3.
La casa, a un solo piano, non era lontana dall’angolo della Tverskaja. Si sentiva la vicinanza della ferrovia di Brest, della quale sorgevano a poca distanza gli edifici, gli alloggi degli impiegati, i depositi di locomotive e i magazzini.
Qui abitava Olja Demin, una giovane intelligente, nipote di un impiegato della Mosca-Merci.
Era una brava apprendista. Già la vecchia proprietaria l’aveva notata e anche la nuova aveva cominciato a interessarsi a lei. A Olja Demin piacque assai Lara.
Tutto era rimasto come ai tempi della Levìckaja. Le macchine da cucire giravano come impazzite mosse dai piedi che si abbassavano ritmicamente o dalle mani a mulinello delle sartine affaticate. Qualcuna lavorava in silenzio, seduta sul tavolo, levando alta la mano con l’ago e il lungo filo. Il pavimento era disseminato di ritagli di stoffa. Bisognava parlare ad alta voce per superare il picchiettio delle macchine da cucire e i trilli modulati di Kirìll Modéstovich, il canarino in gabbia nel vano della finestra, il mistero del cui soprannome la vecchia padrona aveva portato con sé nella tomba.
Nel salottino d’attesa le signore in pittoresco gruppo circondavano il tavolo coperto di riviste. Stavano in piedi, o sedute o semiappoggiate sui gomiti, in quelle pose che vedevano nelle illustrazioni, e osservavano i figurini e si consultavano intorno ai modelli. Dietro un altro tavolo, al posto di direttrice, sedeva l’aiutante di Amàlija Kàrlovna, Faina Silànt’evna Fetisov, prima tagliatrice, una donna ossuta con le verruche sulle flosce guance infossate.
Stringeva tra i denti ingialliti un bocchino d’osso con la sigaretta, socchiudeva un occhio dalla cornea giallastra e, soffiando dalla bocca e dal naso un giallo filo di fumo, annotava in un quaderno le misure, i numeri delle ricevute, gli indirizzi e i desideri delle clienti che le si affollavano intorno.
Nel laboratorio, Amàlija Kàrlovna era nuova e inesperta e non si sentiva una vera e propria padrona. Ma il personale era onesto, sulla Fetisov si poteva contare. Era, tuttavia, un momento difficile e se essa pensava al futuro, la prendeva la disperazione e le sembrava che ogni cosa le sfuggisse di mano.
Komarovskij compariva di frequente e quando traversava tutto il laboratorio, dirigendosi in fondo e spaventando al suo passaggio, mentre si spogliavano, le donne eleganti che al suo apparire si nascondevano dietro i paraventi e di là rintuzzavano giocosamente i suoi scherzi sfacciati, le sarte gli mormoravano dietro le spalle con ironica disapprovazione: «S’è degnato di venire.» «Eccolo, lui.» «Amàlija l’ha stregato.» «Il toro.» «La rovina delle femmine.»
Oggetto di antipatia ancora più violenta era il bulldog Jack, che egli talvolta conduceva al guinzaglio, o meglio ne era trascinato, con strattoni così bruschi che Komarovskij perdeva il passo e, trascinato in avanti, seguiva il suo cane a braccia tese, come il cieco la guida.
Una volta, di primavera, Jack azzannò una gamba di Lara, rompendole una calza.
«Lo accoppo, maledetto,» bisbigliò con voce roca, come una bambina, Olja Demin all’orecchio di Lara.
«Si, è proprio una bestiaccia. Ma come fai ad ammazzarlo, stupidina?»
«Sst, non gridare, te lo spiego io. Sai quelle uova di Pasqua di pietra? Le ha anche vostra madre sul comò…»
«Sì, di marmo, di cristallo.»
«Sì, appunto. Chinati, te lo dico in un orecchio. Devi prenderne uno e metterlo nel lardo fuso, il lardo si rapprende e quello schifoso di cane l’inghiotte, si riempie la pancia, maledetto, e ci resta! Con le zampe all’aria! Stecchito!»
Lara scoppiò a ridere; poi rimase pensierosa, quasi provando un senso d’invidia. Quella ragazza viveva nella miseria, lavorando: i ragazzi del popolo cominciano presto a capire. E in lei, invece, quanto c’era ancora di candido, di infantile! Le uova, Jack, com’era andata a pensarlo? «Perché dev’essere questo il mio destino,» pensò, «di vedere tutto, di soffrire di tutto?»