1.
Lara giaceva come in delirio sul letto di Felicata Semënovna. Attorno a lei gli Sventickij, il dottor Drokov e la domestica parlavano a bassa voce.
La casa degli Sventickij, ormai vuota, era immersa nel buio e solamente a metà della lunga fila di stanze, nel piccolo salotto, era accesa alla parete una fioca lampada, che illuminava da una parte e dall’altra quella fila rettilinea e deserta.
Come fosse a casa sua, andava su e giù lungo quelle stanze, a passi rabbiosi e decisi, Viktor Ippolìtovich. Ora dava un’occhiata nella camera da letto, per vedere quel che succedeva, ora si dirigeva verso la parte opposta della casa e, passando accanto all’albero con gli addobbi d’argento, raggiungeva la sala da pranzo dove il tavolo pareva piegarsi sotto il peso delle portate intatte e i verdi calici tintinnavano quando, per la strada, passava una carrozza, o un topo guizzava improvviso sulla tovaglia in mezzo ai piatti.
Komarovskij era tutto fuoco e fiamme. Sentimenti opposti facevano ressa nel suo animo. Che scandalo e che vergogna! Era su tutte le furie. La sua posizione era compromessa, l’incidente metteva a repentaglio il suo buon nome. A qualunque costo, prima che fosse troppo tardi, bisognava prevenire, stroncare i pettegolezzi e, se la notizia si era già diffusa, spegnere, soffocare le chiacchiere appena nate. Infine, ancora una volta aveva provato quanto fosse irresistibile quella dissennata, folle ragazza. Non era come gli altri. C’era stato sempre in lei qualcosa di straordinario. A quanto pareva, lui le aveva rovinato la vita, in modo radicale e irrimediabile. Ma come lei si dibatteva, come insorgeva senza tregua e si ribellava nello sforzo di rifarsi un destino a modo suo, e di ricominciare da capo la propria esistenza!
Avrebbe dovuto aiutarla in tutti i modi, magari prenderle una camera in affitto, ma non toccarla più, in nessun caso, anzi starle lontano il più possibile, ritirarsi in disparte, perché non s’adombrasse, ch’era un tipo, quella ragazza, capace di combinare ancora chissà che!
E quante seccature lo aspettavano! Non era una cosa che potesse passar liscia, quella. La legge non dorme. Era ancora notte, non erano passate nemmeno due ore dal momento in cui era successo l’incidente, e la polizia si era già fatta vedere due volte e lui era andato in cucina per dare spiegazioni al brigadiere e aveva accomodato tutto.
Ma poi sarebbe stato ancor più complicato. Bisognava provare che Lara aveva mirato a lui e non a Kornakòv. Né la cosa sarebbe finita lì. Alleggerita di una parte di responsabilità, Lara sarebbe ugualmente rimasta soggetta ad azione giudiziaria.
S’intende, lui avrebbe tentato di evitarlo con tutte le forze; se poi ci fosse stato il processo avrebbe chiesto l’esame psichiatrico per dimostrare lo stato di irresponsabilità di Lara nel momento dell’attentato, e ottenuto la chiusura del procedimento.
Con questi pensieri Komarovskij andò calmandosi. La notte era finita. Strisce di luce cominciavano a infiltrarsi nella casa, sbirciando sotto i tavoli e sotto i divani come ladri o come periti del monte di pietà.
Dopo essersi affacciato nella camera da letto e aver saputo che Lara non stava meglio, lasciò la casa degli Sventickij per recarsi da una sua conoscente, una giurista, moglie di un emigrato politico, Rufina Onisìmovna Vojtkòvskaja, che subaffittava due delle otto stanze del suo appartamento, ormai troppo grande e costoso per lei. Ne fissò una che da poco era rimasta libera, e qualche ora dopo Lara fu portata li in stato di semincoscienza, in preda a una febbre nervosa.