15.
Anna Ivànovna non era più viva, quando di corsa entrarono in casa dall’ingresso del vicolo Sivcev. La morte era sopraggiunta dieci minuti prima, in seguito a una lunga crisi di soffocamento per un edema polmonare non diagnosticato in tempo.
Per le prime ore Tonja gridò disperatamente, in preda a un convulso, e non riconosceva nessuno. Il giorno dopo ammutolì, ascoltò pazientemente quel che le dicevano il padre e Jura, rispondendo però solo con cenni del capo perché appena apriva la bocca il dolore la squassava con immutata violenza e le grida ricominciavano a proromperle dal petto, indipendentemente dalla sua volontà.
Per ore rimase prostrata in ginocchio accanto alla salma, negli intervalli del servizio funebre, abbracciando con le belle, lunghe braccia un angolo della bara, insieme all’orlo del piedistallo che la sorreggeva e alle corone che la ricoprivano. Non vedeva nessuno di quanti le stavano intorno. Ma, appena il suo sguardo s’incrociava con quelli dei più intimi, si alzava rapidamente da terra, a passi veloci scompariva dalla stanza, trattenendo i singhiozzi, correva su per la scaletta nella propria camera e, abbandonandosi sul letto, soffocava nel cuscino lo scoppio della disperazione che la sconvolgeva.
Per la pena, per tutto il tempo passato in piedi e la lunga veglia, per il tono basso e grave del canto e per la luce accecante delle candele accese giorno e notte, e per un raffreddore preso in quei giorni, Jura provava in sé una dolce confusione, come un delirio beato, dolorosamente esaltante.
Dieci anni prima, quando avevano seppellito sua madre, era ancora piccolo. Si ricordava di come avesse pianto sconsolatamente, colpito dall’angoscia e dal terrore. A quel tempo l’essenziale non era dentro di lui. A malapena capiva, allora, che esistesse un Jura, e che avesse un’esistenza propria e presentasse un interesse o un qualche valore. Allora l’essenziale era quello che gli stava intorno, al di fuori. Il mondo esterno lo stringeva da ogni parte, tangibile, impenetrabile e incontestabile come una foresta: e se la morte della mamma l’aveva tanto sconvolto, era perché proprio in quella foresta s’era smarrito e ritrovato improvvisamente solo, senza di lei. Una foresta formata da tutte le cose del mondo: le nuvole, le insegne dei negozi, i globi sui carri dei pompieri, e i servi del monastero che cavalcavano davanti alla carrozza della Madre di Dio, coi copriorecchi, invece di berretti, sulle teste scoperte in presenza della sacra icona. Una foresta formata dalle vetrine dei negozi nelle gallerie, e dal cielo notturno, inaccessibilmente alto, con le stelle, il buon Dio e i santi.
Quel cielo inaccessibile si abbassava fin sopra a lui nella stanza dei bambini e la sua sommità toccava un lembo della gonna della tata, quando gli parlava delle cose celesti, facendosi vicino e a portata di mano come le cime dei noccioli quando se ne piegano i rami nei burroni per coglierne i frutti. Sembrava entrasse nella loro stanza di bambini dentro la catinella dall’orlo dorato e, dopo essersi bagnato nella luce e nell’oro, si trasformasse in un mattutino o in una messa nella chiesetta del vicolo, dove lo conduceva la tata. Là, le stelle del cielo diventavano allora i lumini delle icone, il buon Dio diventava il prete e tutti, secondo le loro attitudini, occupavano il loro posto. Ma l’essenziale restava il mondo reale dei grandi e la città che, come la foresta, faceva ombra tutt’intorno. A quel tempo Jura credeva con una fede quasi ferina nel Dio di quella foresta, in un Dio guardaboschi.
Ora tutto era diverso. Durante i dodici anni di scuola, media e superiore, Jura si era interessato all’antichità, alla storia sacra, alle leggende e ai poeti, alle scienze del passato e a quelle della natura, come si fosse trattato della cronaca familiare di casa sua o della propria genealogia. Ora non temeva nulla, né la vita, né la morte, ma tutto, tutte le cose del mondo erano parole del suo vocabolario. Si sentiva su un piede di parità con l’universo e assisteva all’ufficio funebre per Anna Ivànovna in modo del tutto diverso da come, a suo tempo, aveva assistito a quello di sua madre. Allora era stordito dal dolore, aveva paura e pregava. Ora ascoltava l’ufficio come una comunicazione rivolta direttamente a lui e che lo riguardava da vicino. Prestava ascolto alle parole ed esigeva da loro un senso chiaro, come lo si esige da ogni altra cosa, e non aveva nulla in comune con la devozione il sentimento, che provava, di legittima successione rispetto alle forze supreme della terra e del cielo, alle quali si inchinava come alle sue grandi progenitrici.