Egregi Signori, sono trascorsi circa otto anni da quando, su invito del vostro compianto presidente, il professor von Reder, ho avuto occasione di parlare nella vostra cerchia sul tema dell’isteria. Poco tempo prima (nel 1895) avevo pubblicato in collaborazione con il dottor Josef Breuer gli Studi sull’isteria e, sulla base della nuova conoscenza che dobbiamo a questo ricercatore, avevo intrapreso il tentativo di introdurre un nuovo metodo di trattamento della nevrosi. Sono lieto di potervi dire che gli sforzi dei nostri Studi hanno avuto successo: le idee in essi sostenute sul modo in cui agiscono i traumi psichici mediante la ritenzione di affetto, e la concezione dei sintomi isterici come risultati di un eccitamento trasferito dall’ambito psichico a quello corporeo, idee per le quali avevamo coniato i termini “abreagire” e “conversione”, sono oggi universalmente note e capite. Non v’è – perlomeno nei paesi di lingua tedesca – esposizione dell’isteria che non ne tenga conto in una certa misura, né collega che, almeno per un certo tratto, non segua questa teoria. Eppure queste tesi e questi termini, quand’erano ancora nuovi, devono essere apparsi piuttosto strani!
Lo stesso non posso dire del procedimento terapeutico che è stato proposto ai colleghi contemporaneamente alla nostra teoria. Questo lotta a tutt’oggi per il proprio riconoscimento. Se ne possono invocare ragioni specifiche. A quel tempo la tecnica del procedimento non era ancora completamente sviluppata; io non ero in grado di dare al medico lettore del libro quelle istruzioni che lo avrebbero reso capace di eseguire integralmente un trattamento del genere. Ma certo hanno agito anche ragioni di ordine generale. A molti medici la psicoterapia appare ancor oggi come un prodotto del misticismo moderno e, in confronto ai nostri mezzi terapeutici fisico-chimici, che vengono applicati in base a cognizioni fisiologiche, appare come assolutamente non scientifica, indegna dell’interesse di un ricercatore. Permettetemi dunque di perorare dinanzi a voi la causa della psicoterapia e di mettere in rilievo ciò che in questa condanna può essere designato come un’ingiustizia o un errore.
Per prima cosa permettetemi di ricordarvi che la psicoterapia non è un metodo di cura moderno. Al contrario, è la più antica terapia di cui la medicina si sia servita. Nell’istruttivo trattato di Löwenfeld,597 potete leggere quali fossero i metodi della medicina primitiva e di quella antica. Dovrete in massima parte ascriverli alla psicoterapia; ai fini della guarigione i malati venivano posti in uno stato di “confidente attesa”, il che vale ancor oggi. Anche dopo che i medici hanno scoperto altri rimedi, sforzi psicoterapeutici di un genere o dell’altro non sono mai mancati nella medicina.
In secondo luogo desidero richiamare la vostra attenzione sul fatto che noi medici non possiamo rinunciare alla psicoterapia per la semplice ragione che l’altra parte coinvolta nel processo di guarigione – e cioè il malato – non ha l’intenzione di rinunciarvi. Sapete quali schiarimenti in proposito dobbiamo alla scuola di Nancy (Liébeault, Bernheim). Vi è un fattore dipendente dalla disposizione psichica dei malati che interviene, senza intenzione da parte nostra, nell’effetto di ogni procedimento terapeutico avviato dal medico, nella maggior parte dei casi in senso favorevole, ma spesso anche in senso inibitorio. Abbiamo imparato a usare per questo fatto il termine di “suggestione”, e Moebius ci ha insegnato che la precarietà di molti nostri metodi terapeutici, da noi lamentata, è da ricondursi proprio all’azione perturbatrice di questo potentissimo fattore. Tutti noi medici, voi stessi, esercitiamo quindi costantemente la psicoterapia, anche quando non lo sappiamo e non intendiamo farlo, ma è dannoso lasciare così interamente nelle mani dell’ammalato il fattore psichico nell’azione che esercitate su di lui, perché questo fattore diviene in tal modo incontrollabile, indosabile, non passibile di accrescimento. Non è quindi uno sforzo giustificato da parte del medico il tentare di impossessarsi di questo fattore, di servirsene intenzionalmente, di guidarlo e rafforzarlo? Questo, e nient’altro, richiede da voi la psicoterapia scientifica.
In terzo luogo, egregi colleghi, voglio rimandarvi alla verità, ben nota da tempo, che certe malattie, e le psiconevrosi in particolare, sono assai più accessibili a influssi psichici che a qualsiasi altra forma di medicamento. Non è un’affermazione moderna, ma una sentenza di antichi medici, che a guarire queste malattie non è il medicamento, bensì il medico, cioè la personalità del medico, in quanto attraverso di essa egli esercita un influsso psichico. So bene, miei egregi colleghi, che tra di voi è molto in voga quella concezione espressa in forma classica dal professore di estetica Vischer nella sua parodia del Faust che ha per titolo Faust: parte terza della tragedia:598
Ich
weiss, das Physikalische
Wirkt öfters aufs Moralische.
[Mi è noto che il fisico
Spesso influisce sul morale.]
Ma non sembrerebbe più appropriato e più spesso esatto dire che si possa influire sul morale di una persona con mezzi morali, cioè psichici?
Vi sono molti tipi e mezzi di psicoterapia. Buoni sono tutti quelli che raggiungono lo scopo della guarigione. Le nostre abituali parole di consolazione: “Presto starà bene di nuovo!” di cui siamo così prodighi con i malati, corrispondono a uno dei metodi psicoterapeutici; ma ora che la nostra comprensione della natura delle nevrosi si è fatta più profonda, non siamo più costretti a limitarci alle parole di conforto. Abbiamo sviluppato la tecnica della suggestione ipnotica, della psicoterapia basata sul diversivo, sull’esercizio e sul richiamo di affetti adeguati. Io non disprezzo nessuna di queste tecniche e le praticherei tutte in condizioni idonee. Se in realtà mi sono limitato a un unico procedimento terapeutico, al metodo chiamato da Breuer “catartico” e che io preferisco chiamare “analitico”, l’ho fatto perché determinato da motivi puramente soggettivi. In conseguenza della parte da me avuta nell’ideare questa terapia, mi sento personalmente obbligato a dedicarmi al suo studio e al perfezionamento della sua tecnica. Posso affermare che il metodo analitico di psicoterapia è quello che agisce più a fondo, che porta più lontano, e quello per cui si ottiene nel malato il più rilevante cambiamento. Prescindendo per un istante dall’aspetto terapeutico, posso far notare, in suo favore, che è il più interessante, l’unico a insegnarci qualcosa sull’origine e sulla interconnessione dei fenomeni morbosi. Data la comprensione che tal metodo ci apre riguardo al meccanismo delle malattie psichiche, esso solo potrebbe essere in grado di condurci oltre sé stesso e di indicarci la via verso modi ancora diversi di influire terapeuticamente.
Riguardo a questo metodo catartico o analitico di psicoterapia permettetemi ora di rettificare alcuni errori e di offrire alcuni chiarimenti.
a) Noto che spesso questo metodo viene confuso con il trattamento di suggestione ipnotica, e lo noto per il fatto che relativamente spesso mi vengono inviati malati anche da colleghi di cui non godo di solito la fiducia, malati refrattari, naturalmente, con l’incarico di ipnotizzarli. Eppure da circa otto anni io non pratico più l’ipnosi per scopi terapeutici (a eccezione di qualche raro esperimento) e sono solito rimandare indietro le persone inviatemi esprimendo il parere che chi fa assegnamento sull’ipnosi può eseguirla lui stesso. In realtà, tra la tecnica della suggestione e quella analitica esiste la più grande antitesi, quell’antitesi che il grande Leonardo da Vinci ha compendiato, per quanto riguarda le arti, nelle formule “per via di porre” e “per via di levare”. La pittura, dice Leonardo, opera “per via di porre”: essa applica cioè piccole masse di colore là dove prima non c’erano, sulla tela incolore; la scultura, per contro, procede “per via di levare”, ossia toglie dal blocco di pietra quel tanto che copre la superficie della statua in esso contenuta.599 In maniera del tutto analoga, Signori, la tecnica della suggestione cerca di agire “per via di porre”, non curandosi della provenienza, della forza e del significato dei sintomi patologici, ma sovrapponendovi qualcosa, vale a dire la suggestione, dalla quale essa si attende che sia abbastanza forte da impedire all’idea patogena di manifestarsi. La terapia analitica, invece, non vuol sovrapporre né introdurre alcunché di nuovo, bensì toglier via, far venir fuori, e a tale scopo si preoccupa della genesi dei sintomi morbosi e del contesto psichico dell’idea patogena che mira a eliminare. Con questo indirizzo di ricerca essa ha fatto enormemente avanzare le nostre cognizioni. Ho abbandonato così presto la tecnica della suggestione, e con essa l’ipnosi, perché disperavo di poter rendere la suggestione tanto forte e resistente quanto sarebbe occorso per una guarigione duratura. In tutti i casi gravi ho visto sgretolarsi la suggestione che vi era stata sovrapposta, dopo di che ricompariva la malattia o qualcosa che la sostituiva. A questa tecnica rimprovero altresì di impedirci la comprensione del gioco delle forze psichiche, ad esempio di occultarci la resistenza con la quale i malati si tengono aggrappati alla loro malattia, con la quale lottano persino contro la guarigione, e che pure è la sola che ci consenta di intendere il loro comportamento nella vita.
b) Mi sembra assai diffuso fra i colleghi l’errore di ritenere che la tecnica che consiste nel rintracciare gli spunti della malattia e nell’eliminare per questa via le sue manifestazioni sia facile e ovvia. Lo deduco dal fatto che nessuno dei molti che si interessano alla mia terapia ed esprimono su di essa giudizi perentori mi ha mai domandato sinora come io proceda in realtà. L’unica ragione di ciò può essere che, a loro avviso, non c’è niente da domandare, la cosa è del tutto evidente. Di tanto in tanto apprendo anche con stupore che nel tale o tal altro reparto d’ospedale un giovane medico ha avuto l’incarico dal suo capo di intraprendere una “psicoanalisi” di una isterica. Sono persuaso che non gli si lascerebbe esaminare un tumore estirpato senza essersi prima accertati che la tecnica istologica gli è familiare. Analogamente mi giunge notizia che il tale o il tal altro collega fissa appuntamenti a un paziente per sottoporlo a un trattamento psichico, mentre io sono certo che non conosce la tecnica di una simile cura; egli aspetterà, quindi, che sia il malato a porgli di fronte i suoi segreti oppure a cercar scampo in una qualche sorta di confessione o confidenza. Non mi meraviglierei se il malato, sottoposto a un trattamento simile, ne traesse danno anziché profitto. Lo strumento psichico, in realtà, non è affatto facile da suonare. In simili occasioni mi vien fatto di pensare alle parole di un celebre nevrotico che, per la verità, non è mai stato in cura da un medico, ma è vissuto solo nella fantasia di un poeta. Mi riferisco ad Amleto principe di Danimarca. Il re ha mandato da lui due cortigiani, Rosenkranz e Guildenstern, perché lo interroghino e gli strappino il segreto del suo malumore. Egli li respinge. A questo punto vengono portati sulla scena alcuni pifferi. Amleto ne prende uno e prega uno dei due che lo tormentavano di suonarlo, dicendo che è facile come mentire. Il cortigiano rifiuta, perché non se n’intende affatto, e poiché egli non si lascia indurre a provare Amleto alla fine esclama: “Ebbene, guardate ora, come dappoco voi mi stimate! Voi vorreste sonare su di me; (...) vorreste strappare il cuore del mio mistero; vorreste sonarmi dalla mia nota più bassa fino alla cima del mio registro; e c’è dimolta musica, una voce eccellente, in questo piccolo organo, e pure voi non potete farlo parlare. Per il sangue di Cristo, credete che io sia più facile a sonarsi d’uno zufolo? Chiamatemi col nome dello strumento che volete, benché voi mi pizzichiate, voi non potete sonarmi.” (Atto 3, scena 2.)
c) Da certe mie osservazioni avrete indovinato che nella cura analitica si danno alcune caratteristiche per cui essa è lungi dall’essere la terapia ideale. Tuto, cito, iucunde; ma indagine e ricerca non promettono certo risultati rapidi, mentre l’accenno alla resistenza vi prepara ad aspettarvi inconvenienti di varia natura. Certo, il trattamento psicoanalitico pretende molto sia dal malato che dal medico: dal primo esige il sacrificio di una completa sincerità, gli assorbe molto tempo, e quindi è anche costoso; al medico sottrae ugualmente molto tempo ed è per lui piuttosto faticoso, a causa della tecnica che deve apprendere e praticare. Io trovo pure del tutto giustificato che si applichino metodi terapeutici più comodi finché si abbia la prospettiva di conseguire con essi qualche risultato. Il punto essenziale è solo questo: se con il procedimento più laborioso e più lungo si ottiene sensibilmente di più che con quello più corto e più facile, il primo è, malgrado tutto, giustificato. Pensate, Signori, quanto più scomoda e costosa è la finsenterapia del lupus rispetto alla cauterizzazione e raschiatura precedentemente in uso, eppure essa significa un grande progresso, per il semplice fatto che ottiene un risultato maggiore, cioè guarisce radicalmente il lupus. Ebbene, io non voglio spingere oltre il confronto, ma il metodo psicoanalitico può certo reclamare per sé un’analoga prerogativa. In realtà io ho potuto elaborare e sperimentare il mio metodo terapeutico solo in casi gravi e gravissimi; il mio materiale fu costituito in un primo tempo solo da malati che avevano provato di tutto senza successo e avevano soggiornato per anni in case di cura. Non ho accumulato esperienza sufficiente per potervi dire come la mia terapia agisca in quelle malattie più lievi, episodiche, che vediamo guarire per gli influssi più eterogenei e anche spontaneamente. La terapia psicoanalitica è stata creata su malati permanentemente incapaci di vivere e per essi, e il suo trionfo consiste nel renderne abili all’esistenza, per sempre, un numero soddisfacente. Di fronte a questo risultato ogni fatica appare dunque irrilevante. Non possiamo nascondere a noi stessi ciò che dinanzi al malato siamo soliti negare, e cioè che, per chi ne è affetto, una nevrosi grave non riveste un’importanza minore di una qualsiasi cachessia o di una delle temute malattie generali.
d) Non è possibile, o quasi, stabilire i casi in cui questo metodo è indicato o no, per le molte limitazioni pratiche cui è andata soggetta la mia attività. Voglio, tuttavia, chiarire alcuni punti:
1) Non si deve passar sopra, per la malattia, a quello che forma, altrimenti, il valore di una persona e si devono respingere quei malati che non possiedono un certo grado d’istruzione e un carattere che dia sufficiente affidamento. Non si deve dimenticare che anche tra i sani vi sono dei buoni a nulla e che nel caso di queste persone meno dotate si è anche troppo inclini ad ascrivere alla malattia tutto ciò che le rende inabili all’esistenza, allorché presentano qualche accenno di nevrosi. Sono del parere che la nevrosi non imprime affatto in chi ne è vittima il marchio di dégénéré, ma che abbastanza spesso si trova associata nello stesso individuo con le manifestazioni della degenerazione. Ora, la psicoterapia analitica non è un procedimento per la cura della degenerazione nevropatica; al contrario, incontra in questa un ostacolo. E neppure è applicabile a persone che non si sentano spinte alla terapia dalle loro sofferenze ma vi si sottopongano solo per ordine superiore dei loro congiunti. Torneremo ancora, da un altro punto di vista, sulla qualità essenziale per l’idoneità al trattamento analitico, sull’educabilità.
2) Se si vuol procedere sicuri, si deve limitare la propria scelta a persone che hanno uno stato normale, poiché da questa base, nel procedimento analitico, si arriva a dominare ciò che vi è in esse di patologico. Le psicosi, gli stati confusionali e la depressione profonda (vorrei dire tossica) sono pertanto inadatti alla psicoanalisi, perlomeno così come viene praticata fino a oggi. Io ritengo che non sia affatto da escludersi che, modificando opportunamente il procedimento, si possa superare questa controindicazione e dare così l’avvio a una psicoterapia delle psicosi.
3) L’età ha importanza nella scelta dei malati da sottoporre al trattamento analitico, in quanto che nelle persone vicine o al di là dei cinquant’anni viene di solito a mancare, da una parte, la plasticità dei processi psichici sulla quale la terapia fa assegnamento – le persone anziane non sono più educabili – e, dall’altra, il materiale da elaborare prolunga indefinitamente la durata del trattamento. Il limite minimo di età può essere determinato solo individualmente; i preadolescenti spesso possono essere ottimi soggetti da influenzare.
4) Non si farà ricorso alla psicoanalisi quando si tratta di eliminare rapidamente fenomeni pericolosi, quindi, ad esempio, nel caso di una anoressia isterica.
A questo punto avrete l’impressione che il campo d’applicazione della psicoterapia analitica sia molto ristretto, dal momento che non avete sentito da me nient’altro che controindicazioni. Ciò nondimeno rimane un numero sufficiente di casi e di forme morbose in cui questa terapia si può sperimentare: tutte le forme croniche di isteria con manifestazioni residue, il grande ambito degli stati ossessivi, delle abulie, e simili.
È consolante il fatto che con questo metodo sia possibile porgere aiuto proprio alle persone di maggior valore e per altri aspetti più evolute. Nei casi in cui con la psicoterapia analitica si è potuto concludere poco, si può tranquillamente affermare che qualsiasi altro trattamento non avrebbe certamente realizzato nulla del tutto.
e) Vorrete sicuramente interrogarmi sulla possibilità di provocare danni con l’applicazione della psicoanalisi. A questo proposito posso rispondervi che, se volete giudicare equamente, se volete dimostrare verso questo procedimento la stessa benevolenza critica che riservate agli altri nostri metodi terapeutici, dovrete convenire con me che, qualora la cura analitica sia condotta con discernimento, non c’è da temere alcun danno per il malato. Diverso sarà forse il giudizio di chi, da profano, è abituato a imputare alla cura tutto quanto si verifica in un caso di malattia. Non è lontano il tempo in cui un pregiudizio analogo esisteva nei confronti dei nostri stabilimenti idroterapici; sicché più d’uno di coloro cui si consigliava di recarsi in uno stabilimento del genere diventava esitante, perché aveva conosciuto qualcuno che era entrato nell’istituto come malato di nervi e là era diventato pazzo. Si trattava, come intuite, di casi di incipiente paralisi generale che, allo stadio iniziale, potevano ancora essere ricoverati in un istituto idroterapico e che ivi avevano seguito il loro inarrestabile corso sino al disturbo mentale manifesto; per i profani, l’acqua era colpevole e artefice di questo triste cambiamento. Di fronte a nuovi tipi di intervento, nemmeno i medici vanno sempre esenti da simili errori di giudizio. Mi ricordo di aver fatto una volta un tentativo di psicoterapia con una donna che aveva passato buona parte della sua esistenza fra un alternarsi di mania e di melanconia. La presi in cura alla fine di una melanconia; per due settimane sembrò andar bene; alla terza ci trovavamo già all’inizio di una nuova mania. Si trattava sicuramente di un cambiamento spontaneo del quadro clinico, dato che nel periodo di due settimane la psicoterapia non può cominciare a dare qualche risultato, ma l’esimio medico (ora defunto) che seguiva con me la malata non poté trattenersi dall’osservare che questo “peggioramento” poteva essere imputato alla psicoterapia. Sono pienamente convinto che in altre circostanze egli avrebbe dimostrato un maggior acume critico.
f) Per concludere, egregi colleghi, devo dire che non è ammissibile assorbire tanto a lungo la vostra attenzione in favore della psicoterapia analitica senza dirvi in che cosa consista questo trattamento e su che cosa si fondi. Invero, dovendo essere breve, posso farlo solo con un accenno. Questa terapia, dunque, si fonda sulla comprensione che le rappresentazioni inconsce, o meglio, la natura inconscia di certi processi psichici è la causa diretta dei sintomi morbosi. Noi sosteniamo questo convincimento assieme alla scuola francese (Janet), la quale del resto, con un’estrema schematizzazione, riconduce il sintomo isterico alla idée fixe inconscia.600 Ora non temete che finiamo nel profondo della più oscura filosofia. Il nostro inconscio non è del tutto uguale a quello dei filosofi, e inoltre la maggior parte di loro non vuol sentir parlare di “psichismo inconscio”. Se però guardate le cose dal nostro punto di vista, vi accorgerete che la traduzione di questo materiale inconscio esistente nella vita psichica del malato in materiale conscio deve avere il risultato di correggerne la deviazione dalla normalità e di eliminare la coazione cui soggiaceva la sua vita psichica. Infatti la volontà conscia si estende fino ai processi psichici consci e ogni coazione psichica è motivata dall’inconscio. Inoltre non dovete mai temere che il malato sia danneggiato dalla scossa procurata dall’immissione dell’inconscio nella sua coscienza, poiché potete rendervi ragione teoricamente che l’effetto somatico e affettivo dell’impulso divenuto conscio non potrà mai diventare grande come quello dell’impulso inconscio. È pur vero che noi dominiamo tutti i nostri impulsi solo per il fatto che rivolgiamo a essi le nostre più elevate prestazioni psichiche che sono collegate alla coscienza.
Potete tuttavia scegliere anche un altro angolo visuale per capire che cos’è il trattamento psicoanalitico. La scoperta e la traduzione dell’inconscio avvengono in presenza di una costante resistenza da parte del malato. L’affiorare di questo inconscio è collegato a dispiacere, e a causa di questo dispiacere è da lui continuamente respinto. Ora in questo conflitto della vita psichica del malato intervenite voi: se vi riesce di indurlo ad accettare, per ragioni di miglior comprensione, qualcosa che fino a quel momento aveva respinto (rimosso) in conseguenza della regolazione automatica del dispiacere, avrete compiuto su di lui un lavoro educativo. È già educazione, infatti, indurre una persona che non ama lasciare presto il letto la mattina a farlo ugualmente. In linea del tutto generale potete quindi considerare il trattamento analitico alla stregua di una post-educazione per il superamento di resistenze interiori. Sotto nessun altro aspetto tale post-educazione è tuttavia più indispensabile al malato di nervi quanto riguardo all’elemento psichico nella sua vita sessuale. Giacché in nessun altro campo come in questo la civiltà e l’educazione hanno procurato tanto danno, ed è qui anche che, come l’esperienza vi mostrerà, si possono riscontrare le etiologie delle nevrosi di cui è possibile aver ragione; l’altro elemento etiologico, la componente costituzionale, ci viene data infatti come qualcosa di immodificabile. Da ciò risulta però necessario che il medico risponda a un importante requisito. Non solo deve essere un carattere integro – “la moralità è sottintesa”, come suol dire il protagonista nell’Ancor uno di Theodor Vischer –, ma deve aver superato, per quanto riguarda la sua persona, quel miscuglio di concupiscenza e di pruderie con il quale purtroppo tanti altri sono soliti affrontare i problemi sessuali.
A questo punto è forse opportuna un’altra osservazione. So che la mia accentuazione dell’importanza della sessualità per l’insorgere delle psiconevrosi è divenuta largamente nota. Ma so anche che le limitazioni e le specificazioni più precise servono a ben poco presso il grande pubblico; la memoria della massa ha posto per poche cose e di un’asserzione ritiene solo il puro succo, mentre si crea una versione estrema facile da ricordare. Taluni medici possono anche essersi fatti l’idea che la mia teoria consista nell’attribuire le nevrosi in ultima analisi a privazione sessuale. Questa non fa difetto nelle condizioni di vita della nostra società. Come deve venir spontaneo, in base a questa premessa, evitare il più lungo e faticoso cammino attraverso la cura psichica e cercare di ottenere direttamente la guarigione raccomandando come rimedio l’attività sessuale! Ebbene, non so che cosa potrebbe indurmi a sopprimere questa conclusione, se fosse giustificata. Ma le cose stanno diversamente. Il bisogno e la privazione sessuale sono solo uno dei due fattori che entrano in gioco nel meccanismo della nevrosi; se non esistesse che questo, la conseguenza non sarebbe la malattia, ma la dissolutezza. L’altro fattore, altrettanto indispensabile, che si è fin troppo pronti a dimenticare, è l’avversione dei nevrotici per la sessualità, la loro incapacità di amare, quella caratteristica psichica che ho chiamato “rimozione”. Solo dal conflitto fra le due tendenze ha origine la malattia nevrotica ed è per questo che il raccomandare l’attività sessuale nelle psiconevrosi in effetto può essere definito solo raramente un buon consiglio.
Con questa osservazione a mia difesa permettetemi di concludere. Vogliamo sperare che il vostro interesse per la psicoterapia, privato da ogni pregiudizio ostile, ci sosterrà nell’intento di raggiungere risultati soddisfacenti anche nel trattamento dei casi gravi di psiconevrosi.