13.

Era una fredda giornata ventosa dei primi di marzo. Dopo aver sbrigato alcune faccende in città ed essersi affacciato un momento in biblioteca, Jurij Andrèevich all’improvviso mutò programma e decise di cercare della Antipov.

Per strada ogni tanto doveva fermarsi perché il vento gli sbarrava il cammino con nugoli di polvere e di sabbia. Si voltava, chiudeva gli occhi e abbassava la testa aspettando che il polverone passasse, e proseguiva.

La Antipov abitava all’angolo della via Kupèceskaja col vicolo Novosvàlochnyj davanti alla «casa con le statue» di un grigio cupo quasi bluastro, che il dottore ora vedeva per la prima volta. La casa meritava appieno il suo soprannome e produceva una strana impressione angosciosa.

In tutta la parte superiore era ornata di mitologiche cariatidi femminili, una volta e mezzo più grandi del naturale. Fra due folate di polvere che gli nascosero la facciata, il dottore ebbe per un istante l’impressione che tutta la popolazione femminile della casa fosse uscita sul balcone e, appoggiata al parapetto, guardasse lui e la via Kupèceskaja che s’allungava in basso.

Per salire dalla Antipov due erano gli ingressi: l’entrata padronale dalla strada, e una secondaria dal vicolo, in fondo al cortile. Non conoscendo l’esistenza dei primo ingresso, Jurij Andrèevich prese il secondo.

Quando dal vicolo passò oltre il portone, il vento sollevò al cielo la terra e la spazzatura nel cortile, velandogliene la vista; dietro quella nera cortina, gli passarono schiamazzando fra le gambe le galline rincorse dal gallo.

Poi il polverone si diradò e il dottore scorse la Antipov presso il pozzo. Il turbine l’aveva colta con entrambi i secchi già colmi e il bilanciere sulla spalla sinistra. S’era coperta alla svelta la testa con un fazzoletto annodato sulla fronte per proteggere i capelli e stringeva fra le ginocchia un lembo della veste perché il vento non la sollevasse. Stava per avviarsi verso casa, ma si fermò, trattenuta da una nuova raffica, che le strappò di testa il fazzoletto, scompigliandole i capelli, e lo fece volare verso l’angolo estremo del recinto, vicino alle galline che ancora schiamazzavano.

Jurij Andrèevich rincorse il fazzoletto, lo raccolse e, avvicinandosi al pozzo, lo consegnò alla Antipov sbalordita. Ma, fedele come sempre alla sua natura, ella non tradì con nessuna esclamazione la sorpresa e lo stupore. Disse soltanto:

«Zivago!»

«Larisa Fëdorovna!»

«Ma che miracolo! Come mai qui?»

«Posate i secchi. Li porto io.»

«Non cambio mai la strada che incomincio, non lascio mai niente a metà. Se era da me che venivate, andiamo.»

«E da chi pensate che vada?»

«Chissà.»

«Su, passatemi almeno il bilanciere. Non posso stare a far niente mentre voi vi affaticate.»

«Pensate un po’ che fatica! No, lo porto io. Voi bagnereste la scala. Ditemi, piuttosto, qual buon vento vi ha portato? Siete qui da più di un anno e non avete mai trovato un momento libero per passare da me?»

«Come fate a saperlo?»

«Le voci corrono, e poi vi ho visto in biblioteca.»

«Perché non mi avete chiamato?»

«Non mi vorrete far credere che non m’avete vista?»

Seguendo Larisa Fëdorovna che ondeggiava leggermente per il peso dei secchi oscillanti, il dottore passò sotto la bassa volta dell’ingresso di servizio del pianterreno. Chinandosi con un movimento rapido, Larisa Fëdorovna posò i secchi sul pavimento di terra battuta, liberò la spalla dal bilanciere, si raddrizzò e cominciò a pulirsi le mani con un minuscolo fazzoletto apparso chissà da dove.

«Andiamo. Vi condurrò all’ingresso padronale attraverso un passaggio interno. Là c’è luce e mi potrete aspettare. Io intanto porterò l’acqua, metterò un po’ di ordine di sopra e mi cambierò. Vedete la nostra scala? Gli scalini sono di ghisa, traforati. Così, dall’alto si può vedere tutto. E’ una vecchia casa. Nei giorni della sparatoria è stata un po’ danneggiata. Le cannonate, vedete, hanno sconnesso le pietre. Tra un mattone e l’altro ci sono buchi, spacchi. Ecco, in questo buco, io e Kàten’ka mettiamo la chiave di casa, quando usciamo, e la copriamo con un mattone. Ricordatevelo. Può darsi che qualche volta passiate di qui e non mi troviate. Aprite pure, entrate, fate come a casa vostra. E poi, io arriverò senz’altro. Eccola, è qui anche adesso, la chiave. Ma io non ne ho bisogno, entro dalla parte di dietro e apro la porta dall’interno. Il guaio qui sono i topi. Ce n’è un’infinità, non ci si può far niente, vi arrivano fino in testa. E’ una vecchia costruzione, i muri sono sconquassati, pieni di fessure. Per quanto posso le chiudo, cerco di combatterli, i topi. Ma serve a poco. Non vorrete venire ad aiutarmi un giorno? Aggiusteremo insieme i pavimenti, le piastrelle, eh? Bene, aspettatemi qui, pensate a qualcosa, intanto. Non vi farò aspettare molto, vi chiamerò presto.»

Mentre aspettava, Jurij Andrèevich si guardava intorno, osservando le pareti scrostate dell’ingresso e le piastre di ghisa della scala. Un biblioteca ho paragonato il trasporto con cui leggeva col calore e lo slancio di un vero lavoro, di un lavoro fisico. E, invece, porta l’acqua come se leggesse, con leggerezza, senza fatica. In ogni cosa ha la stessa naturalezza. Come se da tanto prima, dall’infanzia, avesse preso lo slancio verso la vita e adesso, su quella spinta, tutto le venga fatto da sé, con facilità, con spontaneità. E’ una cosa che si avverte anche nella linea della sua schiena, quando si china, nel sorriso che le schiude le labbra e le arrotonda il mento, e nelle sue parole, nei suoi pensieri.»

«Zivago!» udì chiamare dalla soglia di un appartamento al piano di sopra, e cominciò a salire.

Il dottor Zivago
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