3.

Una sera, verso la fine di novembre, Jura rientrò tardi dall’università, stanchissimo e senza aver mangiato tutto il giorno. Gli dissero che durante la giornata erano stati in grande angoscia, perché Anna Ivànovna aveva avuto delle convulsioni e vari medici convenuti avevano consigliato di chiamare il sacerdote, anche se poi, in seguito, avevano cambiato idea. Ora stava meglio, si era ripresa e aveva chiesto che, non appena Jura fosse tornato, lo mandassero subito da lei.

Jura obbedì e, prima ancora di cambiarsi, entrò nella camera. C’erano ancora le tracce del recente scompiglio. Con movimenti silenziosi, un’infermiera riordinava qualcosa sul comodino. Dappertutto erano sparsi salviette sgualcite e asciugamani umidi, che erano serviti per gli impacchi. Nella catinella l’acqua era lievemente arrossata di sangue di sputi e vi giacevano, affondati, frantumi di fialette coi colli spezzati e turgidi batuffoli d’ovatta.

L’inferma, madida di sudore, con la punta della lingua si umettava le labbra inaridite. Appariva molto più emaciata che al mattino, quando Jura l’aveva vista per l’ultima volta.

«Purché non abbiano sbagliato diagnosi,» pensò Jura. «Sono tutti sintomi di polmonite crupale. Questa dovrebbe essere la crisi.» Salutata Anna Ivànovna e rivoltale qualche parola d’incoraggiamento, come si fa in casi simili, pregò l’infermiera di uscire dalla stanza. Prese tra le dita il polso di Anna Ivànovna e infilò l’altra mano nella giubba per prendere lo stetoscopio, ma con un cenno del capo ella gli fece segno che era inutile. Jura comprese che desiderava da lui qualcos’altro. Raccogliendo le forze, Anna Ivànovna riuscì a parlare:

«Sai, volevano che mi confessassi… sto per morire… Può essere da un momento all’altro… Se devi farti togliere un dente, hai paura, ti fa male, ti prepari… Qui non si tratta di un dente, ma di me stessa, tutta me stessa, tutta la vita… Zac! e fuori, come con le tenaglie… Ma che sarà? Non lo sa nessuno… E io ho tanta pena, tanta paura.»

Tacque. Le lacrime le scesero copiose giù per le guance. Jura non diceva nulla. Dopo un momento, Anna Ivànovna riprese:

«Tu hai talento… col talento che hai… non sei come gli altri… Tu devi sapere… Dimmi qualcosa. Tranquillizzami.»

«Che posso dirvi,» rispose Jura. Si mosse irrequieto sulla seggiola, si alzò, fece alcuni passi e sedette di nuovo. «Prima di tutto, domani vi sentirete meglio, ci sono i sintomi, son pronto a farmi tagliare la testa. E poi: la morte, la coscienza, la fede nella resurrezione… Volete sapere la mia opinione di naturalista? Non sarebbe meglio un’altra volta? No? Subito? Bene, come volete. Solo che è una cosa difficile, così, di punto in bianco.» E le improvvisò una lezione vera e propria, meravigliato egli stesso che gli riuscisse.

«La resurrezione. Nella forma più volgare in cui se ne parta, a consolazione dei deboli, mi è estranea. E anche le parole di Cristo sui vivi e sui morti io le ho intese sempre in altro modo. Dove mettereste questi immensi eserciti arruolati in tutti i millenni? Non basterebbe l’universo, e la divinità, il bene e il raziocinio dovrebbero cedere il posto. In quell’avida calca animalesca sarebbero schiacciati.

«Ma, nel tempo, sempre la medesima vita, incommensurabilmente identica, riempie l’universo, a ogni ora si rinnova in innumerevoli combinazioni e trasformazioni. Ecco, voi vi preoccupate se risorgerete o meno, mentre siete già risorta, senza accorgervene, quando siete nata.

«Sentirete dolore? Sente forse il tessuto la propria dissoluzione? Cioè, in altre parole, che sarà della vostra coscienza? Ma che cos’è la coscienza? Vediamo. Desiderare coscientemente di dormire è insonnia garantita, tentare coscientemente di avvertire il lavorio della propria digestione è esattamente voler perturbare la sua innervazione. La coscienza è un veleno, un mezzo di autoavvelenamento per il soggetto che la applica su se stesso. La coscienza è luce, proiettata al di fuori e che illumina la strada davanti a noi, perché non si inciampi. La coscienza sono i fari accesi davanti a una locomotiva che corre. Rivolgete la loro luce all’interno e succederà una catastrofe.

«Dunque, che sarà della vostra coscienza? Della vostra. La vostra. Ma voi, che cosa siete? Qui sta il punto. Guardiamo meglio. In che modo avete memoria di voi stessa, di quale parte del vostro organismo siete cosciente? Dei vostri reni, del fegato, dei vasi sanguigni? No, per quanto ricordiate, di voi vi siete sempre accorta in una estrinsecazione, in un atto, nelle opere delle vostre mani, in famiglia, fra gli altri. E, ora, state bene attenta. L’uomo negli altri uomini, ecco che cos’è l’anima dell’uomo. Ecco che cosa siete voi, ecco di che cosa ha respirato, si è nutrita, si è abbeverata per tutta la vita la vostra coscienza. Della vostra anima, della vostra immortalità, della vostra vita negli altri. E allora? Negli altri siete vissuta, negli altri resterete. Che differenza fa per voi se poi ciò si chiamerà memoria? Sarete ancora voi, entrata a far parte del futuro.

«Un’ultima cosa. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. La morte non esiste. La morte non riguarda noi. Ecco, voi avete parlato di talento, questa è un’altra cosa, una cosa nostra, scoperta da noi. E il talento, nella sua nozione più alta e più lata, è il dono della vita.

«Non vi sarà morte, dice Giovanni Evangelista: guardate come è semplice la sua argomentazione. Non vi sarà morte, perché il passato è ormai trascorso. Quasi come dire: non vi sarà morte, perché questo è già stato visto, è vecchio e ha stancato, e ora occorre qualcosa di nuovo e il nuovo è la vita eterna.»

Parlando, Jura passeggiava per la stanza. «Dormite,» disse accostandosi al letto e ponendo le mani sulla testa dell’inferma. Passò qualche minuto e Anna Ivànovna cominciò ad assopirsi.

Silenziosamente Jura usci dalla stanza e disse alla Egòrovna di richiamare l’infermiera. «Che diavolo,» pensò, «sto diventando una specie di ciarlatano. Mi metto pure a fare scongiuri, a curare la gente imponendo le mani.»

Il giorno dopo Anna Ivànovna stava meglio.

Il dottor Zivago
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