13.

«Cosa ho fatto? Cosa ho fatto? L’ho ceduta, ho rinunciato a lei, mi sono arreso. Buttarsi all’inseguimento, raggiungerle, farle tornare! Lara! Lara!

«Non mi sentono. Il vento soffia in direzione opposta, e forse parlano ad alta voce. Lei ha tutte le ragioni di essere allegra, tranquilla. Si è lasciata ingannare e non lo sospetta.

«M’immagino i suoi pensieri. Crede che tutto sia andato nel migliore dei modi, secondo i suoi desideri. Il suo Jùrochka, quel sognatore testardo, finalmente s’è persuaso, grazie a Dio, partirà con lei per un luogo sicuro, verso gente più ragionevole, sotto la protezione della legalità e dell’ordine. E se anche, poi, per fare a modo suo e mostrarsi di carattere, si ostinerà ancora e domani non salirà sullo stesso treno, Viktor Ippolìtovich gliene manderà un altro, e lui arriverà fra poco tempo.

«Ora, certo, è già nella stalla; con le mani che tremano per l’agitazione e la fretta, che s’imbrogliano, che non obbediscono, attacca la slitta e si butta a perdifiato per seguirci e forse ci raggiungerà ancora prima che cominci la foresta.

«Ecco quello che lei starà pensando. E non si sono nemmeno salutati veramente. Lui ha fatto solo un cenno con la mano e si è voltato cercando di mandar giù il dolore acuto che gli si era conficcato nella gola, come un pezzo di mela che gli fosse andato per traverso.»

Era rimasto sulla gradinata dell’ingresso con la pelliccia gettata su una spalla. Col braccio libero serrava stretta una delle esili colonnine della balaustra, come volesse strozzarla. Tutta la sua anima era fissa a un punto lontano nello spazio. Laggiù, per un certo tratto, la strada che s’inerpicava sul monte si apriva alla vista in mezzo ad alcune betulle solitarie. Vi cadeva in quel momento la luce del sole basso, vicino al tramonto. Laggiù, in quella striscia illuminata, doveva apparire da un momento all’altro la slitta lanciata a tutta corsa, sbucando dal valloncello poco profondo, dove era scomparsa.

«Addio, addio,» ripeteva, in attesa di quell’istante, immemore di sé, con voce priva di suono, come strappandosi dal petto quelle parole che risuonavano appena nell’aria gelida. «Addio, addio, unico amore mio, perduto per sempre!»

«Eccoli! Eccoli,» mormorò con un’ansia febbrile, le labbra esangui e aride, quando la slitta volò su come una freccia superando una dopo l’altra le betulle e cominciò a rallentare e, oh! felicità, accanto all’ultima si fermò.

Il suo cuore batté, batté, gli tremarono le gambe e per l’emozione si sentì diventare tutto inerte, afflosciato come la pelliccia che gli scivolava dalla spalla. «Oh, Dio, hai deciso dunque di restituirmela! Che è successo laggiù? Che succede in quella lontana striscia di sole? Qual è la ragione? Perché si sono fermati? No! E’ finita. Si muovono. Sono ripartiti. Certo è stata lei che ha voluto fermarsi un momento, per guardare ancora una volta la casa, per dirle addio con lo sguardo, o, forse, ha voluto accertarsi se lui non era già per strada, se non si stava precipitando a inseguirli. Partiti. Partiti.

«Se ce la fanno, se il sole non tramonta prima (nell’oscurità non avrebbe potuto scorgerli) appariranno un’altra volta, l’ultima ormai, dall’altra parte del burrone, sulla radura dove due notti prima stavano i lupi.»

Anche quell’istante venne e passò. Un sole fosco e purpureo tondeggiava ancora sulla linea turchina dei cumuli di neve e la neve sorbiva avidamente quella dolcezza di ananas di cui il sole l’inondava. Ed ecco, apparvero, volarono via, in un baleno scomparvero. «Addio, Lara, arrivederci nell’al di là, addio, amor mio, addio, mia eterna gioia, infinita, inestinguibile.» Erano scomparsi. «Non ti rivedrò più, mai più, mai più nella vita, non ti rivedrò più.»

Intanto imbruniva. Le macchie bronzeo-scarlatte del crepuscolo sfiorivano precipitosamente, si spegnevano qua e là sulla neve. La cinerina levità della distesa sprofondava rapidamente nel viola del tramonto, sempre più lilla. Nel grigio vapore si fondevano le linee sottili delle betulle sulla strada, calligrafiche, come una trina, teneramente disegnate nel cielo rosa pallido che sembrò all’improvviso meno profondo.

Il dolore rendeva più acuta la sua sensibilità e gli faceva percepire le cose, con tanto maggiore vivezza. Quello che lo circondava, perfino l’aria, acquistava un carattere di rara eccezionalità. Nella sera invernale, quasi simile a una commossa presenza, spirava un infinito cordoglio. Era come se fino a ora mai fosse imbrunito così, come se il tramonto fosse sceso per la prima volta quel giorno, a consolazione di un uomo abbandonato, piombato nella solitudine; come se i boschi tutto intorno, sui colli, volgendo le spalle all’ultimo orizzonte, non costituissero solo un limite del panorama, ma vi si fossero disposti uscendo dalla terra per esprimere la loro partecipazione.

Si sottrasse a quella tangibile bellezza dell’ora, come ci si sottrae a una folla di persone che commiserano importune; pronto quasi a mormorare ai raggi del tramonto che si protendevano fino a sfiorarlo: «Grazie. Non importa.»

Continuava a restare sul terrazzino d’ingresso, volgendo il viso alla porta chiusa, le spalle al mondo. «E’ tramontato il mio fulgido sole,» andava ripetendo dentro di sé, quasi volesse imparare a memoria quelle parole. E non poteva proferirle ad alta voce di seguito, senza che febbrili singulti non gliele troncassero.

Entrò in casa. Cominciò e si svolse dentro di lui un duplice monologo: arido, apparentemente pratico per quanto riguardava se stesso, e straripante, senza argini, nei confronti di Lara. Ed ecco il corso dei suoi pensieri: «E ora a Mosca. Per prima cosa, sopravvivere. Non abbandonarsi all’insonnia. Non andare a dormire. Lavorare la notte fino all’istupidimento, finché la stanchezza non mi stronca. E, un’altra cosa. Accendere subito la stufa nella stanza da letto per non restare assiderato questa notte.»

Ma ecco quel che diceva dentro di sé: «Mio indimenticabile incanto! Finché l’incavo dei miei gomiti ti ricorderà, finché ti sentirò nelle mie braccia e sulle mie labbra, io starò con te. Piangerò le mie lacrime per te in qualcosa di degno, che rimanga. Iscriverò il tuo ricordo in immagini tenere, tenerissime, tristi da stringere il cuore. E resterò qui finché non l’avrò fatto. Poi andrò via anch’io. Ti raffigurerò così. Deporrò i tuoi tratti sulla carta così come, dopo una terribile tempesta che ha sconvolto il mare sin dall’abisso, resta sulla spiaggia l’orma dell’ondata più forte, che ha oltrepassato tutte le altre nel raggiungere la riva. Con una linea sinuosa e spezzata il mare deposita la pomice, il sughero, le conchiglie, le alghe, quanto di più leggero e imponderabile ha potuto sollevare dal suo fondo. E’ la linea estrema della più alta delle risacche che si protrae lontano, senza fine sulla costa. Così ti ha portato a me la tempesta della vita, mio vanto, e così ti raffigurerò.»

Entrò in casa, chiuse la porta, si tolse la pelliccia. Quando passò nella stanza che Lara aveva rassettato così bene e con tanta cura al mattino e nella quale tutto era di nuovo sottosopra per l’improvvisa partenza; quando vide il letto disfatto e gli oggetti sparsi qua e là, posati sulle seggiole e sul pavimento, come un bambino cadde in ginocchio davanti al letto, si, appoggiò all’orlo e, affondando il viso su un angolo del piumino, scoppiò in un pianto dirotto e amaro, come quello dei fanciulli. Ma non continuò a lungo. Si alzò, si asciugò rapidamente le lacrime, e guardandosi in giro con uno sguardo stupito e distratto, stancamente assente, prese la bottiglia lasciata da Komarovskij, la stappò, si versò un mezzo bicchiere, vi aggiunse dell’acqua e della neve e, con un piacere quasi simile a quello delle lacrime sconsolate di poco prima, cominciò a bere a lenti, avidi sorsi.

Il dottor Zivago
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