintesa venerazione per gli antenati.
Lord Avebury (meglio noto col suo nome precedente di Sir John Lubbock) ha interpretato in maniera assai simile l’origine del totemismo, senza porre in rilievo tuttavia il fraintendimento. Egli scrive che se vogliamo spiegare la venerazione per l’animale totemico, non dobbiamo dimenticare quanto spesso gli uomini prendono a prestito i loro nomi dagli animali. I figli e il seguito di un uomo chiamato Orso o Leone ne fecero naturalmente un nome di clan. Il risultato fu che anche l’animale venne considerato “dapprima con interesse, poi con rispetto e, infine, con una sorta di venerazione”.194
Fison ha avanzato un’obiezione che mi pare irrecusabile contro questa tendenza a far risalire i nomi totemici ai nomi di individui.195 Egli mostra, in base alla situazione esistente in Australia, che il totem è sempre il contrassegno di un gruppo di uomini, mai di un singolo individuo. Ma se le cose stessero altrimenti, e se il totem fosse stato in origine il nome di un uomo singolo, dato il sistema ereditario matrilineare questo nome non potrebbe mai passare ai suoi figli.
Del resto, le teorie citate fin qui sono chiaramente inadeguate. Esse spiegano in qualche modo il fatto dei nomi di animali per i clan di uomini primitivi, ma non spiegano mai l’importanza che questa denominazione ha assunto per loro, non spiegano cioè il sistema totemistico. La teoria più interessante tra quelle che rientrano in questo gruppo è stata sviluppata da Andrew Lang.196 Secondo questa interpretazione, il nocciolo del problema è ancor sempre la denominazione; la sua teoria però introduce due interessanti fattori psicologici e pretende così di aver risolto definitivamente l’enigma del totemismo.
Lang pensa che, anzitutto, è indifferente il modo in cui i clan siano giunti ad avere i loro nomi di animali. Basterà ammettere che un giorno affiorò alla loro coscienza che portavano nomi di animali, senza potersi rendere conto di dove venissero. L’origine di questi nomi sarebbe stata dimenticata. Allora essi avrebbero cercato di darsene una ragione mediante la speculazione, e date le loro convinzioni sul significato dei nomi dovevano giungere necessariamente a tutte quelle idee che sono contenute nel sistema totemistico. Per gli uomini primitivi – come per i selvaggi dei nostri tempi e perfino per i nostri figli (vedi sopra, cap. 2, par. 3, sottopar. c) – i nomi non sono un qualcosa di indifferente e di convenzionale, come noi pensiamo, bensì essenziali e pieni di significato. Il nome di un uomo è una componente essenziale della sua persona, forse una parte della sua anima. L’omonimia con l’animale dovette indurre i primitivi a supporre l’esistenza di un legame misterioso e significativo tra le loro persone e questa specie animale. E quale altro legame poteva venir preso in considerazione se non quello della consanguineità? Ma una volta che questa consanguineità fu ammessa, come conseguenza dell’omonimia, ne derivarono come conseguenze dirette del tabù del sangue tutte le prescrizioni totemiche, inclusa l’esogamia. “Queste tre sole cose – un nome di origine sconosciuta di una specie animale, la credenza in un legame trascendentale tra tutti coloro che, uomini o animali, portano lo stesso nome; e la credenza nelle superstizioni del sangue – erano necessarie per dare origine a tutte le credenze e pratiche totemiche, esogamia compresa.”197
L’interpretazione di Lang è per così dire in due tempi. Essa deriva il sistema totemistico per via di necessità psicologica dall’esistenza dei nomi totemici, ponendo come premessa che l’origine di questa denominazione sia stata dimenticata. L’altra parte della sua teoria cerca invece di chiarire l’origine di questi nomi; e vedremo che il suo carattere è totalmente diverso.
Questa seconda parte della teoria di Lang non si differenzia sostanzialmente dalle altre che ho chiamato “nominalistiche”. Il bisogno pratico di distinguersi costrinse i vari clan ad assumere dei nomi, e perciò si acconciarono ai nomi con cui ogni clan era indicato da un altro clan. Questo naming from without, cioè questo ricevere il nome dall’esterno, è la peculiarità della costruzione di Lang. Che i nomi ai quali in tal modo si pervenne fossero derivati da animali non offre materia di stupore, e non è necessario supporre che i primitivi lo sentissero come ingiuria o derisione. Inoltre Lang ha addotto da epoche successive della storia i casi tutt’altro che rari nei quali nomi provenienti dall’esterno, e attribuiti inizialmente con intento derisorio, furono accettati e portati volentieri da coloro cui erano stati attribuiti (Gueux,198 Whigs e Tories). L’ipotesi che l’origine di questi nomi sia stata dimenticata con l’andar del tempo ricollega questa seconda parte della teoria di Lang con la prima parte descritta sopra.
β) Teorie sociologiche
Reinach, il quale ha rintracciato con successo i residui del sistema totemistico nel culto e nei costumi di periodi successivi, ma ha attribuito fin dall’inizio scarso valore all’elemento della discendenza dall’animale totemico, dice senza esitare, a un certo punto, che il totemismo non gli sembra nient’altro che “una ipertrofia dell’istinto sociale”.199
La stessa concezione sembra permeare la recente opera di Durkheim,200 il quale afferma che il totem è il rappresentante visibile della religione sociale di questi popoli: esso incorpora la comunità, che è l’autentico oggetto della venerazione.
Altri autori hanno cercato una giustificazione più pertinente di questa partecipazione delle pulsioni sociali alla formazione degli istituti totemistici. Così Haddon201 ha supposto che ogni clan primitivo vivesse in origine di una determinata specie animale o vegetale, forse anche facesse commercio di questo tipo di alimento e l’offrisse in scambio ad altri clan. Diverrebbe così inevitabile che il clan fosse noto agli altri col nome dell’animale che aveva per esso un’importanza così grande. Contemporaneamente dovette svilupparsi in questo clan una particolare confidenza con l’animale in questione e una specie d’interesse per esso, non fondato però su nessun motivo psichico che non fosse il più elementare e il più urgente tra i bisogni dell’uomo, la fame.
Le obiezioni avanzate contro questa teoria,202 che è la più razionale fra tutte le teorie sul totem, affermano che una simile condizione in tema di cibo presso i primitivi non è mai stata trovata e probabilmente non è mai esistita. I selvaggi, si dice, sono onnivori, e tanto più quanto più basso è il loro grado di civiltà. Inoltre non si riesce a comprendere come, da questa dieta esclusiva, potesse svilupparsi un rapporto quasi religioso con il totem, rapporto culminato nell’astensione assoluta dal cibo prediletto.
La prima delle tre teorie che Frazer ha espresso sull’origine del totemismo era di tipo psicologico; la riferiremo in seguito. La seconda teoria rientra nella presente discussione; essa nacque sotto l’impressione di uno studio di grande importanza, pubblicato da due ricercatori dei costumi degli aborigeni dell’Australia centrale.
Spencer e Gillen203 descrissero in un gruppo di tribù, la cosiddetta nazione Arunta, una serie di istituzioni, usi e opinioni caratteristiche, e Frazer si associò al loro giudizio, secondo il quale queste peculiarità vanno considerate come tratti di una condizione primaria e possono offrire chiarimenti sul primo e vero significato del totemismo.
Ecco le caratteristiche rilevate presso la tribù di nome Arunta (che è parte della nazione Arunta):
1) Conoscono la suddivisione in clan totemici, ma il totem non è trasmesso per via ereditaria bensì è determinato individualmente (in un modo che spiegheremo più tardi).
2) I clan totemici non sono esogami, le restrizioni matrimoniali sono prodotte da una ripartizione altamente sviluppata in classi matrimoniali che non hanno niente a che vedere con i totem.
3) La funzione dei clan totemici consiste nell’eseguire una cerimonia che mira, in maniera squisitamente magica, ad accrescere l’oggetto totemico commestibile (questa cerimonia si chiama intichiuma).
4) Gli Arunta hanno una loro particolare teoria sul concepimento e sulla reincarnazione. Essi suppongono che in certi luoghi del loro territorio gli spiriti dei defunti dello stesso totem aspettano la loro rinascita e penetrano nel corpo delle donne che passano in quei luoghi. Quando nasce un bambino, la madre indica in quale luogo frequentato dagli spiriti pensa di aver concepito il bimbo. In tal modo si identifica il totem del bambino. Si suppone inoltre che gli spiriti (sia dei defunti che dei risuscitati) siano legati a caratteristici amuleti di pietra (chiamati churinga) che si trovano in quei luoghi.
Si direbbe che due elementi abbiano indotto Frazer a credere che si fosse scoperta nelle istituzioni degli Arunta la forma più antica del totemismo. Anzitutto l’esistenza di determinati miti che affermano che gli antenati degli Arunta si sarebbero nutriti abitualmente del loro totem e non avrebbero sposato altre donne che quelle del loro stesso totem. In secondo luogo l’apparente misconoscimento dell’atto sessuale nella loro teoria del concepimento; giacché dovremmo considerare i più arretrati e primitivi tra gli uomini oggi viventi quelli che non hanno ancora appreso che il concepimento è la conseguenza del rapporto sessuale.
Da quando Frazer si ancorò, per giudicare il totemismo, alla cerimonia dell’intichiuma, il sistema totemistico gli apparve sotto una luce completamente diversa, come un’organizzazione eminentemente pratica per far fronte alle esigenze più naturali dell’uomo (vedi la teoria di Haddon testé citata).204 Il sistema era semplicemente un grandioso frammento di cooperative magic, ossia i primitivi rappresentavano per così dire una cooperativa magica di produzione e di consumo. Ogni clan totemico s’era assunto il compito di provvedere a che ci fosse abbondanza di un determinato alimento. Se si trattava di totem non commestibili, per esempio animali nocivi, pioggia, vento e simili, era compito del clan totemico padroneggiare questo elemento della natura e renderlo innocuo. Le attività di ogni clan tornavano a vantaggio di tutti gli altri. Poiché il clan non poteva mangiare nulla o assai poco del proprio totem, procurava questo bene prezioso agli altri clan e ne riceveva in cambio ciò che gli altri dovevano procurare come loro compito totemico sociale. Alla luce di questa concezione, mediata dalla cerimonia dell’intichiuma, l’impressione di Frazer fu che il divieto imposto a ogni clan di mangiare il proprio totem ci avesse resi ciechi di fronte all’elemento più importante della situazione, ossia al comandamento di procurare quanto più totem commestibile fosse possibile per il bisogno degli altri.
Frazer accettò la tradizione degli Arunta per cui in origine ogni clan totemico si era nutrito senza limitazioni del suo totem. A questo punto nasceva la difficoltà di capire l’evoluzione successiva, ove il clan totemico si accontentava di garantire il totem agli altri mentre rinunciava quasi a farne uso per sé. Egli suppose allora che questa restrizione non fosse derivata da una sorta di rispetto religioso ma, forse, dall’osservazione che di solito nessun animale mangia i suoi simili: il farlo avrebbe significato una frattura nell’identificazione con il proprio totem, col risultato di nuocere al potere che si desiderava conseguire su di esso. Oppure la limitazione sarebbe derivata da una tendenza a rendersi propizio l’essere col risparmiarlo. Frazer però non si nascose le difficoltà offerte da questa interpretazione,205 e tanto meno si azzardò a indicare in che modo l’abitudine a sposare all’interno del totem, attestata dai miti degli Arunta, si sarebbe trasformata in esogamia.
La teoria di Frazer, fondata sull’intichiuma, si regge nella misura in cui si ammette la natura primitiva delle istituzioni degli Arunta. Sembra però impossibile difendere questa primitività dalle obiezioni addotte da Durkheim e da Lang.206 Gli Arunta sembrano semmai le tribù più evolute tra quelle australiane, e paiono rappresentare più uno stadio di dissoluzione del totemismo che non il suo inizio. I miti che avevano fatto tanta impressione a Frazer perché, contrariamente alle istituzioni oggi dominanti, sottolineano la libertà di mangiare il totem e di sposare all’interno del totem, sarebbero facilmente interpretabili come fantasie di desiderio proiettate sul passato, analogamente a quanto accade con il mito dell’età dell’oro.
γ) Teorie psicologiche
La prima teoria psicologica di Frazer, elaborata prima ancora ch’egli venisse a conoscenza delle osservazioni di Spencer e Gillen, si fondava sulla credenza nell’“anima esterna”.207 Secondo questa teoria, il totem costituisce per l’anima un rifugio sicuro nel quale essa viene deposta per restare sottratta ai pericoli che la minacciano. Quando il primitivo aveva sistemato la sua anima nel suo totem, diventava a sua volta invulnerabile e, naturalmente, badava a non danneggiare il portatore della sua anima. Ma poiché non sapeva quale individuo della specie animale fosse il portatore della sua anima, era ovvio per lui risparmiare tutta quanta la specie.
Lo stesso Frazer rinunciò più tardi a questa tesi che deriva il totemismo dalla credenza nelle anime. Quando venne a conoscenza delle osservazioni compiute da Spencer e Gillen, concepì l’altra teoria sociologica del totemismo che abbiamo riportato sopra, ma poi trovò egli stesso che il motivo dal quale faceva discendere il totemismo era troppo “razionale”, e ch’egli inoltre aveva presupposto un’organizzazione sociale troppo complessa per poterla definire primitiva.208 Le cooperative magiche gli apparivano ora piuttosto i frutti tardivi che non i germi del totemismo. Egli si mise a cercare una componente più semplice, una superstizione primitiva celata dietro queste strutture, per dedurne l’origine del totemismo. E trovò questo elemento originario nella singolare teoria del concepimento degli Arunta.
Come abbiamo già raccontato, gli Arunta aboliscono la connessione esistente tra atto sessuale e concepimento. Quando una donna si sente madre, ciò significa che in quel momento uno degli spiriti che sonnecchiano in attesa di rinascere è penetrato nel suo corpo provenendo dal più vicino luogo degli spiriti, e viene partorito da lei in forma di bambino. Questo bimbo ha lo stesso totem che hanno tutti gli spiriti che dimorano in quel determinato luogo. Questa teoria del concepimento non può spiegare il totemismo perché presuppone il totem. Ma se vogliamo compiere un passo indietro e ammettere che la donna ha creduto in origine che l’animale, la pianta, la pietra, l’oggetto che occupava la sua fantasia nel momento in cui si rese conto per la prima volta di essere madre, sia veramente penetrato in lei e sarà poi da lei dato alla vita in forma umana, allora l’identità di un uomo col suo totem sarebbe realmente giustificata dalla credenza della madre, e tutti gli altri comandamenti imposti dal totem (esclusa l’esogamia) sarebbero facilmente deducibili da questo punto di partenza. L’uomo rifiuterebbe di mangiare questo animale e questa pianta perché, se lo facesse, mangerebbe per così dire se stesso. Egli si troverebbe però indotto a gustare occasionalmente il suo totem, in forma cerimoniale, perché in tal modo potrebbe rafforzare la sua identificazione col totem, che è l’elemento essenziale del totemismo. Le osservazioni compiute da Rivers presso gli aborigeni delle isole Banks sembrano dimostrare l’identificazione diretta degli uomini col loro totem, basata su tale teoria del concepimento.209
La fonte ultima del totemismo sarebbe dunque l’ignoranza dei selvaggi circa il processo con cui uomini e animali trasmettono la loro specie. E in particolare l’ignoranza del ruolo che il maschio svolge nella riproduzione. Questa ignoranza dev’essere facilitata dal lungo intervallo che intercorre tra l’atto riproduttivo e la nascita del bambino (o la percezione dei primi movimenti del feto). Il totemismo è perciò una creazione dello spirito femminile, non del maschile. Le sue radici sono le voglie (sick fancies) della donna incinta. “Infatti tutto ciò che ha colpito una donna in quel momento misterioso della sua vita in cui essa si rende conto per la prima volta di essere madre, può essere facilmente identificato da lei con la creatura che ha in grembo. Queste fantasie materne, così naturali e, a quanto sembra, così universali, sembrano essere la radice del totemismo.”210
L’obiezione principale che si può muovere a questa terza teoria di Frazer è la stessa che è già stata avanzata contro la sua seconda teoria, quella sociologica. Gli Arunta sembrano essersi discostati assai dalle forme iniziali del totemismo. Il loro rinnegamento della paternità non sembra dovuto a un’ignoranza primitiva: essi si valgono per alcuni aspetti della discendenza in linea paterna. Sembra piuttosto che abbiano sacrificato la paternità a una sorta di speculazione che mira a onorare gli spiriti degli antenati.211 Se essi elevano il mito dell’immacolata concezione attraverso lo spirito fino a farne una teoria generale del concepimento, tuttavia non possiamo attribuire loro un’ignoranza sulle condizioni della propagazione, non più di quanto la possiamo attribuire ai popoli antichi vissuti all’epoca in cui sorgevano i miti cristiani.
L’olandese Wilken ha proposto un’altra teoria psicologica sull’origine del totemismo.212 Essa stabilisce un nesso tra il totemismo e la trasmigrazione delle anime. “L’animale nel quale si crede generalmente essersi incarnate le anime dei morti è diventato un consanguineo, un progenitore, ed è venerato come tale.”213 Ma la credenza secondo la quale le anime trasmigrano in animali è più probabilmente derivata dal totemismo che non viceversa.
Un’altra teoria del totemismo è rappresentata da eminenti etnologi americani, da Franz Boas, C. Hill-Tout, e altri. Essa parte dalle osservazioni compiute su clan totemici amerindi e afferma che il totem era in origine lo spirito protettore di un antenato, il quale lo avrebbe acquisito mediante un sogno e lo avrebbe trasmesso ai suoi discendenti. Abbiamo già visto [qui, sottopar. α] quali difficoltà presenti il far derivare il totemismo come eredità proveniente da un singolo individuo; inoltre, le osservazioni compiute in Australia non sembrano affatto confermare che il totem derivi dallo spirito protettore.214
Quanto all’ultima teoria psicologica, quella proposta da Wundt, essa si basa su due fatti: “in primo luogo l’oggetto totem più antico e più costantemente diffuso è l’animale; in secondo luogo fra gli animali totem i più antichi sono anche animali animistici”.215 Per animali animistici s’intendono quegli animali, come uccelli, serpenti, lucertole, topi, che sono adatti, in virtù della loro rapidità di movimento, del loro volare nell’aria, di altre peculiarità che suscitano sorpresa e raccapriccio, a divenire portatori dell’anima che [alla morte di un uomo] abbandona il corpo. “Una derivazione delle trasformazioni animali dell’anima-alito è appunto l’animale totem... Così il totemismo sbocca qui direttamente nella credenza animistica o, più brevemente, nell’animismo.”216
b/c. L’origine dell’esogamia e la sua relazione col totemismo
Ho esposto con una certa ampiezza le teorie sul totemismo e tuttavia temo che il riassunto, inevitabile, al quale le ho sottoposte ne abbia fornito un’impressione inadeguata. Ciò nondimeno, nell’interesse stesso del lettore, negli ulteriori problemi mi prendo la libertà di una concisione ancora maggiore. Le discussioni sull’esogamia dei popoli totemistici sono rese particolarmente complicate e dispersive dalla natura del materiale impiegato; diciamo pure che sono confuse. Gli scopi di questo scritto mi consentono di limitarmi a mettere in rilievo alcune direttrici principali e di rinviare chi desidera approfondire questo argomento alle opere specializzate che ho citato più volte.
La posizione di un autore rispetto ai problemi dell’esogamia non prescinde, naturalmente, dal fatto che egli parteggi per l’una o per l’altra teoria sul totem. Alcune di queste interpretazioni del totemismo sono prive di qualsiasi legame con l’esogamia, così che le due istituzioni risultano nettamente disgiunte. Di conseguenza ci troviamo di fronte a due concezioni opposte: una vuol mantenere la presunzione originaria che l’esogamia è una componente essenziale del sistema totemistico, l’altra contesta tale legame e crede a una coincidenza casuale dei due tratti comuni ad antichissime civiltà. Nei suoi ultimi lavori Frazer ha decisamente difeso questo secondo punto di vista: “Devo chiedere al lettore di tenere costantemente presente che le due istituzioni – totemismo ed esogamia – sono fondamentalmente distinte per origine e per natura, benché si siano incidentalmente incrociate e mescolate in molte tribù.”217 Egli mette esplicitamente in guardia dall’opinione opposta, fonte – egli dice – di infinite difficoltà e fraintendimenti.
Contrariamente a questa sua affermazione, altri studiosi hanno trovato la via di concepire l’esogamia come conseguenza necessaria delle concezioni totemistiche fondamentali. Durkheim ha mostrato nei suoi lavori218 in che modo il tabù connesso col totem dovette implicare il divieto a ogni commercio sessuale con una donna appartenente allo stesso totem. Il totem è dello stesso sangue dell’uomo, e perciò l’interdizione del sangue (con riguardo alla deflorazione e alla mestruazione) proibisce il rapporto sessuale con la donna che appartiene al medesimo totem.219 Lang, che qui si accosta a Durkheim, pensa addirittura che non ci sia bisogno del tabù del sangue per causare il divieto verso le donne dello stesso clan.220 Il tabù totemico generale, che vieta per esempio di sedere all’ombra del proprio albero totemico, sarebbe bastato a questo proposito. Lang propugna del resto anche un’altra derivazione dell’esogamia (vedi oltre) e non lascia in dubbio quale sia il rapporto esistente tra le due interpretazioni.
Per quanto concerne la successione cronologica, la maggior parte degli autori inclina a credere che l’istituzione più antica sia il totemismo, mentre l’esogamia sarebbe sopraggiunta più tardi.221
Tra le teorie che vogliono spiegare l’esogamia come un qualcosa di indipendente dal totemismo, ci limiteremo a porne in rilievo alcune, che illustrano i diversi atteggiamenti assunti dagli studiosi verso il problema dell’incesto.
McLennan aveva ingegnosamente dedotto l’esogamia in base ai residui di costumi che richiamavano l’antico ratto delle donne. Egli suppose che, in tempi antichissimi, l’uso generale fosse di procurarsi la donna rubandola a un gruppo straniero, e che il matrimonio con una donna del proprio gruppo “divenisse sempre sconveniente in quanto inconsueto”.222 Egli ricercò il motivo di questo prevalere dell’esogamia in una carenza di donne nelle società primitive, dovuta all’uso di uccidere alla nascita la maggior parte delle femmine. Non tocca a noi qui provare se i reperti di fatto confermano le ipotesi di McLennan. Ci interessa assai di più il rilievo mossogli secondo cui, date le premesse dell’autore, resta tuttavia inspiegato perché i membri maschi di un gruppo si proibissero anche le poche donne del loro stesso sangue, e il modo in cui il problema dell’incesto viene da lui lasciato completamente da parte.223
In contrasto con questa tesi, ed evidentemente molto più a ragione, altri ricercatori hanno interpretato l’esogamia come un’istituzione diretta a evitare l’incesto (vedi cap. 1). Se si considera nel suo insieme la complessità progressivamente crescente delle limitazioni matrimoniali australiane, non si può non concordare con la tesi di Morgan, Frazer, Howitt,224 Baldwin Spencer, secondo la quale queste istituzioni recano in sé l’impronta di un’intenzione deliberata (deliberate design dice Frazer) e miravano a conseguire certi fini che effettivamente conseguirono. “Non sembra possibile spiegare in nessun altro modo in tutti i suoi dettagli un sistema al tempo stesso così complesso e così regolare.”225
È interessante rilevare che le prime restrizioni prodotte dall’introduzione di classi matrimoniali colpivano la libertà sessuale della generazione più giovane, vale a dire l’incesto tra fratelli e sorelle e tra madre e figli, mentre l’incesto tra padre e figlia fu eliminato soltanto col ricorso a ulteriori misure.
Far risalire le restrizioni sessuali esogame a un proposito legislativo, però, non ci aiuta affatto a capire il motivo che ha generato queste istituzioni. Da dove proviene in ultima analisi l’orrore dell’incesto, nel quale dobbiamo riconoscere la radice dell’esogamia? Non basta evidentemente richiamarsi, per spiegare l’orrore dell’incesto, a un’avversione istintiva nei confronti del commercio sessuale tra consanguinei, cioè al dato di fatto dell’orrore per l’incesto, quando l’esperienza sociale dimostra che, a dispetto di questo istinto,226 l’incesto non è un evento raro neppure nella nostra società attuale, e quando l’esperienza storica ci porta a conoscenza di casi nei quali il matrimonio incestuoso era prescritto a persone privilegiate.
Westermarck ha rilevato,227 per spiegare l’orrore dell’incesto, “che c’è, tra persone che vivono insieme fin dalla prima giovinezza, un’avversione innata al rapporto sessuale, e che questo sentimento, dal momento che si tratta nella maggior parte dei casi di consanguinei, trova la sua espressione naturale nel costume e nella legge, come orrore per il rapporto sessuale tra parenti stretti”. Havelock Ellis da un lato contestò che questa avversione avesse una radice pulsionale, ma per il resto aderì sostanzialmente a questa interpretazione affermando:228 “Il mancato affiorare, di norma, dell’istinto all’accoppiamento nel caso di fratelli e sorelle, o di fanciulle e ragazzi allevati insieme fin dall’infanzia, è un fenomeno puramente negativo dovuto all’inevitabile assenza, in quelle circostanze, delle condizioni che destano l’istinto d’accoppiamento... In persone cresciute insieme fin dall’infanzia, l’abitudine ha ottuso tutti gli stimoli sensori della vista, dell’udito e del tatto, convogliandoli sui binari di un’affezione tranquilla e privandoli del potere di provocare l’eccitazione eretistica che produce la tumescenza sessuale.”
Mi sembra molto strano che Westermarck giudichi quest’innata avversione al rapporto sessuale con persone con le quali si è trascorsa l’infanzia come se fosse al tempo stesso la rappresentanza psichica del fatto biologico per cui la riproduzione tra consanguinei significa un danno per la specie. Ciò vorrebbe dire che un istinto biologico di tal genere si smarrirebbe a tal punto, nella sua espressione psicologica, che invece di colpire i consanguinei (dannosi ai fini della riproduzione) colpirebbe i compagni di casa e di focolare (completamente innocui da questo punto di vista). Non posso fare a meno di condividere l’acuta critica che Frazer rivolge all’affermazione di Westermarck. Frazer trova incomprensibile che oggi la sensibilità sessuale non avversi affatto il rapporto con compagni di focolare, mentre l’orrore dell’incesto, che secondo Westermarck sarebbe soltanto un derivato di questa avversione, è cresciuto attualmente in maniera così enorme. Vi sono però altre osservazioni di Frazer che colpiscono più a fondo, e io le riporto qui integralmente perché coincidono sostanzialmente con le argomentazioni che ho sviluppato nel capitolo sul tabù:229
“Non è facile capire perché un istinto umano profondamente radicato dovrebbe aver bisogno d’essere rafforzato dalla legge. Non esistono leggi che ordinino all’uomo di mangiare e di bere o che proibiscano di mettere le mani sul fuoco. Gli uomini mangiano e bevono e tengono le mani lontane dal fuoco per istinto, per paura delle pene naturali, e non legali, che si attirerebbero facendo violenza a questi istinti. La legge vieta agli uomini solo ciò cui sarebbero indotti dai loro istinti; sarebbe superfluo che la legge proibisse e punisse ciò che la natura stessa proibisce e punisce. Possiamo quindi ammettere tranquillamente che i crimini proibiti dalla legge sono sempre crimini che molti uomini commetterebbero sotto la spinta della loro propensione naturale. Se non esistesse questa propensione non esisterebbero tali crimini, e se non si commettessero tali crimini a che scopo proibirli? Perciò invece di dedurre, dalla proibizione legale dell’incesto, che esiste una naturale avversione all’incesto, dovremmo concludere piuttosto che c’è un istinto naturale che spinge all’incesto, e che, se la legge lo reprime così come reprime altri istinti naturali, lo fa perché gli uomini civili sono giunti alla conclusione che il soddisfacimento di questi istinti naturali è dannoso agli interessi generali della società.”230
Posso aggiungere ancora, a questa preziosa argomentazione di Frazer, che le esperienze compiute dalla psicoanalisi rendono assolutamente impossibile l’ipotesi di un’avversione innata al rapporto incestuoso. Queste esperienze anzi ci hanno appreso che i primi impulsi sessuali del giovane sono di norma di natura incestuosa e che questi impulsi, quando vengono rimossi, hanno una parte di cui non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza come forze propulsive delle nevrosi che subentrano successivamente.
Dobbiamo quindi lasciar cadere l’interpretazione che vede nell’orrore per l’incesto un istinto innato. Le cose non vanno meglio con un’altra interpretazione sull’origine del divieto dell’incesto che ha trovato numerosi seguaci: è l’ipotesi che i popoli primitivi abbiano notato ben presto i pericoli che minacciano la loro specie in caso di riproduzione tra consanguinei, e perciò abbiano emesso il divieto di incesto con cosciente deliberazione. Le obiezioni contro questo tentativo di interpretazione addirittura si accavallano.231 Non solo il divieto dell’incesto dev’essere più antico di ogni addomesticamento di animali, che avrebbe permesso di osservare gli effetti della riproduzione tra consanguinei sui caratteri razziali, ma le conseguenze dannose di tale unione non sono state chiarite definitivamente neppure oggi ed è assai difficile provarle sulla specie umana. Inoltre tutto ciò che sappiamo sui selvaggi odierni rende estremamente improbabile che già i loro più remoti progenitori si fossero preoccupati di evitare danni ai loro discendenti. È quasi ridicolo voler attribuire a questi esseri umani che vivono in maniera del tutto irriflessiva motivazioni igieniche ed eugenetiche che hanno trovato sì e no accoglienza nella nostra attuale civiltà.232
Infine occorre anche far notare che il divieto dell’unione fra consanguinei, che sarebbe imposto per motivi pratici di igiene in quanto debilitante la razza, appare assolutamente inadeguato a spiegare il profondo orrore esistente nella nostra società contro l’incesto. Come ho esposto in altro luogo,233 questo orrore per l’incesto sembra se mai più diffuso e più intenso tra i popoli primitivi oggi viventi che tra i popoli civili.
Mentre ci si sarebbe potuto attendere, [come nel caso dell’origine del totemismo] di avere anche a proposito dell’origine dell’orrore per l’incesto la scelta tra varie possibilità di interpretazione (sociologica, biologica e psicologica, dove i motivi psicologici andrebbero valutati forse come una rappresentanza di forze biologiche), al termine della ricerca ci si vede costretti a far propria la rassegnata conclusione di Frazer. Non conosciamo l’origine dell’orrore per l’incesto e non sappiamo neppure che partito prendere. Nessuna tra le soluzioni dell’enigma addotte fin qui ci pare soddisfacente.234
Ma c’è ancora un tentativo di spiegare l’origine dell’orrore per l’incesto. È una spiegazione di tipo completamente diverso da quelle esaminate finora: potremmo definirla derivata dalla storia.
Questo tentativo si ricollega a un’ipotesi di Darwin sulla primordiale condizione sociale dell’uomo. Darwin dedusse dalle consuetudini di vita delle scimmie superiori che anche l’uomo visse in origine in piccole orde,235 nel cui ambito la gelosia del maschio più vecchio e più forte impediva la promiscuità:236
“Possiamo invero concludere da quanto sappiamo sulla gelosia di tutti i quadrupedi maschi, molti dei quali sono dotati di armi speciali per lottare contro i loro rivali, che una promiscuità dei sessi allo stato naturale è estremamente improbabile... Pertanto, se rivolgiamo lo sguardo sufficientemente addietro nel fiume del tempo... giudicando in base alle abitudini sociali dell’uomo così come attualmente esiste... l’opinione più plausibile è che l’uomo primitivo vivesse in origine in piccole comunità, ognuno con tante donne quante poteva mantenere e ottenere, che egli difendeva gelosamente contro tutti gli altri uomini. Oppure può darsi che vivesse con più donne per sé solo, come il gorilla; perché tutti gli indigeni concordano nel dire che in ogni banda si vede soltanto un maschio adulto; quando il giovane maschio è cresciuto, ha luogo un combattimento per il dominio, e il più forte, dopo aver ucciso e cacciato gli altri, s’impone come capo della comunità.237 I maschi più giovani, cacciati in tal modo e vaganti di luogo in luogo, allorché saranno finalmente riusciti a trovare una compagna, impediranno unioni consanguinee troppo strette entro la cerchia di una stessa famiglia.”
Atkinson sembra essere stato il primo a riconoscere che questa situazione all’interno dell’orda primitiva di Darwin dovette praticamente imporre l’esogamia dei maschi giovani.238 Ognuno di questi ultimi, una volta cacciato, poteva fondare un’orda simile, nella quale grazie alla gelosia del capo vigeva lo stesso divieto circa i rapporti sessuali, e con l’andar del tempo sarebbe risultata da queste circostanze la regola, assunta ormai alla coscienza in veste di legge: “niente rapporti sessuali con i compagni di focolare”. Dopo l’instaurazione del totemismo la regola si sarebbe trasformata in quest’altra: “niente rapporti sessuali all’interno del totem”.
Lang ha fatto propria questa spiegazione dell’esogamia.239 Ma egli sostiene nello stesso libro anche l’altra teoria (di Durkheim), secondo cui l’esogamia era una conseguenza delle leggi totemiche [vedi sopra]. Non è molto facile unificare le due concezioni: nel primo caso l’esogamia sarebbe esistita prima del totemismo, nel secondo caso ne sarebbe derivata.240
L’esperienza psicoanalitica getta l’unico raggio di luce in questa oscurità.
Il rapporto tra bambino e animale è molto simile a quello esistente tra uomo primitivo e animale. Il bimbo non mostra ancora alcuna traccia di quella superbia che più tardi induce l’adulto civile a tracciare una rigida linea di confine tra la propria natura e quella di tutte le altre creature. Il bambino non si fa scrupolo di concedere all’animale la piena parità con se stesso; nel confessare senza traccia di inibizione i suoi bisogni, egli si sente certo più prossimo all’animale che non all’adulto, il quale probabilmente gli riesce enigmatico.
In questa eccellente intesa tra bambino e animale compare non di rado un singolare elemento di disturbo. Il bambino comincia improvvisamente a provare paura per una determinata specie di animali e a proteggersi dal contatto o dalla vista di tutti gli individui appartenenti a questa specie. Si instaura il quadro clinico di una “fobia degli animali”, malattie psiconevrotiche più frequenti in questa età e forse la forma più precoce di questo tipo di malattia. La fobia riguarda di regola animali per i quali il bambino aveva mostrato fino allora un interesse particolarmente vivace, non ha nulla a che fare con l’animale individuale. La scelta tra gli animali suscettibili di diventare oggetti della fobia non è vasta nella vita che si conduce nelle città. Si tratta di cavalli, cani, gatti, meno spesso di uccelli, mentre balza agli occhi la frequenza con cui sono in gioco animali piccolissimi, come insetti e farfalle. A volte animali che il bambino ha conosciuto soltanto attraverso libri illustrati e racconti di fiabe diventano gli oggetti del terrore assurdo e smisurato che compare in queste fobie. È raro che si riesca a individuare per quale via si è compiuta una scelta così insolita; devo a Karl Abraham la comunicazione di un caso in cui il bambino stesso spiegò la sua paura per le vespe col fatto che il colore e la striatura del corpo della vespa gli richiamavano alla mente la tigre, della quale stando a tutto quanto aveva sentito dire era giusto aver paura.241
Le fobie degli animali nei bambini non sono ancora state fatte oggetto di un’attenta ricerca analitica, sebbene la meritino in alto grado. Il motivo di questa omissione va senza dubbio ricercato nelle difficoltà di compiere l’analisi con bambini in così tenera età. Non possiamo quindi affermare di conoscere il senso generale di queste malattie, e io penso anzi che non ne possa emergere un significato unitario. Tuttavia alcuni casi di fobie rivolte ad animali di maggiori dimensioni si sono dimostrati accessibili all’analisi, rivelando il loro segreto all’indagatore. E il segreto era in ogni caso il medesimo: la paura riguardava in fondo il padre (quando i bambini analizzati erano maschi) ed era stata soltanto spostata sull’animale.
Chiunque abbia esperienza di psicoanalisi ha conosciuto certamente casi del genere e ne ha ricevuto la stessa impressione. Tuttavia posso richiamarmi soltanto a poche pubblicazioni esaurienti sull’argomento. Si tratta di una lacuna casuale nella bibliografia, dalla quale non dobbiamo dedurre che possiamo fondare la nostra affermazione soltanto su osservazioni isolate. Citerò a titolo d’esempio un autore che si è occupato con molta intelligenza delle nevrosi dell’età infantile: il dottor Wulff di Odessa.
Egli racconta, a proposito della storia clinica di un bambino di nove anni, che quest’ultimo aveva sofferto all’età di quattro anni di una fobia per i cani. “Quando vedeva un cane passare per strada, piangeva e gridava: ‘Caro cane, non portarmi via, io starò buono.’ Per ‘stare buono’ intendeva ‘non suonare più il violino’”,242 cioè non masturbarsi. Lo stesso autore spiega: “La sua fobia per i cani è propriamente la paura per il padre spostata sui cani, perché la sua strana frase: ‘Cane, io starò buono’ – ossia non mi masturberò – si riferisce propriamente al padre, che ha proibito la masturbazione.” In una nota Wulff aggiunge poi un’osservazione che coincide perfettamente con la mia esperienza e che dimostra al tempo stesso la frequenza di questo genere di esperienze: “Queste fobie (per cavalli, cani, gatti, polli e altri animali domestici) sono, io credo, almeno altrettanto diffuse nell’età infantile quanto il pavor nocturnus e nel corso dell’analisi è quasi sempre possibile liberarle dal bozzolo: sono uno spostamento sugli animali della paura verso uno dei genitori. Non mi sentirei di affermare che la fobia, così diffusa, per ratti e topi possegga lo stesso meccanismo.”
Ho recentemente pubblicato una Analisi della fobia di un bambino di cinque anni,243 il cui materiale era stato messo a mia disposizione dal padre del piccolo paziente. Era una paura dei cavalli, a causa della quale il bambino rifiutava di uscire per strada. Il bambino spiegava di temere che il cavallo entrasse nella stanza e lo mordesse. Si dimostrò che questa doveva essere la punizione per il suo desiderio di vedere il cavallo cadere (cioè morire). Dopo aver liberato il bambino, assicurandolo, della paura verso il padre, risultò che egli lottava contro desideri il cui contenuto era l’assenza (partenza, morte) del padre. Il bimbo sentiva il padre, e lo lasciava scorgere con estrema chiarezza, come un concorrente nei favori della madre, sulla quale si dirigevano tra oscuri presentimenti i suoi desideri sessuali in germe. Si trovava perciò in quel tipico atteggiamento del bambino maschio verso i genitori che noi definiamo col nome di “complesso edipico”, e nel quale identifichiamo in generale il complesso nucleare delle nevrosi. L’elemento nuovo che veniamo a conoscere dall’analisi del “piccolo Hans” è il fatto, estremamente importante per il totemismo, che in tali circostanze il bambino sposta parte dei suoi sentimenti dal padre su un animale.
L’analisi mostra le vie associative, sia quelle significative quanto a contenuto sia quelle casuali, per le quali procede uno spostamento del genere. Permette anche di indovinarne i motivi. L’odio derivante dalla rivalità per la madre non può espandersi liberamente nella vita psichica del bambino, deve lottare contro la tenerezza e l’ammirazione da sempre esistenti per la stessa persona ch’è ora oggetto d’odio; il bambino si trova in un atteggiamento emotivo ambiguo – ambivalente – nei confronti del padre e in questo conflitto di ambivalenza si procura un sollievo spostando i suoi sentimenti ostili e angosciosi su un sostituto del padre. Tuttavia lo spostamento non può eliminare il conflitto in modo da produrre una netta separazione tra sentimenti affettuosi e sentimenti ostili. Il conflitto prosegue piuttosto sull’oggetto dello spostamento, l’ambivalenza invade questo stesso oggetto. È innegabile che il piccolo Hans prova non soltanto paura, ma anche rispetto e interesse verso i cavalli. Non appena la sua paura si è attenuata, si identifica egli stesso con l’animale prima temuto: salta come un cavallo e morde a sua volta il padre.244 In un altro stadio della risoluzione della fobia non esita a identificare i genitori con altri grossi animali.245
È lecito manifestare l’impressione che in queste fobie degli animali riscontrate nei bambini ritornino certi tratti del totemismo, in forma negativa. Dobbiamo per altro a Sándor Ferenczi l’osservazione veramente eccezionale di un caso che non si può definire se non totemismo positivo in un bambino.246 È vero che nel piccolo Árpád, del quale Ferenczi ci riferisce, gli interessi totemistici non si ridestano in diretta connessione con il complesso edipico, bensì in base al presupposto narcisistico del complesso stesso, ossia in base alla paura dell’evirazione. Ma chi scruta attentamente la storia del piccolo Hans troverà anche qui le prove più abbondanti che il padre è ammirato in quanto possessore del grande genitale e temuto come colui che minaccia il genitale del bambino. Sia nel complesso edipico che in quello di evirazione il padre interpreta la stessa parte, quella di temuto avversario degli interessi sessuali infantili. L’evirazione e il suo sostituto, l’accecamento, è la punizione che il padre minaccia.247
Quando il piccolo Árpád aveva due anni e mezzo, un giorno, durante una vacanza estiva, cercò di urinare nel pollaio, e un pollo gli beccò il membro o cercò comunque di acchiapparglielo. Quando l’anno dopo ritornò nello stesso posto, diventò a sua volta un pollo; non s’interessava più d’altro che del pollaio e di tutto ciò che vi succedeva, e rinunciò al suo linguaggio umano per chiocciare e schiamazzare come un gallo. All’epoca in cui fu sottoposto a osservazione (a cinque anni) aveva riacquistato la parola, ma anche quando parlava il discorso verteva esclusivamente sui polli o altri volatili. Non usava alcun giocattolo, non cantava che canzoni in cui entrasse in qualche modo il pollame. Il suo comportamento verso il suo animale totemico era squisitamente ambivalente: odio e amore smisurati. Il suo gioco preferito era ammazzare i polli. “Ammazzare il pollame è la sua massima festa. È capace di danzare per ore e ore, in piena eccitazione, intorno al cadavere dei piccoli animali.”248 Ma poi baciava e carezzava l’animale abbattuto, puliva e coccolava i giocattoli in forma di pollo che prima aveva maltrattati lui stesso.
Il piccolo Árpád si preoccupava personalmente che il significato del suo singolare modo d’agire non rimanesse nascosto. Di quando in quando ritraduceva i suoi desideri dalla locuzione totemistica in linguaggio quotidiano. “Mio padre è il gallo – disse una volta. – Adesso io sono piccolo, adesso sono un pulcino. Quando diventerò più grande sarò un pollo. Quando diventerò ancora più grande sarò un gallo.” Un’altra volta manifestò all’improvviso il desiderio di mangiare una “madre lessa” (per analogia col pollo lesso). Era prodigo di minacce di evirazione verso gli altri, minacce ch’egli stesso aveva sperimentate a causa della sua attività onanistica.
Circa la fonte del suo interesse per quanto accadeva nel pollaio non c’era per Ferenczi il minimo dubbio: “i frequenti rapporti sessuali tra gallo e gallina, la deposizione delle uova e la nascita dei piccoli pulcini” appagavano la sua curiosità sessuale, che aveva di mira propriamente la vita familiare degli uomini. Egli aveva formato i suoi desideri oggettuali sull’esempio della vita dei galli, tanto che una volta disse alla vicina: “Io sposerò lei e le sue sorelle e le mie tre cugine e la cuoca; no, meglio la mamma che la cuoca.”
Avremo occasione più avanti di valutare appieno questa osservazione. Per ora accontentiamoci di rilevare a titolo di importanti concordanze con il totemismo due elementi: la completa identificazione con l’animale totemico249 e l’atteggiamento emotivo ambivalente verso l’animale stesso. In base a queste osservazioni crediamo giustificato introdurre nella formula del totemismo il padre in luogo dell’animale totemico (nel caso dei maschi). Noteremo peraltro che, così facendo, non abbiamo compiuto un gran passo avanti né qualcosa di particolarmente ardito. La stessa cosa dicono anche i primitivi, e definiscono il totem – là dove il sistema totemistico è ancora in vigore – loro antenato e progenitore. Abbiamo preso alla lettera soltanto un’affermazione di questi popoli, un’affermazione dalla quale gli etnologi non hanno saputo ricavare gran che, e che perciò hanno respinto volentieri in secondo piano. La psicoanalisi, al contrario, ci ammonisce a rintracciare proprio questo punto e a legare ad esso il tentativo di spiegare il totemismo.250
La prima conseguenza della nostra sostituzione è quanto mai singolare. Se l’animale totemico è il padre, i due comandamenti fondamentali del totemismo, le due prescrizioni tabù che ne costituiscono il nucleo – non uccidere il totem e non aver rapporti sessuali con una donna appartenente allo stesso totem – coincidono quanto a contenuto con i due delitti di Edipo, che uccise il padre e prese in moglie la madre, e con i due desideri primordiali del bambino, la cui insufficiente rimozione o il cui ridestarsi formano forse il nucleo di tutte le psiconevrosi. Se questa equazione dovesse essere qualcosa di più di un gioco ingannevole del caso, dovrebbe permetterci di gettare un po’ di luce sull’origine del totemismo in epoche immemorabili. In altri termini, dovremmo riuscire a rendere verosimile che il sistema totemistico si è prodotto partendo dalle condizioni del complesso edipico, così come la fobia degli animali del “piccolo Hans” e la perversione, che ha di mira i volatili, del “piccolo Árpád”. Per vagliare questa possibilità studieremo nelle pagine seguenti una particolarità del sistema totemistico – o meglio, della religione totemica – che non ha potuto essere ricordata prima.
William Robertson Smith, morto nel 1894, fisico, filologo, critico della Bibbia e indagatore dell’antichità, uomo tanto poliedrico quanto acuto e libero di pensiero, pubblicò nel 1889 un’opera sulla religione dei semiti251 nella quale avanzò l’ipotesi che una caratteristica cerimonia, il cosiddetto “pasto totemico”, abbia costituito fin dai primissimi inizi una componente integrante del sistema totemistico. Ad appoggiare questa ipotesi c’era allora a sua disposizione un’unica descrizione di tale pasto, tramandata dal V secolo dopo Cristo [vedi oltre]. Ma egli seppe attribuire un alto grado di verosimiglianza alla sua ipotesi analizzando la natura del sacrificio presso gli antichi semiti. Poiché il sacrificio presuppone una persona divina, si tratta perciò di induzione da una fase più evoluta del rito religioso a quella più primitiva del totemismo.
Cercherò ora di mettere in rilievo, dal mirabile libro di Robertson Smith, i passi d’interesse per noi decisivo, quelli cioè sull’origine e sul significato del rito sacrificale, lasciando cadere tutti i particolari spesso assai attraenti e trascurando di conseguenza tutti gli sviluppi successivi. È assolutamente escluso che si riesca a trasmettere nemmeno in parte al lettore, in un compendio del genere, la lucidità o la capacità dimostrativa dell’esposizione originale.
Robertson Smith dichiara252 che il sacrificio all’altare è stato l’elemento essenziale nel rito della religione antica. Esso ha la stessa funzione in tutte le religioni, e si può quindi far risalire la sua origine a cause generalissime e operanti ovunque in maniera omogenea. Il sacrificio – l’azione sacra per eccellenza (sacrificium, hierourgía) – significava però in origine qualcosa di diverso da ciò che, in epoche più tarde, s’intese con tale termine: di diverso, cioè, dall’offerta alla divinità per placarla o per propiziarsela (l’accezione profana del termine derivò da questo significato accessorio di “rinuncia”). A quanto è possibile ricostruire, il sacrificio non era altro in un primo tempo che an act of social fellowship between the deity and his worshippers (un atto di socievolezza, una comunione, tra i credenti e il loro dio).253
Oggetto del sacrificio erano commestibili o bevande; l’uomo offriva al suo dio le stesse cose di cui si nutriva personalmente: carne, cereali, frutti, vino e olio. Limitazioni e differenze intervenivano soltanto in rapporto alla carne sacrificale. Il dio si ciba delle vittime animali insieme con i suoi adoratori, mentre i sacrifici vegetali sono riservati a lui solo. Non c’è alcun dubbio che i sacrifici animali sono più antichi e che, anzi, un tempo erano gli unici. I sacrifici vegetali derivano dall’offerta delle primizie di tutti i frutti e corrispondono a un tributo al signore del suolo e del paese; ma i sacrifici animali sono più antichi dell’agricoltura.254
È cosa certa, in base a sopravvivenze linguistiche, che la parte di sacrificio destinata al dio era considerata in origine il suo nutrimento reale. Col progredire della smaterializzazione della natura della divinità questa rappresentazione diventò scandalosa. La si evitò destinando alla divinità soltanto la parte liquida del banchetto. In seguito l’uso del fuoco, che faceva dissolvere in fumo la carne sacrificale sull’altare, permise di manipolare il nutrimento degli uomini in modo più conforme alla natura del dio.255 La sostanza del sacrificio liquido era in origine il sangue delle vittime sacrificali. Il sangue fu sostituito più tardi dal vino. Per gli antichi il vino era il “sangue della vite”, come lo chiamano ancor oggi i nostri poeti.256
La forma più antica di sacrificio, più antica dell’uso del fuoco e della conoscenza dell’agricoltura, era dunque il sacrificio animale, di cui il dio e i suoi adoratori gustavano insieme la carne e il sangue. Era essenziale che ognuno dei partecipanti ottenesse la sua parte al banchetto.
Un simile sacrificio era una cerimonia pubblica, la festa di un intero clan. La religione era un fatto eminentemente comunitario, il dovere religioso una componente degli obblighi sociali. Sacrificio e festività coincidono presso tutti i popoli, ogni sacrificio implica una solennità e nessuna solennità può essere celebrata senza sacrificio. La festività sacrificale era un’occasione per elevarsi gioiosamente al di sopra dei propri interessi, per sottolineare la comunione col gruppo e con la divinità.257
La forza etica del banchetto sacrificale pubblico poggiava su rappresentazioni antichissime circa il significato del mangiare e bere in comune. Mangiare e bere con un altro era al tempo stesso un simbolo e un rafforzamento di comunanza sociale e di assunzione di obblighi reciproci. Il banchetto sacrificale era un’espressione diretta del fatto che il dio e i suoi adoratori sono “commensali”, ma con ciò stesso si esprimevano tutte le altre relazioni esistenti tra loro. Usi che sono ancor oggi in vigore tra gli arabi del deserto dimostrano che nel pasto comune il fattore vincolante non è un elemento religioso, bensì l’atto stesso del mangiare. Chi ha diviso anche il più piccolo boccone di cibo con uno di questi beduini o ha bevuto un sorso del suo latte non deve più temere in lui un nemico, può essere certo della sua protezione e del suo aiuto. Non per sempre però: a rigore, soltanto per il tempo in cui il cibo o la bevanda consumati insieme restano nel suo corpo. Il legame dell’unione è inteso quindi in modo estremamente realistico; per rafforzarlo e renderlo durevole occorre ripeterlo.258
Ma perché si attribuisce questa forza di legare e unire al mangiare e bere in comune? Nelle società primitive c’è un solo legame che unifica in modo assoluto e senza eccezioni: quello della “comunità di stirpe” (kinship). I membri di questa comunità sono solidali l’uno con l’altro, un kin è un gruppo di persone la cui vita è legata in modo tale, in quella che diviene una vera e propria unità fisica, che li possiamo considerare parti di una vita comune. Infatti quando un membro del kin viene ucciso non si dice: “è stato versato il sangue di questa o quella persona”, bensì: “è stato versato il nostro sangue.” L’espressione ebraica con la quale si riconosce la parentela di stirpe suona: “Tu sei le mie ossa e la mia carne.” Kinship significa quindi partecipare di una sostanza comune: è naturale perciò che sia fondata non soltanto sul fatto che si è parte della sostanza della madre dalla quale si è stati partoriti e del cui latte siamo stati nutriti, bensì che anche il nutrimento che si consuma in seguito e col quale si rinnova il proprio corpo possa acquisire e rafforzare la kinship. Se il pasto era diviso con il dio, ciò esprimeva la persuasione d’essere fatti della stessa sostanza, mentre con colui che era considerato straniero non si condivideva alcun pasto.259
Il banchetto sacrificale era quindi in origine un pranzo solenne di parenti di stirpe, in base alla legge che soltanto membri della stessa stirpe mangiano insieme. Nella nostra società il pasto riunisce i membri della famiglia, ma il banchetto sacrificale non ha niente a che vedere con la famiglia. La kinship è più antica della vita familiare, e nelle società più primitive a noi note la famiglia comprendeva membri appartenenti a diverse stirpi. Gli uomini sposavano donne provenienti da clan stranieri e i bambini ereditavano il clan della madre; così che non c’era parentela di stirpe tra l’uomo e gli altri membri della famiglia. In una famiglia del genere non c’era pasto in comune. I selvaggi mangiano ancor oggi appartati e isolati e i divieti religiosi imposti sui cibi dal totemismo rendono spesso impossibile agli uomini mangiare con le mogli e i figli.260
E adesso rivolgiamo la nostra attenzione all’animale sacrificale. Come abbiamo appreso, non c’era incontro di un clan senza sacrificio animale, ma – e questo è assai significativo – nessun animale veniva abbattuto se non per tale occasione solenne. Ci si nutriva senza scrupoli di frutta, di selvaggina e del latte degli animali domestici, ma gli scrupoli religiosi rendevano impossibile al singolo individuo di uccidere per suo proprio uso e consumo un animale domestico.261 Non c’è il minimo dubbio, dice Robertson Smith, che ogni sacrificio era in origine una cerimonia del clan, e che l’uccisione di una vittima rientrava originariamente tra le azioni proibite all’individuo e giustificate solo quando l’intero clan se ne assumeva la corresponsabilità.262 Tra i primitivi c’è soltanto una categoria di azioni che rispondono a questa caratteristica, ossia le azioni che toccano la santità del sangue tribale. Una vita che nessun individuo può sopprimere e che può essere sacrificata soltanto con il consenso e con la partecipazione di tutti i membri della stirpe, è posta sullo stesso piano della vita di un membro della tribù. La regola secondo cui ogni ospite del banchetto sacrificale deve gustare la carne della vittima ha lo stesso significato della norma per cui l’esecuzione di un membro colpevole della tribù dev’essere compiuta da tutta la tribù.263 In altri termini, l’animale sacrificale veniva trattato come un membro della tribù; la comunità che compiva il sacrificio, il dio e l’animale sacrificale erano dello stesso sangue, membri di un solo clan della tribù.
In base ad abbondanti testimonianze, Robertson Smith identifica l’animale sacrificale con l’antico animale totemico. Nell’antichità più tarda vi erano due tipi di sacrifici: sacrifici di animali domestici, che venivano anche abitualmente mangiati, e sacrifici straordinari di animali che, in quanto impuri, erano proibiti. Spingendo avanti la ricerca, si dimostra poi che questi animali impuri erano animali sacri; che essi venivano offerti come vittime alle divinità alle quali erano sacri; che in origine si identificavano con le divinità stesse; e che i credenti sottolineavano in qualche modo, col sacrificio, la loro consanguineità con l’animale e con il dio.264 Per epoche ancora anteriori, tuttavia, questa differenza tra sacrifici abituali e sacrifici “mistici” viene meno. In origine tutti gli animali [sacrificali] sono sacri, la loro carne è proibita e può essere consumata soltanto in occasioni solenni e con la partecipazione di tutto il clan. L’abbattimento dell’animale equivale a versare sangue tribale e deve svolgersi rispettando le stesse precauzioni e le stesse garanzie di non incorrere in alcuna riprensione.265
A quanto pare, l’addomesticamento di animali da cortile e l’introduzione dell’allevamento pose fine ovunque al totemismo incontaminato e rigoroso dei primordi.266 Ma ciò che è sopravvissuto nella religione ormai “pastorale”, in fatto di sacralità degli animali domestici, è sufficientemente chiaro per consentirci di riconoscere l’originario carattere totemico. Fino in tarda epoca classica il rito, in diversi luoghi, prescriveva all’autore del sacrificio di darsi alla fuga non appena compiuto il suo gesto, come per proteggersi da una punizione. In Grecia, l’idea che l’uccisione di un bue fosse un delitto vero e proprio dovette essere un tempo assolutamente dominante. Durante la festa ateniese della Bufonia, o assassinio del bue, dopo il sacrificio si dava inizio a un processo formale in cui venivano interrogati tutti i partecipanti. Alla fine ci si accordava nello scaricare la colpa del crimine sul coltello, che veniva gettato in mare.267
Nonostante l’orrore che protegge sia la vita dell’animale sacro che quella di un membro del clan, è necessario uccidere periodicamente, in solenne comunanza, un animale di questa specie e dividere tra i membri del clan la sua carne e il suo sangue. Il motivo che impone questa azione tradisce il significato più riposto della natura del sacrificio. Abbiamo visto che, in epoche più recenti, a ogni pasto in comune l’aver preso insieme la stessa sostanza e l’averla inghiottita ingenera un legame sacro tra i commensali. In epoche più antiche questo significato sembra verificarsi soltanto nel caso di partecipazione alla sostanza di una vittima sacra. Il santo mistero della morte sacrificale “si giustifica in quanto solo in tal modo si può produrre il cemento sacro che crea o mantiene vivo il vincolo vitale che unisce i fedeli al loro dio”.268
Questo vincolo non è altro che la vita dell’animale sacrificale, la vita che risiede nella sua carne e nel suo sangue e che viene comunicata a tutti i partecipanti attraverso il banchetto sacrificale. Una rappresentazione del genere sta alla base di tutti i patti sanciti dal sangue mediante i quali, anche in epoche tarde, gli uomini assumono impegni reciproci. Questo modo assolutamente realistico di concepire la comunità di sangue come identità di sostanza permette di capire la necessità di rinnovarla di quando in quando attraverso il processo fisico del banchetto sacrificale.269
Interrompiamo qui il filo dei ragionamenti di Robertson Smith, che siamo venuti esponendo, e ricapitoliamo con la massima concisione il nocciolo del suo pensiero.
Quando si affermò l’idea della proprietà privata, si interpretò il sacrificio come un dono alla divinità, un trasferimento dalla proprietà dell’uomo a quella del dio; ma così facendo si rinunciò a spiegare tutto quello che è peculiare nel rito del sacrificio. In tempi antichissimi l’animale sacrificale era stato esso stesso sacro, e la sua vita inviolabile. Poteva essere mangiato soltanto con la partecipazione e la correità di tutto il clan e in presenza del dio, per fornire la sostanza sacra grazie al cui consumo gli appartenenti al clan si garantivano la loro identità materiale, tra loro e con la divinità. Il sacrificio era un sacramento e l’animale da sacrificare era esso stesso un membro del clan. In realtà era l’antico animale totemico, il dio primitivo in persona, e uccidendolo e sbranandolo i membri del clan rinfrescavano e assicuravano la loro somiglianza col dio.
Da questa analisi sulla natura del sacrificio Robertson Smith trasse la conclusione che uccidere e cibarsi periodicamente del totem, in epoche anteriori all’adorazione di divinità antropomorfe, erano stati una componente importante della religione totemica.270 Il cerimoniale di un pasto totemico di tal genere ci è stato conservato, a suo dire, nella descrizione di un sacrificio in vigore in epoche più tarde. San Nilo [V secolo] riferisce un costume sacrificale dei beduini del deserto del Sinai verso la fine del IV secolo dopo Cristo. La vittima, un cammello, veniva legata su un rozzo altare di pietre; il capo della schiera faceva compiere agli astanti un triplice giro intorno all’altare, in mezzo a canti, poi infliggeva la prima ferita all’animale e beveva avidamente il sangue che ne sgorgava; quindi tutto il gruppo si gettava sulla vittima, staccava con le spade lembi di carne ancora sussultante e la divorava cruda, con tanta fretta che nel breve periodo intercorrente tra il sorgere della stella del mattino, alla quale era destinato il sacrificio, e l’impallidire dell’astro davanti ai raggi del sole tutto quanto l’animale sacrificale – carne, ossa, pelle, interiora – era scomparso.271 Questo rito barbarico, che testimonia di una remotissima antichità, non era secondo ogni evidenza un uso isolato, bensì la forma originaria universale del sacrificio totemico, che conobbe in epoche più tarde le più diverse attenuazioni.
Molti studiosi si sono rifiutati di dar peso alla concezione del pasto totemico, perché non era confortata da osservazioni dirette a livello del totemismo. Ma Robertson Smith stesso ha indicato esempi nei quali il significato sacramentale del sacrificio sembra certo: per esempio, i sacrifici umani degli Aztechi, e altri che ricordano le circostanze del pasto totemico, come i sacrifici di orsi del clan dell’Orso della tribù degli Ouataouak [Otawa] in America e la festa dell’orso degli Aino in Giappone.272 Frazer ha esposto esaurientemente questi e simili casi nella sua grande opera.273 Una tribù di indiani della California che adora un grande uccello da preda (bozzago), lo uccide una volta all’anno nel corso di una cerimonia solenne, poi l’uccello viene compianto e la sua pelle è custodita con le penne.274 Gli indiani Zuni del Nuovo Messico si comportano allo stesso modo con la loro tartaruga sacra.275
Nelle cerimonie dell’intichiuma delle tribù centro-australiane è stato osservato un tratto che coincide perfettamente con le premesse di Robertson Smith. Ogni clan che pratica la magia per accrescere il proprio totem, del quale tuttavia gli è proibito disporre, è tenuto a consumare una parte del suo totem durante la cerimonia, prima che il totem sia accessibile agli altri clan.276 Il più bell’esempio di godimento sacramentale del totem, che altrimenti è proibito, si trova secondo Frazer presso i Bini dell’Africa occidentale, in rapporto con il loro cerimoniale funebre.277
Concludiamo affermando di condividere l’ipotesi di Robertson Smith che l’uccisione sacramentale e la consumazione comune dell’animale totemico, proibita negli altri casi, era un elemento estremamente importante della religione totemica.278
Immaginiamoci ora la scena di un pasto totemico del genere e completiamola con alcuni tratti probabili, che non abbiamo potuto prendere in considerazione fino a questo momento. Ecco il clan, che in una circostanza solenne uccide e divora crudo il suo animale totemico, carne, sangue e ossa; ci sono tutti i membri del clan, travestiti a somiglianza del totem, e ne imitano i suoni e i movimenti come se volessero accentuare la sua e la loro identità. C’è inoltre la consapevolezza che si sta eseguendo un’azione proibita a ogni individuo singolarmente preso, un’azione che può essere giustificata soltanto dalla partecipazione di tutti; a nessuno è concesso di esimersi dall’uccisione e dal pasto. Dopo il fatto, l’animale ucciso viene pianto e compianto. Il compianto funebre è un obbligo imposto dalla paura di una rivalsa minacciosa, il cui scopo principale mira, come nota Robertson Smith in un’occasione analoga, a liberarsi dalla responsabilità dell’uccisione.279
Ma a questo lutto tiene dietro la più rumorosa festività, lo scatenarsi di ogni pulsione e la via libera a prendersi tutte le soddisfazioni.
Non occorrono sforzi, a questo punto, per penetrare nell’essenza della festa in generale. Una festa è un eccesso permesso, anzi comandato, un’infrazione solenne di un divieto. Gli uomini si abbandonano agli eccessi non perché siano felici per un qualche comando che hanno ricevuto. Piuttosto, l’eccesso è nella natura stessa di ogni festa; l’umore festoso è provocato dalla libertà di fare ciò che altrimenti è proibito.
Che cosa significa mai però il preludio di questa gioia festosa, ossia il lutto per la morte dell’animale totemico? Se ci si rallegra per l’uccisione del totem, che in ogni altro caso è proibita, perché allora lo si compiange anche?
Abbiamo visto che gli appartenenti a un clan si santificano consumando il totem, si rafforzano nella loro identificazione con il totem e tra di loro. L’aver accolto in se stessi la vita sacra di cui è portatrice la sostanza del totem potrebbe spiegare l’umore festoso e tutto ciò che gli tiene dietro.
La psicoanalisi ci ha rivelato [qui, par. 3] che l’animale totemico è realmente il sostituto del padre col che si accorderebbe bene la contraddizione secondo la quale la sua uccisione è proibita in ogni altro caso eppure diventa l’occasione festosa; si accorda il fatto che si uccida l’animale e pure se ne compianga la morte. L’atteggiamento emotivo ambivalente che caratterizza ancor oggi nei nostri bambini il complesso del padre, e si prolunga spesso nella vita dell’adulto, pare estendersi a quel sostituto del padre che è l’animale totemico.
Soltanto se si confrontano tra loro il modo in cui la psicoanalisi concepisce il totem, la realtà costituita dal pasto totemico e l’ipotesi darwiniana circa la condizione primordiale della società umana è possibile una comprensione più approfondita, è possibile prospettarsi un’ipotesi che può sembrare fantasiosa, ma che offre il vantaggio di stabilire un’insospettata unità tra serie finora distinte di fenomeni.
L’orda primitiva di Darwin è ancora al di qua, naturalmente, degli esordi del totemismo. Vi è solo un padre prepotente, geloso che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i figli via via che crescono: nient’altro. Le condizioni primordiali della società non sono mai state fatte oggetto di osservazione. L’organizzazione più primitiva che possiamo trovare, e che è ancor oggi in vigore presso certe tribù, consiste in “bande” di uomini dotati di uguali diritti e sottomessi alle restrizioni del sistema totemistico, tra cui l’eredità in linea materna. È possibile che questa organizzazione derivi dall’altra, e per quale via poté accadere?
Il richiamo alla celebrazione del pasto totemico ci permette di dare una risposta: Un certo giorno280 i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all’orda paterna. Uniti, essi osarono compiere ciò che sarebbe stato impossibile all’individuo singolo (forse un progresso nella civiltà, il maneggio di un’arma nuova, aveva conferito loro un senso di superiorità). Che essi abbiano anche divorato il padre ucciso, è cosa ovvia trattandosi di selvaggi cannibali. Il progenitore violento era stato senza dubbio il modello invidiato e temuto da ciascun membro della schiera dei fratelli. A questo punto, divorandolo, essi realizzarono l’identificazione con il padre, ognuno si appropriò di una parte della sua forza. Il pasto totemico, forse la prima festa dell’umanità, sarebbe la ripetizione e la commemorazione di questa memoranda azione criminosa, che segnò l’inizio di tante cose: le organizzazioni sociali, le restrizioni morali e la religione.281
Per trovare credibili – a prescindere dalla premessa – queste conseguenze, basta ipotizzare che la schiera riunita dei fratelli fosse dominata dagli stessi sentimenti contraddittori verso il padre che possiamo rintracciare come contenuto dell’ambivalenza del complesso paterno in ognuno dei nostri bambini e dei nostri nevrotici. Essi odiavano il padre, possente ostacolo al loro bisogno di potenza e alle loro pretese sessuali, ma lo amavano e lo ammiravano anche. Dopo averlo soppresso, aver soddisfatto il loro odio e aver imposto il loro desiderio di identificazione con lui, dovette farsi sentire l’affezione nei suoi confronti fin allora rimasta sopraffatta.282 Questo si verificò nella forma del rimorso, sorse un senso di colpa che coincide qui con il rimorso sentito collettivamente. Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo: tutto si svolse nel modo che possiamo misurare ancor’oggi sul destino degli uomini. Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’“obbedienza retrospettiva”, che conosciamo così bene attraverso la psicoanalisi.283 Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili. In questo modo, prendendo le mosse dalla coscienza di colpa del figlio, crearono i due tabù fondamentali del totemismo, che proprio perciò dovevano coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico. Chi vi contravveniva si rendeva colpevole dei due soli delitti che preoccupavano la società primitiva.284
I due tabù del totemismo, con i quali ha inizio la moralità degli uomini, non hanno uguale valore psicologico. Soltanto uno, il risparmio dell’animale totemico, poggia interamente su basi emotive: il padre era ormai tolto di mezzo, e in realtà non c’era più modo di rimediare. Ma l’altro, il divieto dell’incesto, aveva anche un solido fondamento pratico. Il bisogno sessuale non unisce i maschi, ma li divide. Se i fratelli avevano fatto lega per sopraffare il padre, ognuno era però rivale dell’altro rispetto alle donne. Ciascuno avrebbe voluto averle tutte per sé, come le aveva il padre, e nella lotta di tutti contro tutti la nuova organizzazione sarebbe andata distrutta. Non c’era più nessuno dotato di forza schiacciante, tale da poter assumere con successo la parte di padre. Così non restò altro ai fratelli, se volevano convivere, che erigere il divieto dell’incesto – forse dopo aver superato gravi dissensi – in base a cui rinunciavano tutti insieme alle donne che desideravano e a causa delle quali, soprattutto, avevano tolto di mezzo il padre. In tal modo salvarono l’organizzazione che li aveva fatti forti: non è da escludere che questa si basasse su sentimenti e pratiche omosessuali, che potevano essersi insediate fra loro all’epoca della loro cacciata da parte del padre. Forse fu proprio questa situazione che pose il germe alle istituzioni del matriarcato individuate da Bachofen,285 fin quando il matriarcato fu sostituito dall’ordinamento patriarcale della famiglia.
Che il totemismo abbia diritto ad essere considerato il primo tentativo di una religione discende invece dall’altro tabù, quello che protegge la vita dell’animale totemico. Se alla sensibilità dei figli l’animale appariva come il sostituto ovvio e naturale del padre, nel trattamento che risultò loro imposto dell’animale si trovava espresso qualcosa di più che il bisogno di estrinsecare il loro pentimento. Con il padre sostitutivo si poteva compiere il tentativo di acquietare il bruciante senso di colpa, di ottenere una sorta di riconciliazione con il padre. Il sistema totemistico era per così dire un patto con il padre, in cui quest’ultimo concedeva tutto ciò che la fantasia infantile poteva aspettarsi dal padre: protezione, cura e attenzioni. In cambio ci si impegnava a onorare la sua vita, ossia a non ripetere su di lui l’azione che aveva portato alla scomparsa del padre reale. C’era anche, nel totemismo, un tentativo di giustificazione: “Se il padre ci avesse trattati come fa il totem, non saremmo mai stati tentati di ucciderlo.” Così il totemismo concorse ad attenuare le circostanze e a far dimenticare l’evento al quale doveva la sua nascita.
In questo contesto vennero alla luce alcuni tratti che rimasero poi determinanti per il carattere della religione. La religione totemica era nata dal senso di colpa dei figli, come tentativo di attenuare questa sensazione e di riconciliarsi il padre offeso con l’obbedienza retrospettiva. Tutte le religioni successive si dimostrano altrettanti tentativi di soluzione del medesimo problema, tentativi variabili a seconda delle condizioni culturali in cui vengono intrapresi e delle strade che imboccano, ma sono tutte reazioni rivolte allo stesso fine, reazioni al medesimo grande avvenimento con il quale ebbe inizio la civiltà e che da allora non dà pace all’umanità.
Un’altra caratteristica ancora, che la religione ha conservato fedelmente, apparve già nel totemismo. La tensione generata dall’ambivalenza era certo troppo forte per poter essere equilibrata da una qualche organizzazione; oppure le condizioni psicologiche non sono assolutamente favorevoli per eliminare questo contrasto emotivo. Si nota in ogni caso che l’ambivalenza implicita nel complesso paterno prosegue anche nel totemismo e nelle religioni in generale. La religione del totem non abbraccia soltanto le espressioni di rimorso e i tentativi di riconciliazione, ma serve anche a ricordare il trionfo sul padre. La soddisfazione così raggiunta è la causa della festa in memoriam espressa dal pasto totemico, festa durante la quale cadono le restrizioni imposte dall’obbedienza retrospettiva e diventa un dovere tornare a ripetere il crimine del parricidio nel sacrificio dell’animale totemico, ogni volta che l’acquisizione consolidata di quel crimine, l’appropriazione delle qualità del padre, minaccia di scomparire, a causa degli influssi variabili dell’esistenza. Non ci stupiremo di scoprire che nelle costruzioni religiose più tarde torna sempre ad affiorare, celata spesso nei travestimenti e nei mascheramenti più singolari, anche la componente della fierezza filiale.
Abbiamo seguito finora nella religione e nelle prescrizioni morali (entrambe nel totemismo ancora scarsamente separate) le conseguenze della corrente sentimentale verso il padre in quanto persona amata, corrente trasformata in rimorso. Ma non dobbiamo trascurare il fatto che, in sostanza, quelle che prevalgono sono le tendenze che hanno spinto al parricidio. D’ora in poi i sentimenti sociali di fraternità, sui quali poggia il grande sovvertimento, conservano per lunghissimo tempo il più profondo influsso sull’evoluzione della società. Si esprimono nella santificazione del sangue comune, nell’accentuazione della solidarietà di tutta la vita all’interno del medesimo clan. In questo modo, garantendosi reciprocamente la vita, i fratelli affermano che nessuno di loro può venir trattato da un altro fratello come il padre è stato trattato dai fratelli tutti insieme. Escludono una ripetizione del destino paterno. Al divieto, fondato sulla religione, di uccidere il totem, si aggiunge ora il divieto, a fondamento sociale, del fratricidio. Passerà molto tempo ancora prima che il comandamento cessi di essere limitato ai membri della stessa stirpe e assuma la semplice formulazione: Non ammazzare. Prima, al posto dell’“orda paterna” è subentrato il “clan fraterno”, che si è garantito mediante il legame di sangue. La società poggia ora sulla correità nel delitto perpetrato insieme, la religione sulla coscienza della colpa e sul rimorso, la moralità in parte sulle necessità di questa società, in parte sulle pene imposte dal senso di colpa.
In antitesi con le concezioni più recenti ma in concordanza con quelle precedenti, la psicoanalisi ci spinge a postulare la stretta connessione e l’origine contemporanea di totemismo ed esogamia.
C’è un gran numero di solidi motivi che operano su di me e mi trattengono dal tentativo di descrivere l’evoluzione ulteriore delle religioni, dal loro inizio nel totemismo fino alla fase attuale. Mi limiterò a seguire due filoni là dove li vedo affiorare con particolare chiarezza nella trama: il motivo del sacrificio totemico e il rapporto tra padre e figlio.286
Robertson Smith ci ha appreso che l’antico pasto totemico ritorna nella forma originaria del sacrificio. Il significato dell’azione è il medesimo: la santificazione mediante partecipazione al pasto comune. Anche il senso di colpa è rimasto presente in questa pratica, e può essere attenuato soltanto dalla solidarietà di tutti i partecipanti. L’elemento nuovo che si è aggiunto è il dio del clan alla cui presenza – supposta – si svolge il sacrificio, dio che partecipa al pasto come membro del clan e con il quale ci si identifica gustando la vittima. Come interviene la divinità in questa situazione che le è originariamente estranea?
La risposta potrebbe essere che nel frattempo è affiorata – non sappiamo da dove – l’idea di Dio; ha assoggettato a sé tutta la vita religiosa e, come tutte le cose che mirano a sopravvivere, anche il pasto totemico è dovuto scendere a compromessi col nuovo sistema. Sennonché la ricerca psicoanalitica condotta sul singolo individuo ci insegna con una intensità particolarissima, che il dio si configura per ognuno secondo l’immagine del padre, che il rapporto personale con il dio dipende dal proprio rapporto con il padre carnale, oscilla e si trasforma con lui, e che in ultima analisi il dio altro non è che un padre a livello più alto. Anche qui, come già nel caso del totemismo, la psicoanalisi ritiene giusto prestar fede ai fedeli, i quali chiamano Dio col nome di Padre, così come chiamavano progenitore il totem. Se la psicoanalisi merita qualche considerazione, la componente paterna dell’idea di Dio dev’essere estremamente importante, anche a prescindere da tutte le altre origini e significati del concetto di Dio, sui quali la psicoanalisi non è in grado di far luce. Ma allora, nella situazione del sacrificio primitivo il padre sarebbe rappresentato due volte, una prima volta come un dio e poi ancora come animale totemico, e pur contentandoci della scarsa varietà di soluzioni offerte dalla psicoanalisi, dobbiamo chiederci se ciò sia possibile e che significato possa avere.
Sappiamo che esistono molteplici rapporti tra il dio e l’animale sacro (totem, vittima sacrificale): 1) Di norma c’è per ogni dio un animale sacro, e non di rado più d’uno. 2) In certi sacrifici particolarmente sacrosanti, i sacrifici “mistici”, veniva offerto in sacrificio al dio proprio l’animale a lui consacrato.287 3) Il dio era spesso adorato in forma di un animale oppure, se vogliamo vederlo così, ci sono animali che sono stati venerati come divinità parecchio tempo dopo l’epoca del totemismo. 4) Nei miti il dio si tramuta frequentemente in un animale, e spesso nell’animale a lui consacrato.
Sarebbe quindi un’ipotesi ovvia che lo stesso dio fosse l’animale totemico e che si fosse sviluppato dall’animale in una fase successiva del sentimento religioso. Ma la considerazione che il totem stesso non è altro che un sostituto del padre ci dispensa da ogni ulteriore discussione. Così il totem può essere la prima forma del sostituto paterno, e il dio invece una forma successiva nella quale il padre ha riacquistato la sua figura umana. Una tale ri-creazione a partire da quella che è la radice di ogni formazione religiosa, la nostalgia per il padre, poté realizzarsi quando con l’andar del tempo venne a mutare qualcosa di essenziale nel rapporto col padre e, forse, anche nel rapporto con l’animale.
Queste modificazioni sono facilmente individuabili anche se si vuole prescindere dall’inizio di un estraniamento psichico dall’animale e dal disgregamento del totemismo provocato dall’addomesticamento (vedi sopra, par. 4). Nella situazione creata dall’eliminazione del padre ci fu un momento che dovette provocare, nel corso del tempo, uno straordinario accrescimento della nostalgia per il padre. I fratelli alleatisi per uccidere il padre erano stati infatti animati, ognuno per conto suo, dal desiderio di diventare uguali al padre e avevano espresso questo desiderio incorporando parti del suo sostituto durante il pasto totemico. Data la pressione che l’insieme del clan fraterno esercitava su ogni partecipante, questo desiderio dovette restare inesaudito. Nessuno poteva e doveva più raggiungere la piena supremazia del padre, alla quale avevano pur tutti mirato. In tal modo, col trascorrere di un lungo periodo, poté venir meno l’esasperazione contro il padre che li aveva spinti all’azione e poté crescere la nostalgia per lui, dando vita a un ideale il cui contenuto consisteva nella pienezza di forza e nell’illimitata potenza del progenitore un tempo combattuto e nella disposizione ad assoggettarvisi. L’originaria uguaglianza democratica di tutti i membri del clan non fu più sostenibile col sopraggiungere di mutamenti culturali decisivi. Si andò quindi rivelando – per analogia con la venerazione di singoli individui che si erano distinti dagli altri – una propensione a richiamare in vita l’antico ideale del padre, creando le divinità. Che un uomo diventi dio o che un dio muoia, pretesa rivoltante per noi oggi, non era un’idea che esorbitasse dalla capacità di rappresentazione neppure in epoca classica.288 L’elevazione del padre un tempo assassinato al dio dal quale ora il clan faceva derivare la sua origine era anzi un tentativo di espiazione molto più serio di quanto fosse stato, a suo tempo, il patto con il totem.
Non saprei dire dove si trovi, in questa evoluzione, il posto per le grandi divinità materne che forse hanno preceduto nella generalità dei casi gli dei paterni. Sembra certo però che la trasformazione del rapporto col padre non si limitò al campo religioso ma si estese anche, consequenzialmente, all’altro aspetto dell’esistenza umana sul quale influì l’eliminazione del padre, cioè all’organizzazione sociale. Con l’inserimento delle divinità paterne, la società priva di padre si trasformò gradatamente in società a ordinamento patriarcale. La famiglia fu una restaurazione dell’antica orda primitiva e restituì anche ai padri gran parte dei loro diritti di un tempo. Ora c’erano di nuovo padri, ma alle conquiste sociali del clan fraterno non si era rinunciato e di fatto il distacco tra i nuovi padri di famiglia e il progenitore dell’orda, il quale non conosceva limiti, era sufficiente ad assicurare la continuazione dell’aspirazione religiosa, la conservazione della non placata nostalgia per il padre.
Nella scena sacrificale davanti al dio della stirpe il padre è quindi realmente presente due volte, come dio e come animale sacrificale totemico. Ma nel tentativo di comprendere questa situazione ci terremo in guardia da interpretazioni miranti a trasporla superficialmente in termini di allegoria, dimenticando così la stratificazione storica. La duplice presenza del padre corrisponde ai due significati della scena, i quali cronologicamente si sostituiscono l’uno all’altro. Qui ha raggiunto un’espressione plastica l’atteggiamento ambivalente verso il padre, e così pure la vittoria che, nel figlio, i moti affettuosi hanno riportato sugli impulsi ostili. La scena della sopraffazione del padre, della sua sconfitta più cocente, è diventata qui il materiale per rappresentare il suo massimo trionfo. L’importanza che il sacrificio ha acquistato universalmente sta proprio nel fatto che il sacrificio offre al padre la soddisfazione per l’affronto subito, nell’atto stesso che perpetua il ricordo di questo crimine.
In epoca successiva l’animale perde la sua sacralità e il sacrificio la relazione con la festa totemica: diventa una semplice offerta alla divinità, un’autorinuncia a favore del dio. Dio stesso è salito ora tanto in alto sugli uomini che il rapporto con lui può svolgersi solo con la mediazione del sacerdote. Contemporaneamente l’ordinamento sociale conosce re simili a dei, che trasferiscono nello Stato il sistema patriarcale. Dobbiamo ammettere che la vendetta del padre abbattuto e reinsediato è stata inesorabile: il dominio dell’autorità ha raggiunto il culmine.
I figli sottomessi sfruttarono la nuova situazione per alleviare ulteriormente il loro senso di colpa. Il sacrificio, così com’è ora, non implica in nulla la loro responsabilità. Dio stesso lo esige e lo impone. Rientrano in questa fase i miti nei quali lo stesso dio uccide l’animale a lui sacro, l’animale che è propriamente lui, il dio. È questo l’estremo ripudio del grande crimine col quale ebbe inizio la società e la coscienza della colpa. Non bisogna disconoscere un secondo significato di quest’ultimo aspetto del sacrificio. In esso si esprime la soddisfazione per aver abbandonato il precedente sostituto paterno a favore della superiore concezione di Dio. Qui la versione piattamente allegorica della scena coincide all’incirca con la sua interpretazione psicoanalitica. L’allegoria dice: il tema della rappresentazione è il dio che supera la componente bestiale del suo essere.289
Sarebbe errato tuttavia voler credere che, in questo periodo di rinnovata autorità paterna, gli impulsi ostili che fanno parte del complesso paterno siano completamente soffocati. Anzi, le prime fasi che segnano il dominio delle due nuove formazioni sostitutive del padre, quelle degli dei e dei re, mostrano i segni più decisi dell’ambivalenza che resta caratteristica della religione.
Nella sua grande opera Il ramo d’oro,290 Frazer ha espresso la supposizione che i primi re delle tribù latine fossero stranieri che ricoprivano il ruolo di una divinità e che, in questo ruolo, venivano giustiziati solennemente in una festività definita. Il sacrificio annuale (oppure, come variante, l’autosacrificio) di un dio sembra essere stato un tratto essenziale delle religioni semitiche. Così pure il cerimoniale dei sacrifici umani nei luoghi più diversi della terra abitata lascia sussistere pochi dubbi sul fatto che le vittime erano uccise in veste di rappresentanti della divinità. Quest’uso sacrificale è rintracciabile anche in epoche ormai tarde nella sostituzione dell’uomo vivo con un’imitazione inanimata (un fantoccio). Il sacrificio di dei umani incarnati, che non posso purtroppo discutere qui a fondo come ho fatto col sacrificio animale, illumina chiaramente a ritroso il significato delle forme più antiche di sacrificio.291 Esso rivela con chiarezza difficilmente superabile che l’oggetto dell’atto sacrificale era sempre il medesimo, lo stesso cioè che viene oggi venerato come Dio: il padre. A questo punto il problema del rapporto tra sacrificio animale e sacrificio umano trova facile soluzione. L’originario sacrificio animale era già un surrogato di sacrificio umano, dell’uccisione solenne del padre, e quando il sostituto del padre tornò a ottenere la sua immagine umana anche il sacrificio animale poté ritrasformarsi in sacrificio umano.
Il ricordo di quel primo grande atto di sacrificio si era quindi dimostrato incancellabile, a dispetto di tutti gli sforzi compiuti per dimenticarlo, e proprio quanto più ci si era voluti allontanare dai suoi motivi doveva tornare alla luce, nella forma del sacrificio del dio, la sua ripetizione inalterata. Non occorre ora che spieghi qui quali evoluzioni del pensiero religioso in forma di razionalizzazioni abbiano reso possibile questo ritorno. Robertson Smith, che non pensa lontanamente a far risalire, come noi facciamo, il sacrificio a quel grande evento della preistoria umana, afferma che le cerimonie delle feste con le quali gli antichi semiti celebravano la morte di una divinità erano spiegate come commemoration of a mythical tragedy292 [commemorazione di una tragedia mitica] e che il compianto che vi si levava non aveva il carattere di una partecipazione spontanea, ma recava in sé qualcosa di coatto, di imposto dal timore dell’ira divina.293 Crediamo che questa interpretazione sia esatta, e che i sentimenti dei partecipanti alla festa trovassero la loro brava spiegazione nella situazione ch’era alla radice della cerimonia.
A questo punto accettiamo come un dato di fatto che anche nell’evoluzione successiva delle religioni i due elementi impellenti, il senso di colpa e la fierezza del figlio, non dileguarono mai. Ogni tentativo di soluzione del problema religioso, ogni modo di conciliare le due forze psichiche contrastanti si dimostrò via via caduco, probabilmente sotto l’influenza combinata di eventi storici, mutamenti culturali e trasformazioni psichiche interne.
Con chiarezza sempre maggiore emerge l’aspirazione del figlio a prendere il posto del dio-padre. Con l’introduzione dell’agricoltura cresce l’importanza del figlio nell’ambito della famiglia patriarcale. Egli concede nuove forme di espressione alla sua libido incestuosa, che trova un soddisfacimento simbolico nel lavorare la Madre Terra. Nascono le figure divine di Attis, Adone, Tammuz e così via, spiriti della vegetazione e, al tempo stesso, divinità giovanili che godono dei favori amorosi di divinità materne e, a dispetto del padre, effettuano l’incesto con la madre. Ma il senso di colpa, non alleviato da queste creazioni, si esprime nei miti, che a questi giovani amanti delle dee-madri destinano una vita breve e una punizione mediante evirazione o provocata dall’ira del dio-padre in forma di animale. Adone è ucciso dal cinghiale, l’animale sacro ad Afrodite; Attis, l’amante di Cibele, muore per evirazione.294 Il compianto e la gioia per la resurrezione di questi dei è passato nel rito di un’altra divinità-figlio, destinata a un successo duraturo.
Quando il cristianesimo cominciò la sua penetrazione nel mondo antico, si scontrò con la concorrenza della religione di Mitra, e per un certo periodo fu dubbio quale divinità sarebbe riuscita a spuntarla. La luminosa figura del giovane dio persiano è rimasta tuttavia avvolta nell’oscurità. Possiamo forse dedurre dalle raffigurazioni di uccisioni di tori compiute da Mitra che egli rappresentava il figlio che eseguì da solo il sacrificio del padre e liberò in tal modo i fratelli dall’opprimente correità nel crimine. C’era un’altra via per alleviare questo senso di colpa, e fu la via che imboccò per primo Cristo. Egli venne e sacrificò la propria vita, liberando così la schiera dei fratelli dal peccato originale.
La dottrina del peccato originale è di origine orfica: era conservata nei misteri e di qui penetrò nelle scuole filosofiche dell’antichità greca.295 Gli uomini erano discendenti di Titani, che avevano ucciso e sbranato il giovane Dioniso-Zagreus; il peso di questo crimine gravava su di loro. In un frammento di Anassimandro si legge che l’unità del mondo è stata distrutta da un crimine remotissimo,296 e che tutto ciò che ne è seguito deve continuare a portarne la pena. Se l’azione dei Titani ricorda abbastanza chiaramente, attraverso gli elementi dell’assembramento, dell’uccisione e dello sbranamento, il sacrificio totemico descritto da san Nilo297 – come del resto ricordano parecchi altri miti dell’antichità, per esempio la morte dello stesso Orfeo – tuttavia c’è nel mito dei Titani un’eccezione che ci disturba: il fatto che l’assassinio sia compiuto su un dio giovane.
Nel mito cristiano il peccato originale dell’uomo è indubbiamente un’offesa contro Dio Padre. Ora, se Cristo libera gli uomini dal peso del peccato originale sacrificando la sua stessa vita, ci costringe a concludere che questa colpa fu un assassinio. Secondo la legge del taglione, profondamente radicata nella sensibilità dell’uomo, un assassinio può essere espiato soltanto col sacrificio di un’altra vita; il sacrificio di sé ci fa risalire a un’omicidio.298 E se questo sacrificio della propria vita conduce alla riconciliazione col Dio Padre, il crimine da espiare non può essere altro che l’uccisione del padre.
In tal modo, l’umanità confessa nel modo più manifesto, nella dottrina cristiana, la colpevole azione commessa nella notte dei tempi, poiché essa ha ora trovato nella morte sacrificale dell’unico Figlio l’espiazione più completa per questo crimine. La riconciliazione con il padre è tanto più profonda perché, contemporaneamente a questo sacrificio, ha luogo la rinuncia totale alla donna, a causa della quale ci si era ribellati al padre. Ma a questo punto anche la fatalità psicologica dell’ambivalenza reclama i suoi diritti. Con la medesima azione che offre al padre la massima espiazione possibile anche il figlio raggiunge lo scopo dei suoi desideri contro il padre. Diventa egli stesso Dio accanto, anzi propriamente al posto del padre. La religione del Figlio si sostituisce a quella del Padre. In segno di questa sostituzione viene richiamato in vita l’antico banchetto totemico in forma di Comunione, nella quale la schiera dei fratelli consuma la carne e il sangue del Figlio, non più del Padre, e con questo atto si santifica e identifica con Lui. Il nostro sguardo persegue attraverso il trascorrere dei tempi l’identità del banchetto totemico col sacrificio animale, col sacrificio degli dei umani incarnati e con l’eucarestia cristiana e riconosce in tutte queste solennità la conseguenza del crimine che ha tanto oppresso gli uomini e del quale tuttavia essi dovettero andare così superbi. Ma la Comunione cristiana è in fondo una nuova eliminazione del padre, una ripetizione dell’azione da espiare. Notiamo quanto è fondata l’affermazione di Frazer: “La Comunione cristiana ha assorbito in sé un sacramento che è senza dubbio assai più antico del cristianesimo.”299
Un evento come l’uccisione del progenitore ad opera della schiera di fratelli doveva lasciare tracce incancellabili nella storia dell’umanità e finire con l’esprimersi per dei tramiti sostitutivi tanto più numerosi quanto meno il fatto era ricordato in sé.300 Resisterò alla tentazione di segnalare queste tracce nella mitologia, dove non è difficile trovarle, e mi rivolgerò a un altro campo, seguendo un’indicazione di Salomon Reinach contenuta in un suggestivo saggio sulla morte di Orfeo.301
Nella storia dell’arte greca c’è una situazione che presenta evidenti analogie, e differenze non minori, con la scena del pasto totemico indicata da Robertson Smith. È la situazione della tragedia greca più antica. Una massa di persone, tutte con lo stesso nome e lo stesso abito, circonda un unico individuo dalle cui parole e azioni dipendono tutti: sono il Coro e l’attore, in origine unico, che rappresenta l’Eroe. Ulteriori sviluppi introdussero poi un secondo e un terzo attore per rappresentare l’antagonista dell’Eroe e personaggi provenienti dalla scissione della sua figura, ma sia il carattere dell’Eroe che il suo rapporto con il Coro rimasero invariati. L’Eroe della tragedia doveva soffrire: questo è ancor oggi il contenuto essenziale di una tragedia. Egli s’era addossato la cosiddetta “colpa tragica”, che non è sempre facile motivare; spesso non è una colpa nel senso della vita borghese. Di regola la colpa consisteva nella ribellione a un’autorità divina o umana, e il Coro accompagnava l’Eroe con sentimenti di simpatia, cercava di trattenerlo, di ammonirlo, di moderarlo e, quando egli aveva ricevuto la punizione che si considerava meritata per la sua azione temeraria, lo compiangeva.
Ma perché l’Eroe della tragedia deve soffrire, e che cosa significa la sua “tragica” colpa? Tagliamo corto alla discussione con una risposta rapida. Egli deve soffrire perché è il progenitore, l’Eroe di quella grande tragedia primordiale che trova qui una ripetizione tendenziosa, e la colpa tragica è quella ch’egli deve addossarsi per sgravare il Coro della sua colpa. La scena sul palcoscenico procede dalla scena storica mediante un opportuno svisamento, anzi potremmo dire: al servizio di una raffinata ipocrisia. Nella realtà di un tempo erano proprio i membri del Coro ad avere causato le sofferenze dell’Eroe; ora invece essi si macerano nella partecipazione e nel rimpianto e l’Eroe è il responsabile diretto della propria sofferenza. Il delitto che si riversa su di lui, l’arroganza e la ribellione a una grande autorità, è precisamente quello che opprime in realtà i membri del Coro, la schiera dei fratelli. Così l’Eroe tragico è trasformato, contro voglia, in salvatore e liberatore del Coro.
Considerando che nella tragedia greca lo spettacolo verteva specificamente sui dolori del capro divino, Dioniso, e sul compianto del seguito di capri che si identificava con lui, è facile capire come la rappresentazione drammatica, già estinta, rinacque di nuovo nel Medioevo con la Passione di Cristo.
Giunto al termine di questa ricerca condotta con estrema concisione, mi sia consentito rienunciarne il risultato: gli inizi della religione, della moralità, della società e dell’arte s’incontrano nel complesso edipico, in piena concordanza con ciò che la psicoanalisi ha stabilito, cioè che questo complesso costituisce il nucleo di tutte le nevrosi, nella misura in cui fino a oggi si sono aperte alla nostra comprensione. Ed è una grossa sorpresa per me che anche i problemi della vita della psiche dei popoli ci abbiano permesso di trovare una soluzione a partire da un unico punto concreto: il rapporto con il padre. Forse è perfino possibile includere in questo contesto un altro problema psicologico. Abbiamo avuto spesso l’opportunità di indicare, alla radice di importanti formazioni culturali, l’ambivalenza emotiva in senso proprio, ossia l’incontro di amore e odio verso lo stesso oggetto. Sull’origine di questa ambivalenza non sappiamo nulla. Si può avanzare l’ipotesi che sia un fenomeno fondamentale della nostra vita emotiva. Ma mi sembra assolutamente degna di considerazione anche l’altra possibilità, ossia che l’ambivalenza, originariamente estranea alla vita emotiva, sia stata acquisita dall’umanità partendo dal complesso paterno,302 nel quale, come mostra l’indagine psicoanalitica sull’individuo, ancor oggi l’impronta dell’ambivalenza è più forte.303
Prima di concludere, devo dedicare un po’ di spazio a una osservazione, ossia che l’alto grado di convergenza verso un nesso complessivo, da noi raggiunto in queste esposizioni, non può renderci ciechi di fronte alle incertezze delle nostre premesse e alle difficoltà che presentano i nostri risultati. E a proposito di queste difficoltà mi limiterò a trattarne due soltanto che potrebbero essersi presentate alla mente di qualche lettore.
In primo luogo non può essere sfuggito a nessuno che noi procediamo dovunque dall’ipotesi di una psiche collettiva nella quale i processi mentali si compiono come nella vita mentale dell’individuo. In particolare, facciamo sopravvivere per molti millenni il senso di colpa causato da un’azione, e lo facciamo restare operante per generazioni e generazioni che di questa azione non potevano saper niente. Facciamo proseguire un processo emotivo, quale poteva sorgere in generazioni di figli maltrattati dal padre, in nuove generazioni che proprio l’accantonamento del padre aveva sottratte a simile trattamento. Sembra trattarsi di difficoltà molto gravi, e ogni altra spiegazione che riuscisse a evitare tali premesse parrebbe meritare la preferenza.
Tuttavia una riflessione ulteriore mostra che non siamo i soli a dover portare la responsabilità di tanto ardire. Senza l’ipotesi di una psiche collettiva, di una continuità nella vita emotiva degli uomini, che permetta di trascurare le interruzioni degli atti mentali provocate dalla morte degli individui, tutta la psicologia dei popoli non potrebbe sussistere. Se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni suo atteggiamento verso l’esistenza dovrebbe essere acquisito ex novo, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e praticamente nessuna evoluzione. A questo punto ecco sorgere due nuovi problemi: in che misura si può fare affidamento sulla continuità psichica nell’ambito della successione di generazioni? e di quali mezzi e vie si serve una generazione per trasferire alla successiva le sue condizioni psichiche? Non sarò io ad affermare che questi problemi siano sufficientemente chiariti, o che la comunicazione diretta e la tradizione, alle quali si pensa per prima cosa, siano sufficienti alla bisogna. In generale la psicologia dei popoli si preoccupa poco dei modi in cui si verifica l’auspicata continuità nella vita mentale delle generazioni che si susseguono l’una all’altra. Parte del compito sembra assolta con l’ereditare disposizioni psichiche, che richiedono tuttavia certe spinte nella vita individuale per ridestarsi e operare. Forse è questo il senso delle parole del poeta:
Was du
ererbt von deinen Vätern hast,
Erwirb es, um es zu besitzen.
[Ciò che hai ereditato dai
padri,
Riconquistalo, se vuoi possederlo davvero].304
Il problema apparirebbe ancora più difficile se potessimo ammettere che vi sono moti psichici tali da poter essere repressi senza lasciare traccia, al punto che non ne resti il minimo residuo. Ma moti del genere non esistono. Anche la repressione più violenta è costretta a lasciare spazio a moti sostitutivi deformati e alle reazioni che ne conseguono. Ma allora dobbiamo ammettere che nessuna generazione è in grado di nascondere alla successiva processi psichici piuttosto importanti. La psicoanalisi ci ha infatti insegnato che ogni uomo possiede nella sua attività mentale inconscia un apparato che gli consente di interpretare le reazioni di altri uomini, ossia di render vane le deformazioni che l’altro ha imposto all’espressione delle sue emozioni. Su questa strada, costituita dalla comprensione inconscia di tutti i costumi, delle cerimonie e dei canoni lasciati alle spalle dal rapporto originario con il progenitore, può essere riuscito a generazioni successive di assumere quell’eredità emotiva.
Un’altra difficoltà potrebbe venire avanzata proprio da parte di chi ragiona analiticamente. Noi abbiamo spiegato le prime prescrizioni e restrizioni morali della società primitiva come reazione a un’azione che diede ai suoi promotori il concetto di crimine. Essi provarono rimorso per questa azione e decisero che non dovesse più ripetersi, e che l’averla compiuta non doveva apportare alcun guadagno. Questo senso creativo della colpa non si è spento in noi. Lo troviamo operante in maniera asociale nei nevrotici per produrre nuove prescrizioni morali, limitazioni continuative, come espiazione per i misfatti compiuti e precauzione contro i misfatti ancora da compiere (vedi sopra, cap. 2, par. 4). Ma se indaghiamo in questi nevrotici per scoprire i fatti che hanno provocato tali reazioni, andiamo incontro a una delusione. Non troviamo azioni, ma soltanto impulsi, emozioni, che mirano al male, ma ne sono stati trattenuti prima di compierlo. Alla base del senso di colpa dei nevrotici ci sono soltanto realtà psichiche, non realtà di fatto. La nevrosi è caratterizzata dal fatto di porre la realtà psichica al di sopra della realtà effettiva, di reagire a pensieri con la stessa serietà con cui gli uomini normali reagiscono soltanto di fronte a realtà.
Non può essersi verificato qualcosa di analogo presso i primitivi? Noi siamo giustificati nell’attribuire loro un’eccezionale sopravvalutazione dei loro atti psichici come fenomeno parziale della loro organizzazione narcisistica (vedi sopra, cap. 3, par. 2). Di conseguenza potrebbero essere bastati i semplici impulsi di ostilità verso il padre, l’esistenza della fantasia di desiderio di ucciderlo e divorarlo per provocare la reazione morale che ha dato vita al totemismo e al tabù. In tal modo si eviterebbe la necessità di far risalire l’inizio del nostro patrimonio culturale, del quale siamo giustamente così orgogliosi, a un delitto ripugnante che offende tutti i nostri sentimenti. Il nesso causale che intercorre da quell’inizio fino all’epoca presente non subirebbe danno alcuno da tale ipotesi, perché la realtà psichica sarebbe sufficientemente significativa per sostenere tutte queste conseguenze. Si obietterà che un mutamento della società dalla forma dell’orda paterna a quella del clan fraterno si è realmente verificato. È un argomento solido, ma non decisivo. Il mutamento potrebbe essere stato raggiunto in maniera meno violenta e tuttavia contenere la condizione per l’emergere della reazione morale. Finché la pressione del progenitore fu percepibile, i sentimenti ostili nei suoi confronti erano giustificati, e il rimorso per questi sentimenti doveva attendere un’altra fase cronologica. Altrettanto poco plausibile è la seconda obiezione, che tutto ciò che deriva dalla relazione ambivalente verso il padre – tabù e prescrizioni afferenti al sacrificio – reca in sé un carattere di estrema serietà e di totale realtà. Anche il cerimoniale e le inibizioni degli ossessi mostrano questa caratteristica, eppure risalgono soltanto a una realtà psichica, a proponimenti e non a esecuzioni. Dobbiamo guardarci dall’introdurre dal nostro mondo concreto, pieno di valori materiali, il disprezzo per ciò che è semplicemente pensato e desiderato nel mondo del primitivo e del nevrotico, ricco solo interiormente.
Siamo qui di fronte a una decisione che certamente non è facile. Dobbiamo però per prima cosa ammettere che la differenza, che ad altri può apparire fondamentale, non tocca a nostro giudizio l’essenza del problema. Se per il primitivo desideri e impulsi hanno il pieno valore di fatti, è nostro compito seguire con comprensione questo loro atteggiamento mentale anziché correggerlo secondo un nostro metro. Ma a questo punto vogliamo osservare più a fondo il quadro della nevrosi che ci ha portati a questo dubbio. Non è esatto dire che i nevrotici che soffrono d’ossessioni, i quali si trovano oggi sotto il peso di una loro supermorale, si difendano solo da una realtà psichica tentatrice e si puniscano a causa di impulsi unicamente sentiti. C’è in questo quadro anche una parte di realtà storica: durante l’infanzia questi uomini hanno subito puramente e semplicemente cattivi impulsi, e li hanno tradotti in azioni nella misura consentita dall’impotenza propria del bambino. Ognuno di questi superbuoni ha avuto la sua epoca cattiva nell’infanzia, una fase perversa che è stata precorritrice e precondizionatrice della successiva fase supermorale. L’analogia tra primitivi e nevrotici scende quindi assai più alla radice se supponiamo che anche tra i primitivi la realtà psichica, sulla cui conformazione non c’è alcun dubbio, coincise inizialmente con la realtà di fatto, che cioè i primitivi hanno fatto realmente ciò che, stando a tutte le testimonianze, avevano intenzione di fare.
Non dobbiamo neppure lasciare influenzare troppo il nostro giudizio sui primitivi dall’analogia con i nevrotici. Bisogna considerare anche le differenze. Certo non esistono né tra i primitivi né tra i nevrotici le rigide distinzioni fra pensare e agire che riscontriamo in noi. Ma il nevrotico è inibito soprattutto nell’agire, in lui il pensiero sostituisce completamente l’azione. Il primitivo invece è privo di inibizioni, il pensiero si trasforma senz’altro in azione, per lui l’azione è per così dire un sostituto del pensiero. Ecco perché credo, pur senza pretendere ad asserzioni finali, che nel nostro caso si possa presumere: “In principio era l’Azione.”305