12.

Più tardi, giacevano di nuovo nelle loro cuccette ai lati opposti della lunga e bassa finestra. Era notte e conversavano.

Zivago raccontava a Gordon come aveva visto al fronte l’imperatore. Raccontava bene.

Era avvenuto durante la sua prima primavera di guerra. il comando dell’unità, alla quale era aggregato, si trovava nei Carpazi, in una vallata il cui accesso dalla parte della pianura ungherese era tenuto, appunto, da quella formazione dell’esercito.

Nel fondo della vallata era la stazione ferroviaria. Zivago descriveva a Gordon l’aspetto della località, le montagne ricoperte di enormi abeti e di pini, nelle cui cime si impigliavano i bianchi fiocchi delle nubi, e i dirupi pietrosi di grigia ardesia e di grafite, che spiccavano fra i boschi, come nude chiazze su una folta pelliccia. Era un mattino d’aprile grigio, umido e oscuro come quell’ardesia, chiuso da ogni parte dalle alte montagne e perciò immobile e afoso. Si alzava la nebbia e incombeva sulla vallata. Tutto fumava e saliva verso l’alto in colonne di vapore: il fumo delle locomotive dalla stazione, la grigia evaporazione dei prati, le grigie montagne, i cupi boschi, le nuvole cupe.

In quei giorni l’imperatore visitava la Galizia. Improvvisamente si seppe che avrebbe passato in rassegna l’unità dislocata in quel luogo, che era al suo comando. Poteva arrivare da un momento all’altro. Sulla banchina della stazione era stata disposta una guardia d’onore per accoglierle. Ci furono due ore di attesa opprimente, poi passarono rapidi,. uno dietro l’altro, i due treni dei seguito. Poco dopo giunse quello dello zar.

Accompagnato dal granduca Nikolàj Nikolàevich l’imperatore passò in rivista i granatieri schierati. Ogni sillaba del suo sommesso saluto sollevava, come acqua che sciaborda in secchi ondeggianti, gli scoppi e gli spruzzi di un urrà che rotolava tuonando.

L’imperatore, che sorrideva confuso, sembrava più vecchio e stanco di come appariva sui rubli e sulle medaglie. Aveva un viso flaccido, un po’ gonfio. Guardava di tanto in tanto, con aria di scusa, Nikolàj Nikolàevich, come se non sapesse che cosa ci si aspettasse da lui in quella circostanza, e Nikolaj Nikolàevich, chinandosi deferente verso di lui, senza una parola, solo col movimento del sopracciglio o della spalla, lo traeva d’imbarazzo.

Lo zar faceva pena in quel grigio e tiepido mattino di montagna, e stringeva il cuore pensare che un così timoroso riserbo e tanta timidezza potessero costituire l’essenza dell’oppressore, e che di quella debolezza ci si servisse per condannare e graziare, per incatenare e impiccare.

«Avrebbe dovuto dire qualcosa del tipo: ‘io, la mia spada e il mio popolo’, come Guglielmone; o una frase del genere. Avrebbe dovuto parlare di popolo, comunque; là ci voleva. Ma lui, invece, capisci, era naturale, alla russa, e tragicamente superiore a tali volgarità. In Russia la teatralità è inconcepibile. Perché quella è proprio teatralità, non è vero? Io posso anche capire che cosa fossero i popoli al tempo di Cesare, i Galli o gli Svevi o gli Illirici. Ma, dopo di allora, il popolo non è stato che un’invenzione; esiste solo perché nei loro discorsi se ne servano zar, uomini politici e re: il popolo, il mio popolo.

«Ora il fronte è inondato di corrispondenti e di giornalisti. Scrivono le loro ‘osservazioni’, riportano le massime della saggezza popolare, visitano i feriti, costruiscono una nuova teoria dell’anima popolare. E’ una specie di nuovo Dal’ 32, altrettanto gratuito, una grafomania linguistica dell’incontinenza verbale. Questo è un tipo. Ma ce n’è un altro. Il racconto breve, ‘schizzi e scenette’, scetticismo, misantropia. Ce n’è uno, per esempio (l’ho letto io stesso), che fa di queste scoperte: ‘Una giornata grigia come ieri. Fin da stamane pioggia, fango. Guardo dalla finestra la strada. I prigionieri vi si trascinano in fila interminabile. Portano i feriti. Un cannone spara. Spara di nuovo, oggi come ieri, domani come oggi e così ogni giorno e ogni ora…’ Pensa un po’ che acutezza, che perspicacia! Ma perché se la prende col cannone? Ma perché invece del cannone, non si stupisce di se stesso, che un giorno dopo l’altro ci continua a bombardare con elenchi, virgole e frasi? Perché non la finisce con questa sparatoria di filantropia giornalistica, frettolosa come i salti di una pulce? Come fa a non capire che è lui e non il cannone che deve esser nuovo e non ripetersi, che dall’accumulare su un taccuino una quantità di sciocchezze non potrà mai nascere un che di sensato, che non esistono fatti finché l’uomo non ci mette dentro qualcosa di suo, un minimo almeno di libero genio umano, di favola?»

«E’ verissimo,» lo interruppe Gordon. «Ti dirò ora quel che penso della scena a cui abbiamo assistito oggi. Il cosacco che scherniva quel povero patriarca non è che un esempio, fra tanti che ce ne sono, della più assoluta abiezione. Li c’è poco da mettersi a filosofare, pugni in faccia e basta. E’ chiaro. Ma alla questione ebraica nel suo complesso può invece applicarsi la filosofia per rivelarci un aspetto inatteso del problema. Non è che ti dirò nulla di nuovo: sono idee che tanto io che te deriviamo da tuo zio.»

«Cos’è il popolo, domandi tu. Ma chi è che fa più per lui, chi gli si agita tanto intorno, o chi, senza pensare a lui, con la stessa bellezza e il contenuto delle proprie opere, lo trascina con sé nell’universalità e, esaltandolo, lo rende eterno? Certo, è evidente. E di quali popoli, del resto, si può parlare nell’era cristiana? Non si tratta più semplicemente di popoli, ma di popoli convertiti, trasformati, e l’importante sta appunto in questa trasformazione, non nella fedeltà a vecchi principi. Vediamo il Vangelo. Che dice su questo? In primo luogo, non afferma: ‘E’ così e dev’essere così’, ma avanza una proposta ingenua e timida. Propone: ‘Volete esistere in modo nuovo, come non è mai avvenuto, volete la beatitudine dello spirito?’ E tutti hanno accettato la proposta, conquistati per millenni.

«Quando il Vangelo dice che nel regno di Dio non c’è né greco né giudeo, vuoi forse dire solamente che davanti a Dio tutti sono uguali? No, per questo non occorreva il Vangelo, lo sapevano ancora prima i filosofi della Grecia, i moralisti romani, i profeti dell’Antico Testamento. Ma il Vangelo intendeva: ‘In quel nuovo modo di esistenza pensato dal cuore, in quella nuova forma di comunione che si chiama regno di Dio, non ci sono popoli ma individui.’

«Tu hai detto che i fatti sono privi di senso se non se ne dà loro uno. li cristianesimo, il mistero dell’individuo è appunto ciò che si deve immettere nei fatti, perché essi acquistino un senso per l’uomo.

«E abbiamo anche parlato degli uomini politici mediocri, che non hanno niente da dire alla vita e al mondo, forze di second’ordine, interessate a delimitare e rimpicciolire tutto, a far sì che sempre si parli di un qualche popolo, preferibilmente piccolo e perseguitato, perché si possa dar giudizi, pavoneggiarsi e mettere a profitto la pietà. La vittima classica, per eccellenza, di queste forze sono gli ebrei. L’idea nazionale ha imposto loro la letale funzione di restare popolo e solo popolo per il corso dei secoli, quando proprio la forza un tempo sprigionatasi dalle sue file ha liberato tutto il mondo da questo umiliante destino. E’ incredibile! Come è potuto succedere? Questa festa, questa gioiosa liberazione dal dannato obbligo della mediocrità, il librarsi al di sopra della grettezza della vita quotidiana, tutto questo è nato sulla loro terra, è stato espresso nella loro lingua e apparteneva alla loro razza. Ed essi che hanno visto e sentito tutto questo, se lo sono lasciato sfuggire. Come hanno potuto lasciare che si allontanasse da loro un’anima di così eccezionale forza e bellezza, e come hanno potuto, proprio mentre si compiva il suo trionfo e insediamento, come hanno potuto accettare di rimanere come il vuoto involucro del prodigio che avevano respinto? A chi giova questo martirio volontario, a che cosa è servito che per secoli siano stati derisi ed abbiano versato il proprio sangue tanti innocenti, vecchi, donne, bambini, così sensibili e capaci di bene e di comunanza d’affetti? Perché sono così pigramente ottusi, in tutti i paesi, quelli che scrivendo si atteggiano a difensori del popolo? Perché coloro che dominano il pensiero di questo popolo non sono andati oltre la troppo facile espressione del dolore del mondo e della saggezza ironica? Perché, rischiando di esplodere sotto l’indeclinabilità dei loro dovere, come le caldaie a vapore esplodono sotto la pressione, non hanno disciolto questo esercito, che non si sa per che combatta e per che sia massacrato? Perché non hanno detto: ‘Ravvedetevi. Basta. Non serve più. Non chiamatevi più come prima. Non raccoglietevi in gruppo, scioglietevi. Siate con tutti. Voi siete i primi e i migliori cristiani del mondo. Voi siete appunto ciò a cui vi hanno contrapposto i peggiori e i più deboli di voi.’»

Il dottor Zivago
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