10.
Scese una notte fredda. Gli ospiti si lavarono, le donne si accinsero a preparare i letti nella stanza loro assegnata. Shùrochka, ormai inconsapevolmente abituato a veder accolti con ammirazione i suoi vezzi infantili e perciò a esprimersi sempre in modo ingenuamente lezioso e bamboleggiante, era mortificato perché quel giorno le sue chiacchiere non avevano successo e nessuno gli badava. Si lamentava che non avessero portato in casa il puledrino nero e, quando lo sgridarono perché la smettesse, scoppiò a piangere, per paura che lo rimandassero nel negozio dei bambini. Sapeva che da lì, quando era venuto al mondo, lo avevano portato in casa dei genitori e manifestava ad alta voce la propria genuina paura, ma le sue graziose sciocchezze non ottenevano alcun effetto. Imbarazzati d’essere in casa d’altri, i grandi si comportavano in modo sbrigativo ed erano silenziosamente assorti nelle loro faccende. Shùrochka ne era offeso e faceva i capricci. Gli fu dato da mangiare, fu messo a letto con fatica e finalmente si addormentò. La Ustin’ja dei Mikùlicyn condusse seco Njusha per farla cenare e iniziarla ai misteri della casa. Antonina Aleksàndrovna e gli uomini furono invitati prendere parte al tè serale.
Aleksàndr Aleksàndrovich e Jurij Andrèevich chiesero il permesso di assentarsi un momento e uscirono sul poggiolo per respirare un po’ d’aria fresca.
«Quante stelle!» disse Aleksàndr Aleksàndrovich.
Era buio. Pur stando a due passi l’uno dall’altro, suocero e genero non riuscivano a vedersi. Dietro di loro, dall’angolo della casa, la luce della lampada che veniva dalla finestra, si proiettava sul burrone. Sotto il suo percorso sfumavano nel freddo umido arbusti, alberi e altre ombre indistinte. La striscia di luce passava discosta dai due che conversavano e rendeva ancora più fitta la tenebra intorno a loro.
«Domattina bisognerà prima di tutto esaminare la dipendenza che ci ha assegnato e, se è adatta per abitarci, mettersi subito a ripararla. Mentre sistemeremo il nostro cantuccio, sgelerà e la terra si scalderà. Allora, senza perdere un momento, prepareremo l’orto. M’è sembrato di capire, dai discorsi, che lui pensa di aiutarci con patate da semina. O forse ho capito male?»
«L’ha promesso, l’ha promesso. E il cantuccio che ci propone l’abbiamo già visto passando, quando abbiamo traversato il parco. Sapete qual è? E’ la parte posteriore della casa padronale che affonda nell’ortica. La parte di legno, mentre la casa è di pietra. Ve l’ho mostrata dal carro, ricordate? Là io comincerei a zappare, per fare l’orto. Secondo me, un tempo dovevano coltivarci i fiori. Così m’è parso da lontano. Ma posso sbagliarmi. Bisognerà evitare i viottoli, lasciarli stare, mentre la terra delle antiche aiuole probabilmente è ben concimata, ricca di humus.»
«Vedremo domani. Non so. Può darsi che il terreno sia tutto ingombro d’erbacce e duro come pietra. La proprietà doveva certo avere anche un orto. Forse ne è rimasta una parte inutilizzata. Chiariremo tutto domani. Probabilmente al mattino qui è ancora gelato. Di notte gela senz’altro. Ma che felicità essere già qui, sul posto. Possiamo congratularci fra noi. E’ bello qui. Mi piace.»
«E’ gente simpatica. Specialmente lui. Lei è un po’ leziosa. E’ come scontenta, c’è qualcosa in lei che non le va. Dipende da questo la sua loquacità instancabile, volutamente insulsa. Come se si affrettasse a distrarre l’attenzione dal proprio aspetto esteriore, a prevenire una cattiva impressione. Anche quel non togliersi il cappello e tenerlo abbandonato sulle spalle, non è distrazione. Sa che le dona.»
«Ora torniamo dentro. Siamo rimasti anche troppo. Non sta bene.»
Tornando verso la stanza da pranzo illuminata, dove i padroni e Antonina Aleksàndrovna sedevano intorno a una tavola rotonda, sotto la lampada, davanti al “samovàr” a bere già il tè, genero e suocero attraversarono l’ufficio di direzione immerso nell’oscurità.
Aveva un’ampia finestra, formata da un unico vetro, che prendeva tutta la parete e dava sul burrone. Da lì, per quel che il dottore era riuscito a osservare prima, quando c’era ancora luce, la vista spaziava sulla lontana pianura che avevano attraversato con Vakch. Davanti alla finestra c’era un largo tavolo da disegno che occupava anch’esso tutta la parete: vi era appoggiato un fucile da caccia che, per quanto messo per lungo, ne lasciava liberi i lati, rendendo più evidente la larghezza del tavolo.
Ora, attraversando l’ufficio, Jurij Andrèevich guardò con desiderio la finestra con la sua ampia vista, la grandezza e la posizione del tavolo e la vastità della stanza ben arredata e, quando rientrando in sala da pranzo, insieme ad Aleksàndr Aleksàndrovich si avvicinò alla tavola preparata per il tè, la prima cosa che disse fu:
«Che posti stupendi! E che studio meraviglioso! Ispira, fa venir voglia di lavorare.»
«Lo preferite nel bicchiere o nella tazza? Come vi piace, chiaro o forte?»
«Jùrochka, guarda che stereoscopio ha fabbricato il figlio di Averkij Stepànovich quand’era piccolo.»
«Non s’è fatto adulto nemmeno oggi, non ha messo giudizio, benché conquisti al potere sovietico una regione dopo l’altra, strappandole al Komùc.»
«Come avete detto?»
«Komùc.»
«Che cos’è?»
«Sono le truppe dei Governo siberiano, che combattono per restaurare il potere dell’Assemblea Costituente.»
«E’ tutto il giorno che sentiamo lodare vostro figlio. Potete esserne giustamente fieri.»
«Queste fotografie degli Urali sono duplici, stereoscopiche. Anche queste sono opera sua, le ha fatte con un obiettivo che ha costruito da sé.»
«Sono frittelle alla saccarina? Sono meravigliose.»
«Che dite? La saccarina in un posto come questo! Dove la prenderemmo? E’ zucchero purissimo. Anche nel tè vi ho messo lo zucchero, dalla zuccheriera. Non ve ne siete accorta?»
«Già, è vero. Ma stavo guardando le fotografie. Allora anche il tè è naturale?»
«Si capisce, con il fiore.»
«Dove lo prendete?»
«E’ una manna del cielo. Ce lo fornisce un conoscente. Un uomo attivo, con idee molto di sinistra, esponente ufficiale del Consiglio dell’economia della provincia. Viene qui a ritirare la legna per portarla in città, e a noi conoscenti porta farina, burro, e altro. Sìverka (così chiamava Averkij), Sìverka, passami i biscotti. E adesso, scusate la curiosità, ma vorrei sapere da voi in che anno morì Griboedov»59.
«Mi pare sia nato nel 1795, ma quando sia stato ucciso, non ricordo con precisione.»
«Ancora del tè?»
«No, grazie.»
«E adesso un’altra cosa. Ditemi quando e fra quali paesi venne stipulata la pace di Ninvega.»
«Ma non tormentarli, Lènochka. Lascia che si riposino del viaggio.»
«Ora, scusate la curiosità, ma vorrei che mi enumeraste, per favore, i vari tipi di lenti e che mi diceste in quali casi si hanno immagini reali, capovolte, dritte e virtuali.»
«Come mai avete queste nozioni di fisica?»
«Jurjatin abbiamo avuto un eccellente matematico. Insegnava in due ginnasi, in quello maschile e nel nostro. Come spiegava! Come un Dio! Spiegava tutto minutamente e te lo faceva entrare in testa. Antipov. Era sposato a un’insegnante di qui. Le ragazze andavano matte per lui, se ne innamoravano tutte. Andò volontario in guerra e non è più tornato, è morto. Dicono che il nostro flagello e castigo del cielo, il commissario Strèl’nikov, non sia altri che Antipov redivivo. E’ una leggenda, certo. E non molto verosimile. Ma del resto, chissà? Tutto può essere. Ancora una tazza?»