4.
Sali di nuovo di sopra e si accinse ad aprire la porta. Sul pianerottolo c’era ancora luce, non meno della prima volta che vi era salito. Con gioia riconoscente notò che il sole non gli faceva fretta.
Lo scatto della porta che si apriva provocò nell’interno un trambusto. L’appartamento, deserto in assenza degli inquilini, lo accolse col tonfo e il tintinnio di barattoli di latta rovesciati. Con tutto il loro peso si gettavano a terra e fuggivano in ogni direzione i topi. Il dottore si sentì a disagio, impotente contro quegli esseri immondi che certamente si erano moltiplicati all’inverosimile.
Prima di prendere qualunque iniziativa per installarsi nell’appartamento e pernottarvi, decise di creare una barriera contro quel flagello, di chiudersi in una stanza che potesse essere isolata dal resto, turando con pezzi di vetro e rottami di ferro i buchi dei topi.
Dall’anticamera svoltò a sinistra, verso la parte della casa che ancora non conosceva. Attraversato un buio vano di transito, si trovò in una stanza luminosa, le cui due finestre davano sulla strada. Proprio li davanti, dall’altra parte della via, si delineava la scura casa delle statue. La parte inferiore della facciata era ricoperta di manifesti, che i passanti leggevano volgendo le spalle alle finestre.
Dentro la stanza e fuori c’era la stessa luce, la giovane, instabile luce crepuscolare della primavera precoce. L’identità fra le due luci era tale che la stanza pareva fondersi con la strada. C’era solo una differenza: nella camera da letto di Lara, dove egli si trovava, faceva più freddo che all’esterno, in via Kupèceskaja.
Quando il dottore si avvicinava alla città durante l’ultima tappa del viaggio e quando, un’ora o due prima, l’aveva attraversata, la debolezza che andava sempre aumentando gli era sembrata il sintomo di una malattia e lo aveva spaventato.
Così senza ragione, ora, l’uniformità della luce in istrada e in casa lo rallegrava. Il freddo, tanto all’esterno che nell’abitazione, lo accomunava ai pedoni della sera per la strada, agli stati d’animo della città, alla vita nel mondo. Le sue paure si erano dileguate. Non pensava più di ammalarsi. La trasparenza serale di quella luce primaverile che penetrava dappertutto gli appariva pegno di lontane e generose speranze. Lo induceva a pensare che tutto andasse per il meglio, che avrebbe raggiunto tutto nella vita, ritrovato e conciliato tutti e che tutto sarebbe riuscito a pensare e a esprimere. E ne aspettava l’imminente dimostrazione dalla gioia dell’incontro con Lara.
Un’eccitazione folle, una sfrenata agitazione avevano preso il posto della spossatezza di prima. Quell’animazione era un sintomo di malattia ancora più certo della precedente debolezza. Non riusciva a star fermo. Di nuovo si sentiva attratto dalla strada ma ora per un preciso motivo.
Prima di sistemarsi in casa, infatti, avrebbe voluto radersi e tagliarsi i capelli. Per questo, mentre attraversava la città, aveva sbirciato nelle vetrine di quei locali che in passato erano stati i negozi di barbieri. Una parte erano vuoti o occupati da altri esercizi. Alcuni ancora destinati a quell’uso, erano chiusi. Non c’era dove poter radersi e tagliarsi i capelli e il dottore non possedeva un rasoio. Avrebbe potuto servirsi di un paio di forbici, se le avesse trovate in casa. Frugò nella toeletta di Lara con fretta impaziente e forse proprio per questo non riuscì a trovarle.
Si ricordò che nella via Màlaja Spàsskaja un tempo c’era una sartoria e pensò che se il laboratorio ancora esisteva e funzionava e se fosse riuscito a giungervi prima della chiusura, avrebbe forse potuto chiedere le forbici a una delle lavoranti. E uscì ancora una volta in strada.