7.
«Come vorrei, accanto al lavoro, alla fatica campestre o alla pratica medica, produrre qualcosa che resti, qualcosa d’importante, opera d’arte o di scienza che sia!
«Ogni uomo nasce Faust per comprendere tutto, tutto provare, tutto esprimere. Perché Faust fosse scienziato, ci fu bisogno degli errori dei predecessori e dei contemporanei. Nella scienza ogni passo avanti si fa in base alla legge della repulsione, abbattendo gli errori dominanti e le false teorie.
«Ma perché Faust fosse artista, ci fu bisogno degli esempi trascinanti dei maestri. Ogni passo avanti nell’arte si fa in base alla legge dell’attrazione, imitando, seguendo, ammirando i precursori preferiti.
«Che cosa m’impedisce di svolgere un lavoro costante, di fare il medico e di scrivere? Credo non siano le privazioni e gli spostamenti, la provvisorietà e i frequenti mutamenti, ma il prevalere ai nostri giorni d’una rettorica altisonante, ovunque diffusa, tipo ‘l’aurora dell’avvenire’, la costruzione del mondo nuovo’, ‘il faro dell’umanità’. Davanti a questo, in un primo momento si pensa: che fantasia, che ricchezza! Ma in realtà non è che magniloquenza per mancanza di talento.
«E’ fantasia solo ciò che è comune, quando è sfiorato dalla mano del genio. La miglior lezione in proposito è Pushkin. Quale esaltazione del lavoro onesto, del dovere, delle cose quotidiane! Oggi, da noi, dire piccolo borghese, uomo qualunque, ha assunto un senso di biasimo. Ma già si previene questo biasimo nelle parole della «Genealogia»:
«Sono un borghese, un piccolo borghese».
e nel “Viaggio di Onegin”:
«Il mio ideale adesso è la massaia,
Mio desiderio un po’ di pace
E una pentola di “shci”, ma la più grossa».
«Dei nostri scrittori più d’ogni cosa io amo la russa semplicità di Pushkin e di Cechov, il loro schivo distacco da cose altisonanti, come le mete finali dell’umanità e la loro sorte particolare. Non che essi non si ponessero il problema, ma senza presumere di affrontare temi di quella portata. Non se ne sentivano all’altezza, non abbastanza degni. Gogol’, Tolstòj, Dostoevskij si preparavano alla morte, si tormentavano, cercavano una spiegazione, tiravano le somme. Loro, fino all’ultimo, furono distratti dalle particolarità dell’operazione artistica, e nel susseguirsi di queste passarono senz’accorgersene la vita, una particolarità anche questa privata, che non riguardava nessuno. Ed ecco che oggi, quelle loro particolarità assumono un valore universale e, come le mele colte non ancora mature, continuano a maturare nella posterità, arricchendosi di senso e dolcezza sempre maggiori.»
«I primi annunci della primavera. Disgelo. L’aria odora di frittelle e di vodka, come il giovedì grasso, quando anche il calendario sembra ricorrere a giochi di parole. Nel bosco, il sole si sgrassa e socchiude sonnolento gli occhi appiccicosi, sonnolento ammicca il bosco con le ciglia aghiformi, di grasso untume lustreggiano a mezzogiorno le pozzanghere. La natura sbadiglia, si stiracchia, si volta sull’altro fianco e si riaddormenta. Nel settimo capitolo dell’“Eugenio Onegin” c’è la primavera, la casa padronale ormai deserta dopo la partenza di Onegin, la tomba di Lenskij giù in basso, vicino alla sorgente, sotto il monte.
«Là l’usignolo, l’amante della primavera
Tutta la notte canta. Fiorisce la rosa canina».
«Perché amante? Detto genericamente è un epiteto naturale, appropriato. Sì, appunto l’amante. Per di più, ‘amante’ rima con ‘rosa canina’; e nel suono dell’immagine non c’è l’eco dell’«Usignolo brigante» della celebre “bylina”?
«Nella “bylina”, lui si chiama l’Usignolo brigante, figlio di Odimantij. Com’è detto bene!
«Forse è per il suo fischio d’usignolo,
Forse è per il suo grido di belva:
Le erbe dei prati s’intrecciano
Si risvegliano gli azzurri fiori,
I boschi oscuri s’inchinano alla terra,
Ma, quanta gente c’è, morta giace».