5.
Passarono cinque o dieci anni, e una quieta sera d’estate, Gordon e Dudorov sedevano, ancora una volta insieme, davanti a una finestra spalancata che dominava dall’alto l’immensa Mosca notturna. Sfogliavano il quaderno degli scritti, di Jurij, raccolti da Evgràf, un quaderno che avevano già letto più d’una volta e del quale sapevano gran parte a memoria. Rileggendolo, si scambiavano giudizi, si abbandonavano a riflessioni. Intanto si fece notte: cominciavano a non distinguere più i caratteri e dovettero accendere la luce.
Mosca stesa lì sotto e sperduta in lontananza, la città dove Jurij era nato e aveva vissuto metà delle proprie vicende, Mosca sembrava loro non il luogo di quegli avvenimenti, ma la principale eroina di un lungo romanzo al cui termine si erano ormai avvicinati con quel quaderno in mano, quella sera.
Benché il sereno e la libertà attesi dopo la guerra non fossero venuti insieme alla vittoria, come si pensava, questo non aveva importanza: il preannuncio della libertà era nell’aria, in quegli anni dei dopoguerra, e ne costituiva l’unico contenuto storico.
Agli amici ormai invecchiati, seduti presso la finestra, pareva che quella libertà dell’anima fosse giunta, che proprio quella sera il futuro si fosse tangibilmente calato in quelle vie, là sotto, che loro stessi fossero entrati nel futuro e ivi si trovassero d’ora in poi. Una gioiosa, commossa sicurezza per quella sacra città e per tutta la terra, per i personaggi di questa storia giunti fino a quella sera e per i loro figli, li penetrò e li afferrò con una sommessa musica di felicità, che si effondeva lontano, tutt’attorno. Il piccolo quaderno tra le loro mani sembrava sapesse tutto questo e desse ai loro sentimenti un sostegno e una conferma.