4.
Già più di una volta la Galuzin era arrivata fino al “privòz”, la piazza del mercato di Krestovozdvizensk. Di qui, per la sua casa si svoltava a sinistra. Ma ogni volta ci ripensava, tornava sui suoi passi e si perdeva nuovamente nei vicoli intorno al monastero.
La piazza del mercato era vasta come un campo. Nei tempi andati, nei giorni di mercato, i contadini la riempivano tutta coi loro carri. Da un lato arrivava all’imbocco di via Elèninskaja. L’altro lato era ricoperto ad arco oblungo da piccole case a un piano o due, dove erano allogati magazzini, uffici, aziende commerciali, officine artigiane.
Qui, in tempi tranquilli, sulla soglia del suo largo portone a quattro battenti di ferro, troneggiava su una sedia, assorto nella lettura d’un giornale da un copeco, un burbero orso con gli occhiali e una palandrana a lunghe falde, il misogino Brjuchanov, commerciante in pelli, catrame, ruote, finimenti, avena e fieno.
Qui, esposte in una piccola vetrina opaca, da anni si impolveravano alcune scatole di cartone contenenti candele da sposalizio, appaiate, ornate con nastri e mazzolini. Al di là della vetrina, nella stanzetta vuota, sgombra di mobili e quasi senza alcun segno di mercanzia, a eccezione di alcune forme di cera messe l’una sull’altra, si effettuavano, per migliaia di rubli, contrattazioni su mastice, cera e candele, da parte di sconosciuti uomini di fiducia d’un magnate della cera, milionario, che si ignorava dove risiedesse.
Qui, a metà della via, si trovava il grande negozio di droghiere dei Galuzin, a tre vetrine. Tre volte al giorno spazzavano il pavimento di legno scheggiato con le foglie sfruttate del tè, che i commessi e il padrone bevevano ininterrottamente durante tutta la giornata. La giovane padrona spesso e volentieri sedeva alla cassa. Il suo colore prediletto era il lilla, il violetto, il colore delle cerimonie solenni in chiesa, del lillà ancora in boccio, del suo miglior abito di velluto, della sua cristalleria da tavola. Anche il colore della felicità, il colore dei ricordi, il colore della tramontata età di ragazza della Russia prerivoluzionaria, le sembrava fosse pur sempre il viola chiaro. E le piaceva stare alla cassa del negozio, perché la penombra violetta del locale, odorosa di amido, di zucchero e di caramelle al ribes, viola scuro nel vaso di vetro, assomigliava al suo colore preferito.
Qui, all’angolo, a fianco del deposito di legna, c’era una vecchia casa di assi grigiastre, che cedeva da ogni parte, come un carrozzone sfondato. Era composta di quattro alloggi e aveva due ingressi, agli angoli della facciata. La parte sinistra del piano terreno era occupata dalla farmacia di Zalkind, la destra dall’ufficio del notaio. Sopra la farmacia abitava il vecchio sarto per signora, Shmulevich, con la numerosa famiglia. Di fronte al sarto, sopra il notaio, c’erano molti inquilini, delle cui professioni davano notizia le tabelle e le insegne che coprivano tutta la porta d’ingresso. Vi si riparavano orologi, vi riceveva le ordinazioni un calzolaio, vi avevano un gabinetto fotografico i soci Zuk e Strodach, vi si trovava lo studio dell’incisore Kaminskij.
Data l’angustia dell’appartamento sovraffollato, i giovani aiutanti dei fotografi, il ritoccatore Sanja Màshidson e lo studente Blazèin, si erano allestiti una specie di laboratorio in cortile, nel locale che portava al magazzino di legname. Anche ora stavano lavorando, a giudicare dal maligno occhio di luce rossa della camera oscura, che brillava opaco nella piccola finestra. E sotto la finestra stava a catena il cagnolino Tomka, che guaiva da farsi sentire in tutta la via Elèninskaja.
«La sinagoga è tutta là,» pensò la Galuzin, passando davanti alla casa grigia. «Asilo della miseria e del sudiciume.» Ma subito rifletté che Vlas Pachòmovich aveva torto nella sua fobia per gli ebrei. Non era poi tutta quella gran cosa, quella gente, da pesare sui destini dello Stato. Del resto, interrogato sulle cause del disordine e del trambusto, il vecchio Shmulevich si sarebbe inchinato profondamente, avrebbe contratto il muso in una smorfia e, mostrando ì denti, avrebbe detto: «Sono gli scherzi di Leiba»65.
Ah, ma a che cosa, a che cosa continuava a pensare, di che si riempiva la testa! Si trattava forse di questo? Era forse questo il guaio? Il guaio era nelle città. Non sono le città a sostenere la Russia. Abbagliati dall’istruzione, tutti si sono messi a correre dietro a quelli di città, ma non ce l’hanno fatta. Si sono allontanati dalla loro riva e non sono approdati a quella degli altri.
O forse, al contrario, tutto il male sta nell’ignoranza. Chi è istruito vede la terra in trasparenza, capisce tutto in anticipo. Noi, invece, ci accorgiamo dì non avere il berretto solo quando ci è stata mozzata la testa. Viviamo come in un bosco oscuro. D’altra parte mica va bene adesso per la gente istruita che la carestia ha spinto fuori dalle città. Anche qui, prova a raccapezzarti! Pure il diavolo si romperebbe le corna.
E, tuttavia, si possono paragonare con la nostra gente di campagna? I Selitvin, i Shelaburin, Pamfìl Palych, i fratelli Nestr e Pankràt Modych! Mani che comandano, teste a posto, proprietari. Tutte aziende nuove sulla grande strada, da restare a bocca aperta. Quindici “desiatiny” di seminato ciascuno, cavalli, pecore, mucche, maiali. E scorte di grano, almeno per tre anni. E una quantità di attrezzi da non crederci. Macchine per il raccolto. Davanti a loro Kolchàk striscia e li fa chiamare, e i commissari li vorrebbero nel loro esercito dei boschi. Sono tornati dalla guerra pieni di medaglie ed eccoli subito istruttori. Importa poco avere i gradi o no. Quando sei un uomo che sa il fatto suo, ti vengono sempre a cercare. Non vai in malora.
«Però, è ora di rincasare. Non sta bene che una donna vada in giro così a lungo. Sarebbe meglio stare a casa propria, in giardino. Ma li è tutta una pozzanghera, si affonda nel fango. Comunque, mi sento un po’ sollevata.»
E imbrogliandosi definitivamente nei suoi ragionamenti e perdendone il filo, la Galuzin si avviò verso casa. Ma, prima di varcare la soglia, in quel minuto che impiegò a pulirsi le scarpe davanti all’ingresso, abbracciò mentalmente, ancora una volta, un’infinità di cose.
Pensò agli attuali caporioni di Chodàtskoe, dei quali aveva un’idea approssimativa, ai deportati politici delle capitali, Tiverzin, Antipov, all’anarchico Vdovichenko Bandiera Nera, al fabbro Gorozenja il Pazzo. Era gente furba. Nella loro vita ne avevano combinate molte, e certo anche ora ne stavano pensando e preparando qualcuna. Non potevano farne a meno. Avevano passato la vita fra le macchine e come macchine erano spietati, freddi. Andavano in giro con corte giacchette sopra i maglioni, fumavano le sigarette in bocchini d’osso e, per non pigliarsi infezioni, bevevano solo acqua bollita. A Vlàsushka non sarebbe riuscito niente, perché quelli avrebbero rigirato tutto a modo loro e avrebbero finito per fare quello che volevano.
Prese poi a riflettere su di sé. Sapeva di essere una donna a posto, con idee sue, ben conservata, intelligente e niente affatto cattiva. Nessuna di queste qualità poteva essere apprezzata in quel buco di provincia, ma forse non lo sarebbero state neanche altrove. E gli stornelli osceni che parlavano di una certa stupida Sentetjuricha, conosciuti in tutta la zona al di qua degli Urali, e di cui si potevano ripetere solo i primi versi:
“La Sentetjuricha un carro vendette
coi soldi la balalàika comprò…”
perché il seguito era troppo sconcio, sospettava che a Krestovozdvilensk si cantassero alludendo a lei.
Sospirando amaramente, entrò in casa.