26.
Nel bosco c’erano alcuni cavalletti fatti di ceppi legati in croce e in fissi nel terreno. Trovatone uno libero, Jurij Andrèevich e Aleksàndr Aleksàndrovich si misero a segare.
Era quel momento della primavera in cui la terra riemerge dalla neve quasi con lo stesso aspetto con cui sei mesi prima vi è scomparsa. Il bosco trasudava umidità ed era tutto ricoperto delle foglie dell’anno prima come una stanza in disordine dove si siano stracciati ricevute, lettere e documenti accumulati in tanti anni e non ancora spazzati.
«Non così in fretta, vi stancherete,» disse il dottore ad Aleksàndr Aleksàndrovich, dando al movimento della sega un ritmo più lento e regolare; quindi propose un po’ di riposo.
Il bosco risuonava del rauco ronzio delle altre seghe che andavano avanti e indietro, ora all’unisono, ora discordando. Lontano, chissà dove, saggiava le sue forze il primo usignolo. Con pause più lunghe, come se soffiasse in un flauto mezzo intasato, un merlo zufolava. Persino il vapore della locomotiva saliva verso il cielo con un brontolio cantante, come il latte che bolle su un fornello a spirito nella stanza dei bambini.
«Volevi parlarmi di qualcosa,» disse Aleksàndr Aleksàndrovich. «Ti ricordi? Quando siamo passati sul fiume in piena e le anitre sono volate via. Hai pensato un po’ e hai detto: ‘Devo dirvi una cosa.’»
«Ah, sì. Non so come dirlo così, in poche parole. Lo vedete, ci stiamo spingendo sempre più avanti… Tutta questa zona è inquieta. Stiamo per arrivare e chissà che cosa troveremo. In ogni caso, bisognerebbe mettersi d’accordo. Non parlo delle nostre convinzioni. Sarebbe assurdo volerle chiarire o definire con una conversazione di mezz’ora, in un bosco di primavera. Ci conosciamo troppo bene. Noi tre, voi, io e Tonja, come molti altri in questi tempi, costituiamo un mondo a sé e ci distinguiamo tra noi solo per il modo di comprenderlo. Non parlo di questo, questo è abbastanza semplice. Voglio dire un’altra cosa. Dobbiamo stabilire fra noi, in anticipo, come comportarci in certe circostanze per non vergognarci l’uno dell’altro e non gettarci addosso del fango.»
«Basta così, ho capito. Mi piace come hai posto il problema. Hai trovato le parole che ci volevano. Ed ecco cosa ti rispondo. Ti ricordi la notte in cui portasti il bollettino coi primi decreti, d’inverno, durante la tormenta? Ti ricordi com’era d’un’intransigenza inaudita? Una linearità che soggiogava. Ma cose simili vivono con la loro iniziale purezza solo nella mente di chi le ha concepite, anzi solo il primo giorno della loro proclamazione. Già il giorno dopo il gesuitismo politico le ha bell’e capovolte. Che devo dirti? E’ una concezione della vita che mi è estranea, questo potere è contro di noi. Non mi è stato chiesto il consenso per una tale demolizione. Però hanno creduto in me e le mie azioni; anche se le ho compiute perché vi ero obbligato, mi impegnano. Tonja si chiede se non arriveremo troppo tardi per piantare un orto, se non sarà già passato il momento della semina. Che risponderle? Io non conosco il terreno, qui. Quali sono le condizioni climatiche? L’estate è troppo breve. E in genere, matura qualcosa qui? Sì, ma siamo andati forse così lontano per fare gli orticoltori? Non è più neppure il caso di scherzare, dicendo che abbiamo fatto sette “verste” per mangiare del “kisel’ ”45 perché purtroppo le “verste” sono tre o quattromila. No, diciamolo francamente, ci trasciniamo tanto lontano per tutt’altro motivo. Andiamo a tentare di vegetare come si può fare oggi, a prenderci la nostra porzioncina della svendita dei boschi dei nonno, dei suoi macchinari, dei suoi beni. Non andiamo a ricostituire la sua proprietà, ma a dissiparla, a prender parte al pubblico. Sperpero di migliaia di rubli per ricavarne un centesimo per vivere e, come gli altri, lo facciamo in questa forma caotica d’oggi, inconcepibile. Anche se tu mi coprissi d’oro, io non accetterei nemmeno in regalo l’azienda alle vecchie condizioni. Sarebbe una cosa altrettanto fuori del tempo, quanto mettersi a correre nudi o dimenticare l’alfabeto. No, la storia della proprietà in Russia è finita. E noi Gromeko, poi, la smania di far soldi l’abbiamo perduta da almeno una generazione.»