1.
Erano ormai due anni che Jurij Andrèevich era prigioniero dei partigiani. I limiti della sua prigionia erano assai imprecisi, senza sbarre né recinti, senza sorveglianza né controllo. Le truppe partigiane erano sempre in movimento e il dottore si spostava con loro. Quelle truppe non erano distinte, differenziate dal popolo dei villaggi e delle regioni che attraversavano: si mescolavano anzi al popolo fino a confondervisi.
Pareva persino che quella subordinazione e prigionia non esistessero, che il dottore fosse in libertà e soltanto non sapesse usarne. La prigionia non differiva in nulla dagli altri generi di costrizione imposti dalla vita, altrettanto invisibili e impercettibili, da sembrare anch’essi in certo modo inesistenti, chimerici, fittizi. Eppure, nonostante l’assenza di ceppi, catene e custodi, Jurij Andrèevich era obbligato a sottomettersi a quel suo stato di cattività, per apparente che potesse sembrare.
Tre volte aveva tentato di fuggire, ma era stato sempre ripreso. Non c’erano state conseguenze, ma era come scherzare col fuoco. Non ci provò più.
Il capo partigiano Liverij Mikùlicyn l’aveva preso a benvolere, lo metteva a dormire nella propria tenda e ricercava la sua compagnia. Jurij Andrèevich sentiva quell’imposta intimità come un peso.