9.
Sopravvenne l’inverno, l’inverno che si prevedeva. Ancora non spaventava tanto come i due inverni che lo seguirono, ma era già della loro specie, buio, affamato e freddo, tutto impegnato nel distruggere ciò che era abituale e nel rifare tutti i fondamenti dell’esistenza, occupato negli sforzi sovrumani di avvinghiarsi alla vita che sfuggiva.
Furono tre quei terribili inverni, uno dopo l’altro, e non tutto ciò che ora sembra avvenuto tra il 1917 e il 1918 successe in realtà allora; forse avvenne più tardi. Quegli inverni che si susseguirono sono fusi insieme e difficilmente distinguibili l’uno dall’altro.
L’antica vita e l’ordine nuovo ancora non coincidevano. Non c’era ancora fra loro la furibonda ostilità che vi fu un anno dopo all’epoca della guerra civile, eppure mancava un legame. Erano due parti a sé, separate, una contro l’altra, senza possibilità d’incontro.
Dappertutto si procedeva a nuove elezioni degli organi direttivi: nelle amministrazioni delle case, nelle organizzazioni, nei luoghi di lavoro, nei servizi pubblici. La loro composizione mutava. Dovunque si cominciarono a nominare commissari con poteri illimitati, uomini dalla volontà di ferro, con neri giubbotti di cuoio, armati di misure di terrore e di rivoltelle nagant, e che raramente si radevano e ancor più raramente dormivano.
Conoscevano bene i piccoli possessori di titoli di Stato, prodotto della piccola borghesia, piccoli borghesi servili, e non li risparmiavano, rivolgendosi a loro con un sorriso mefistofelico, come a ladruncoli colti in fallo.
S’impadronivano d’ogni leva, secondo il loro programma, e le iniziative e le associazioni, una dopo l’altra, diventavano bolsceviche.
Nell’ospedale Krestovozdvitenskaja, che ora si chiamava «Secondo ospedale riformato», si erano verificati dei cambiamenti: una parte del personale era stata licenziata, ma molti se ne erano andati spontaneamente, ritenendo poco vantaggioso continuare a prestarvi servizio. Erano i medici che guadagnavano bene, con clientela alla moda, i beniamini della società, parolai e ciarlatani. Ma non mancarono di dare alle loro dimissioni causate da motivi di lucro un significato politico e presero a trattare sprezzantemente, quasi a boicottare, quelli che erano rimasti all’ospedale, fra i quali Zivago.
La sera, tra marito e moglie, avevano luogo conversazioni di questo genere:
«Mercoledì non dimenticare di venire allo spaccio della Società dei medici a prendere le patate gelate. Ce ne sono due sacchi. Ti farò sapere con precisione a che ora sarò libero per aiutarti. Bisogna essere in due a trasportarle con lo slittino.»
«Va bene. Ce la faremo, Jùrochka. Ma ora vai a dormire. E’ tardi. Tanto, non puoi arrivare a tutto. Hai bisogno di riposarti.»
«C’è una diffusa epidemia. L’esaurimento generale indebolisce la resistenza degli organismi. Tu e papà fate paura a guardarvi. Bisogna far qualcosa. Sì, ma cosa? Ci curiamo troppo poco di noi stessi. Dobbiamo stare più attenti. Senti. Non dormi?»
«No.»
«Io non temo per me, io sono forte, ma, speriamo di no, se dovessi ammalarmi, tu non fare sciocchezze, ti prego, e non lasciarmi in casa. Subito all’ospedale.»
«Che dici, Jùrochka! Dio ci assista! Perché fare l’uccello del malaugurio?»
«Ricorda che oggi non ci sono più persone oneste, né amici. Né, tanto meno, gente esperta. Se dovesse succedere qualcosa, fidati solamente di Pichuzkin. Si capisce, se anche lui se la scampa. Non dormi?»
«No.»
«Quei farabutti se ne sono andati dietro una fetta più grossa, e vogliono far credere che l’hanno fatto per la loro coscienza civile, per i loro principi. Ti incontrano e quasi non ti danno la mano. ‘Siete in servizio da loro?’ e inarcano le sopracciglia. ‘Sì, sono in servizio da loro,’ rispondo io, ‘e non prendetevela a male, ma sono fiero delle nostre privazioni e stimo le persone che ci fanno l’onore di imporcele.’»