14.
La notte, a Suchinici, un servizievole facchino di vecchio stampo guidò il dottore lungo i binari senza illuminazione e lo fece salire dalla parte posteriore nel vagone di seconda classe di un treno appena arrivato e non previsto dall’orario.
Non appena ebbe gettato sulla piattaforma il bagaglio, dopo aver aperto con una chiave da conduttore lo sportello, il facchino dovette sostenere un breve scontro col controllore, che si mise immediatamente a calar giù la roba. Ma Jurij Andrèevich riuscì ad ammansirlo e il controllore se ne andò e sparì in un lampo.
Il treno fuori orario aveva una destinazione speciale e viaggiava abbastanza veloce con brevi fermate, sotto scorta. Il vagone era completamente libero.
Lo scompartimento in cui era entrato Zivago era rischiarato da una candela mezzo consumata, con la fiammella agitata dall’aria che entrava dal finestrino abbassato.
Apparteneva all’unico passeggero dello scompartimento. Era un giovanotto biondo, evidentemente molto alto di statura, a giudicare dalle lunghe braccia e dalle gambe, troppo dinoccolate, come pezzi male aggiuntati d’un oggetto smontabile. Stava semisdraiato sul sedile accanto al finestrino, ma, quando vide entrare Zivago, si alzò cortesemente e si risedette in modo più composto.
Sotto il sedile c’era qualcosa che da lontano sembrava uno straccio; ma all’improvviso quel cencio si mosse, e, strisciando faticosamente, sbucò un bracco dalle lunghe orecchie. Annusò e scrutò Jurij Andrèevich, poi si mise a correre da un angolo all’altro dello scompartimento, buttando le zampe in tutte le direzioni con la stessa agilità con cui il suo allampanato padrone accavallava una gamba sull’altra. Subito dopo, a un comando di lui, s’infilò docilmente sotto il sedile e riprese il suo aspetto di straccio spiegazzato.
Solo allora Jurij Andrèevich notò, appesi a un gancio, un fucile nel suo astuccio, una cartuccera di cuoio e un carniere pieno di uccelli.
Il giovane cacciatore era straordinariamente loquace. Con un sorriso gentile, si affrettò a entrare in conversazione col dottore e per tutto il tempo, non figuratamente ma nel senso più letterale, non fece che guardargli la bocca.
Aveva una sgradevole voce acuta che nei toni più alti diventava d’un falsetto metallico. E, altra stranezza: malgrado fosse evidentemente russo, la «u» la pronunciava, però, in modo ricercato, addolcendola alla maniera francese o tedesca. E per giunta, questa «u» deformata gli costava grande fatica; la pronunciava con maggior forza delle altre, imprimendole una particolare tensione, quasi gridando. Fin dall’inizio lasciò allibito Jurij Andrèevich con questa frase:
«Ieri mattina ho büttato giü ün mücchio di anatre.»
A momenti, quando evidentemente si controllava di più, riusciva a superare questo difetto, ma gli bastava lasciarsi trasportare dal discorso perché si notasse di nuovo.
«Che diavolo è? Qualcosa che ho letto, che conosco. Come medico dovrei saperlo, ma m’è uscito di mente. Deve essere un fenomeno cerebrale, che determina un difetto di articolazione. Ma questo ululio è così ridicolo che è difficile restar seri. Impossibile discorrere con lui. E’ meglio che mi arrampichi su e mi metta a dormire.» E così fece. Quando fu sistemato nella cuccetta superiore, il giovinotto gli domandò se doveva spegnere la candela, che forse lo disturbava. Il dottore accettò con gratitudine la proposta. La luce fu spenta. Si fece buio.
Il finestrino dello scompartimento era abbassato a metà.
«Non sarebbe meglio chiudere il finestrino?» chiese Jurij Andrèevich. «Voi non avete paura dei ladri?»
Il giovane non rispose. Jurij Andrèevich ripeté la domanda a voce più alta, ma di nuovo non ricevette risposta.
Accese un fiammifero per vedere che cosa facesse il suo vicino: se per caso in quel momento fosse uscito dallo scompartimento o se dormisse, il che sarebbe stato ancora più inverosimile.
Ma no, sedeva con gli occhi aperti al suo posto, e sorrise al dottore che si spenzolava dall’alto.
Il fiammifero si spense, Jurij Andrèevich ne accese un altro e, alla sua luce, ripeté per la terza volta la domanda per la quale avrebbe gradito una risposta precisa.
«Fate come vi pare,» rispose subito il viaggiatore. «Io non ho nulla che mi possano rubare. Però, sarebbe meglio non chiudere. Manca l’aria.»
«Guarda un po’» pensò Zivago. «E’ un tipo strano, davvero, ed è abituato a conversare solo in piena luce. Ma come ha pronunciato tutto bene adesso, senza nessun difetto. Non ci capisco nulla!»