4.
«Quello là è il grano invernale dell’altro autunno, che va in malora. Avevamo appena seminato, quando cominciarono le disgrazie, al tempo in cui andò via la zia Polja. Vi ricordate della zia Polja?»
«No. Non l’ho mai conosciuta. Chi è?»
«Come non l’avete conosciuta? Pelageja Nìlovna! Viaggiava con noi. La Tjagunòv. Una faccia larga, piena, di carnagione chiara.»
«Quella che continuava a farsi e a disfarsi le trecce?»
«Le trecce, le trecce! Ma sì! Proprio così, le trecce!»
«Ah, mi ricordo! Aspetta. Ma io l’ho incontrata poi di nuovo in Siberia, in una città, per strada.»
«Ma no, davvero? La zia Polja?»
«Ma che ti piglia, Vasja? Cos’hai da scuotermi il braccio come un matto? Sta’ attento, me lo stacchi. E sei diventato rosso come una ragazza.»
«E come sta, laggiù? Su, ditemi, presto!»
«Benissimo, quando l’ho vista. Mi ha raccontato di voi. Che era vostra inquilina o ospite, mi sembra. Ma forse ho dimenticato e confondo.»
«E come no, come no? Da noi, da noi! La mamma le si era affezionata come a una sorella. Era tranquilla, laboriosa, così brava a cucire. Finché è rimasta da noi, in casa non mancava nulla. Poi l’hanno fatta fuggire da Veretènniki, non le davano pace con le maldicenze. Nel villaggio c’era un “muzik” che si chiamava Charlàm Gnilòj. Si era incapricciato di Polja. Era uno spione terribile. E lei non lo guardava neanche. Per via di Polja ce l’aveva anche con me. Andava in giro a dir male di noi, di me e di Polja. E così, lei se n’è andata. Non ne poteva più. E’ stato allora che è cominciato. Qui nelle vicinanze era successo un terribile assassinio. Avevano ucciso una vedova, in una fattoria del bosco della parte di Bùjskoe. Abitava sola sul limitare del bosco. Andava in giro con scarpe da uomo, con le stringhe di elastico. Davanti alla fattoria c’era un cane cattivissimo che correva su e giù, attaccato alla catena. Si chiamava Gorlàn. Lei se la sbrigava da sola con la casa e col terreno, senza bisogno di nessuno. Ma ecco, a un tratto arriva l’inverno, quando nessuno se l’aspettava. La neve venne presto quell’anno. E la vedova non aveva raccolto le patate. Così venne a Veretènniki: ‘Aiutatemi,’ dice, ‘vi pago o ve ne do una parte.’ E io mi offrii di raccoglierle le patate. Vado da lei nella fattoria e ci trovo già Charlàm. S’era offerto prima di me, ma lei non mi aveva detto niente. Be’, mica ci si ammazza per questo. Ci mettemmo, a lavorare insieme. Col tempo più cattivo: pioggia e neve, melma, fango. Scavammo, scavammo, bruciammo i fusti e asciugammo ben bene al fumo le patate. Alla fine, lei ci pagò onestamente. Congedò Charlàm e a me, invece, strizzò l’occhio come per dire: ‘Ho ancora un lavoro per te, vieni dopo o rimani.’ E così andai un’altra volta da lei. ‘Non voglio dare le patate in eccedenza all’ammasso dello Stato,’ mi dice. ‘Tu,’ dice, ‘sei un bravo ragazzo, lo so, non mi tradirai. Vedi, io con te non ne faccio un segreto. Scaverei io stessa una buca, ci sotterrerei le patate, ma guarda che tempo fa. Mi ci son messa troppo tardi, è già inverno. Da sola non ce la farei. Scavami una buca, non ti pentirai. L’asciugheremo per bene e ci metteremo le patate.’ E così le scavai la buca, come si deve quando si fa in segreto, a imbuto, più larga in basso e più stretta in alto. L’asciugammo col fumo, la scaldammo bene. E tutto questo in mezzo alla tormenta. Ci nascondemmo le patate come si deve, le coprimmo di terra. Nemmeno le mosche le avrebbero fiutate. E io, si capisce, zitto con tutti. Non lo dissi ad anima viva. Nemmeno alla mamma e alle sorelline. Dio me ne guardi! E’ così. Passa solo un mese e succede il fattaccio. Gente che veniva da Bùjskoe e che era passata di là raccontò che la casa era aperta, tutto ripulito, nessuna traccia della vedova e Gorlàn, il cane, aveva rotto la catena, era scappato. Passò ancora del tempo. Al primo disgelo di quell’inverno, era quasi l’anno nuovo, verso la sera di San Basilio, vennero giù acquazzoni che lavarono via i mucchi di neve e la terra rimase scoperta. Ed ecco che il cane torna alla fattoria e comincia a scavare sullo spiazzo dove era la buca delle patate. Scava che ti scava, buttò fuori tutto e vennero fuori dalla buca anche le gambe della padrona con le scarpe con gli elastici; pensa un po’, che orrore! A Veretènniki tutti commiseravano la vedova, ne parlavano. Nessuno pensò a Charlàm. E perché pensarci poi? Era una cosa che si poteva pensare? Se fosse stato lui, come avrebbe potuto rimanere a Veretènniki, andarsene in giro per il paese come un galletto? Se fosse stato lui, se ne sarebbe andato lontano, chissà dove. Ma i “kulàk”, i caporioni del villaggio, si rallegrarono del delitto. Cominciarono a metter su il villaggio. ‘Ecco,’ dicevano, ‘di cosa sono capaci quelli della città. Questo vi serva di lezione, di esempio: non sotterrate le patate, non nascondete il grano. E voialtri, stupidi, continuate a ripetere che sono stati i banditi del bosco. Li sognate i banditi nella fattoria! Babbei! Dategli retta a quelli della città: vi faranno vedere ben altro, vi faranno crepare tutti di fame. Se volete star bene, voialtri della campagna, date retta a noi, invece. V’insegneremo noi come si deve fare. Quando verranno a togliervi la roba vostra, frutto del vostro sudore, dovete dire: Macché avanzo, non ci basta neppure per noi. E, nel caso, date di piglio alle forche. E chi va contro il villaggio guai a lui.’ Così i vecchi fecero una gran chiassata, spacconate, comizi. E quello spione di Charlàm non aspettava altro! Piglia il berretto e via in città. E là, dài a mormorare: ‘Ecco quel che succede nel villaggio, e voi ve ne state qui impalati? Bisogna formare il Comitato dei poveri. Comandatemi e sistemerò tutto io in un momento.’ Dopo di che è sparito e dalle nostre parti non s’è fatto più rivedere. Quel che è successo poi è venuto da sé. Nessuno l’ha provocato, nessuno ci ha colpa. Mandarono i soldati rossi dalla città. E un tribunale da campo. E subito a pigliarsela con me. Era Charlàm che gliel’aveva cantata in quel modo. Con me, perché ero scappato, perché ero fuggito dall’armata del lavoro, perché sarei stato io ad attizzare la rivolta nel villaggio, io ad ammazzare la vedova. E così mi misero sotto chiave. Meno male che ho avuto l’idea di tirar su un’asse del pavimento e di sparire. Mi sono nascosto in una caverna sottoterra. Sopra la mia testa il villaggio bruciava e io non vedevo niente; sopra di me la mia mamma si buttava nel fiume, e io non lo sapevo. E’ successo tutto da sé. Ai soldati rossi avevano dato un’isbà e vino a volontà, e quelli finirono ubriachi fradici. Durante la notte, per un’imprudenza, prese fuoco una casa e poi quelle vicine. Quelli del posto, là dove s’appiccò il fuoco, saltarono via, ma quelli venuti da fuori - nessuno gli aveva dato fuoco a loro - è chiaro, bruciarono vivi fino all’ultimo. Dei nostri, quelli che hanno perduto le case, nessuno li ha cacciati dalle rovine bruciate, furono loro stessi a fuggire, per la paura che gli dovesse succedere di peggio. Erano stati i ricchi caporioni a spargere la voce che i superstiti li avrebbero decimati. E così io non trovai più nessuno, tutti se n’erano andati per il mondo, e ora penano chissà dove.»