2.

Era il periodo in cui i partigiani si ritiravano quasi incessantemente verso est. A volte lo spostamento si presentava come un aspetto dell’offensiva generale per scacciare Kolchak dalla Siberia occidentale, a volte invece, quando i bianchi penetravano nelle retrovie dei partigiani e tentavano di circondarli, il loro movimento sempre nella stessa direzione si trasformava in ritirata. Per molto tempo il dottore non riuscì a capirci nulla in quelle sottigliezze.

Le cittadine e i villaggi lungo la grande strada erano bianchi o rossi, a seconda delle alterne vicende militari. Solo qualche volta la ritirata si svolgeva lungo la strada: per lo più si effettuava su una direttrice parallela, ed era difficile determinare dal solo aspetto esteriore in mano di quale potere fosse in quel momento un villaggio.

Quando l’esercito contadino vi passava in mezzo costituiva l’avvenimento principale di quelle cittadine e di quei villaggi. Ai due lati della strada, le case sembravano rimpicciolirsi, assorbite dalla terra, mentre, sguazzanti nel fango, i cavalieri, i cavalli, i cannoni e gli imponenti, innumerevoli tiratori coi loro cappotti arrotolati s’alzavano sulla strada più alti delle case.

Una volta, in una di quelle cittadine, il dottore prese in consegna un deposito di medicamenti inglesi, abbandonato da una formazione di ufficiali di Kappel e catturato dai partigiani come preda di guerra.

Era una cupa giornata di pioggia, a due tinte. Tutto ciò che era illuminato sembrava bianco, nero tutto ciò che non lo era. E sull’anima pesava la stessa tenebra, netta, senza passaggi e mezze tinte che l’attenuassero.

La strada, rovinata dai continui passaggi di truppa, appariva come un torrente di melma nera, che solo in alcuni punti assai lontani tra loro, da raggiungersi con lunghi giri, si poteva attraversare. In tale frangente, il dottore incontrò a Pazìnsk una vecchia compagna di viaggio, Pelageja Tjagunòv.

Lo riconobbe lei per prima. Jurij Andrèevich non capì chi fosse quella donna dalla fisionomia conosciuta, che dalla parte opposta della strada, come da una riva all’altra di un canale, gli lanciava occhiate alterne, come a esprimere ch’era pronta tanto a salutarlo, se lui l’avesse riconosciuta, quanto, altrimenti, a tirare oltre.

Ma si ricordò subito. Tra le immagini del vagone merci strapieno, della folla dei mobilitati al lavoro, della loro scorta, e della passeggera con le trecce sul petto, al centro del quadro Jurij Andrèevich rivide anche i suoi cari. I particolari del grande viaggio familiare di due anni prima lo assalirono con estrema chiarezza. Quei volti amati, dei quali aveva ormai una struggente nostalgia, gli si ripresentarono vivissimi.

Con un cenno del capo, fece capire alla Tjagunòv di risalire un po’ la strada, verso un tratto che si poteva attraversare su delle pietre sporgenti dalla mota. Raggiunse anche lui quel punto e passò dalla parte opposta. Si salutarono. La Tjagunòv gli descrisse la propria vita nel villaggio di Veretènniki, in casa della madre di Vàsja, il bel ragazzo che era stato irregolarmente associato al contingente dei mobilitati al lavoro, il puro Vasja che viaggiava nello stesso loro vagone. Si era trovata molto bene in quella casa. Ma il villaggio l’aveva presa a malvolere, perché tra la gente di Veretènniki lei era un’estranea, una venuta da fuorì. Le rimproveravano una supposta intimità con Vasja. Così era dovuta partire, per non rimaner vittima di qualche vendetta, e si era stabilita nella città di Krestovozdvitensk. presso la sorella Ol’ga Galuzin. Quindi si era trasferita lì, spinta da alcune voci, secondo cui Pritul’ev era stato visto a Pazìnsk. Quelle informazioni s’erano poi rivelate infondate, ma lei si era fermata definitivamente là, dove intanto aveva trovato lavoro.

Nel frattempo varie disgrazie avevano colpito persone che le eran care. Da Veretènniki era giunta notizia che il villaggio era stato oggetto di una rappresaglia militare per aver disobbedito alla legge sulla requisizione di viveri. Si diceva che la casa dei Brykin fosse stata bruciata e che qualcuno della famiglia di Vasja fosse morto. A Krestovozdvilensk, ai Galuzin erano stati sequestrati gli averi e l’alloggio, il cognato era stato messo in carcere o fucilato, il nipote scomparso senza più dare notizie. In un primo tempo, la sorella Ol’ga aveva sofferto la fame, ma ora era a servizio presso una famiglia di parenti contadini nel borgo Zvonàrskaja, che in compenso la mantenevano.

La Tjagunòv lavorava come sguattera proprio nella farmacia di Pazìnsk, di cui il dottore doveva sequestrare il patrimonio. La requisizione significava miseria per quanti, compresa la Tjagunòv, vivevano della farmacia, ma il dottore non aveva l’autorità di rinunciare al sequestro. La Tjagunòv fu presente all’operazione di consegna della merce.

Il carro di Jurij Andrèevich fu fatto entrare nel cortile dietro la farmacia, all’ingresso del magazzino. Dal locale portarono fuori una gran quantità di roba, bottiglie impagliate di salice e casse.

Dalla sua porta, il farmacista guardava tristemente, insieme alla gente, il carico della merce. La giornata piovosa volgeva alla sera e il cielo si era un po’ schiarito. Per qualche momento si mostrò il sole, chiuso fra le nubi, ormai al tramonto. I suoi raggi inondavano il cortile di una luce di bronzo che dava una sinistra doratura alle pozzanghere di letame, così dense che il vento non le increspava. Sulla strada invece l’acqua s’ondulava e aveva riflessi di cinabro.

Le truppe continuavano a marciare ai margini della grande strada, aggirando le pozze e i fossati più profondi. Nella partita di medicamenti sequestrati si trovò un’intera scatola di cocaina, che negli ultimi tempi il capo partigiano aveva cominciato a fiutare.

Il dottor Zivago
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