14.
«Datemi la mano, venite dietro a me. Ci sono due stanze al buio, dove la roba è ammassata fino al soffitto. Potreste urtare contro qualcosa e farvi male.»
«E’ davvero una specie di labirinto. Da solo non avrei trovato la strada. Com’è, ci sono lavori in corso?»
«Oh no, non è questo. L’appartamento non è mio, non so nemmeno di chi sia. Noi avevamo il nostro, dello Stato, nell’edificio del ginnasio. Quando il ginnasio è stato occupato dalla sezione alloggi del soviet di Jurjatin, a me e a mia figlia hanno assegnato quest’altro appartamento abbandonato. C’era ancora tutto l’arredamento dei vecchi padroni. Molti mobili. Ma io non ne ho bisogno. Ho ammassato le loro cose in queste due stanze e fatto imbiancare le finestre. Non lasciate mai la mano, se no vi perderete. Ecco, così. Ora, a destra. Ormai il labirinto è finito, questa è la mia porta. Ci sarà più luce. Lo scalino, attento a non inciampare.»
Jurij Andrèevich, sempre così guidato, entrò nella stanza. Nella parete di fronte, una finestra si apriva su un paesaggio che lo colpì. Dava sul cortile della casa, sulla parte posteriore delle case adiacenti e sugli spazi deserti attorno al fiume. Qui pascolavano pecore e capre, spazzando la polvere col lungo vello come lembi di pellicce sbottonate. Proprio di fronte alla finestra, spiccava su due sostegni il tabellone che aveva già notato: «Moreau e Vetcinkin. Seminatrici. Trebbiatrici.»
Prese allora a descrivere a Larisa Fëdorovna il proprio arrivo negli Urali insieme alla famiglia. Aveva dimenticato che la voce popolare identificava Strèl’nikov col marito di lei e, senza pensarci, descrisse il loro incontro sul treno. Larisa Fëdorovna ne fu molto colpita.
«Avete visto Strèl’nikov?» domandò vivamente. «Per ora non vi dico altro, ma è straordinario! Era predestinato che doveste incontrarvi. Un giorno vi spiegherò e resterete sbalordito. Se ho ben capito, vi ha fatto un’impressione più favorevole che negativa.»
«Sì, probabilmente. Avrei dovuto sentirne orrore: eravamo passati attraverso i luoghi delle sue repressioni, delle sue devastazioni. Mi aspettavo di vedere un soldato violento o un rivoluzionario maniaco di stragi, e non ho trovato né l’uno né l’altro. E’ bene quando una persona contraddice le nostre aspettative, quando è diversa dall’immagine che ce ne siamo fatta. Appartenere a un tipo significa la fine dell’uomo, la sua condanna. Se non si sa invece come catalogarlo, se non è ‘caratteristico’, allora possiede già la metà dei requisiti desiderabili, è libero da se stesso, con un granello in sé di assoluto.»
«Dicono che non è iscritto al partito.»
«Sì, mi pare. Ma cos’è di lui che ispira simpatia? Questo, che è già condannato. Penso che finirà male. Sconterà quello che ha fatto. I capi irregolari della rivoluzione fanno paura non in quanto capaci di tutto, ma perché si muovono senza una direzione, come locomotive deragliate. Strèl’nikov è uno di loro: invasato, però, non dai libri, ma da quello che ha vissuto e sofferto. Non conosco il suo segreto, ma sono sicuro che ne ha uno. La sua alleanza con i bolscevichi è occasionale. Finché si renderà necessario, lo sopporteranno, visto che fanno la stessa strada. Ma non appena questa necessità verrà meno, lo scacceranno senza pietà, lo calpesteranno, come hanno fatto già con molti altri capi militari.»
«Credete?»
«Assolutamente.»
«Ma non c’è una via di scampo? La fuga, per esempio?»
«Dove, Larisa Fëdorovna? Questo era possibile una volta sotto gli zar. Ma provatevi a farlo ora.»
«Peccato. Con quello che mi dite avete destato in me una certa simpatia per lui. Ma voi siete cambiato. Prima non giudicavate la rivoluzione così aspramente, con tanto rancore.»
«Tutto ha una misura, Larisa Fëdorovna. In questo frattempo si sarebbe potuto arrivare a qualcosa. E invece è apparso chiaro che, per gli ispiratori della rivoluzione, il vero elemento naturale è questa frenesia di cambiamenti e spostamenti. Per soddisfarli, ci vuole perlomeno tutto il globo terrestre. La costruzione di nuovi mondi, i periodi di transizione sono il loro fine; un fine a se stesso. Non hanno imparato nient’altro, non sanno fare altro. E sapete da che deriva l’irrequietezza di questi eterni preparativi? Dalla mancanza di capacità precise, di talento. L’uomo nasce per vivere, non per prepararsi alla vita, e la vita stessa, il fenomeno vita, il dono della vita sono una cosa così affascinante, così seria! Perché barattarla con la puerile arlecchinata di immature innovazioni, con queste fughe da scolaretti di Cechov63 in America? Ma basta. Adesso tocca a me far domande. Noi siamo arrivati la mattina quando la città ha cambiato di potere. C’eravate allora, in quel gran trambusto?»
«Oh, come no! Certamente. Intorno tutti incendi. Anche noi per poco non ci siamo rimasti. Ve l’ho detto come ha traballato la casa! Nel cortile c’è tuttora un proiettile inesploso al cancello. Saccheggi, bombardamenti, brutture, come a ogni cambiamento di potere. Ma noi eravamo già preparati, abituati. Non era la prima volta. E sotto i bianchi, che cosa non è successo! Assassini a tradimento per vendette personali, estorsioni, orge! Sì, ma non vi ho detto la cosa più importante. Il nostro Galiullin! Sotto i céchi è stato la massima autorità della zona. Qualcosa come un governatore generale.»
«Lo so. Ho sentito. Voi l’avete visto?»
«Spessissimo. A quanti ho potuto salvare la vita grazie a lui! Quanti ne ho nascosti! Bisogna rendergli giustizia, si è comportato egregiamente, da persona perbene; non come tutti gli altri caporioni, capitani cosacchi e commissari di polizia. Ma allora il tono lo dava proprio quella gente li, e non i galantuomini. Galiullin mi ha aiutata molto, gli devo esser grata. Ci conoscevamo da tanto tempo. Da bambina andavo spesso nel cortile dove è cresciuto, in una casa dove vivevano operai della ferrovia; nella mia infanzia ho visto da vicino la miseria e il lavoro, per questo il mio atteggiamento verso la rivoluzione è diverso dal vostro. La sento più vicina. In essa c’è per me molto di familiare. Ed ecco che a un tratto quel ragazzo, il figlio di un portinaio, diventa colonnello o addirittura generale dei bianchi. Io non sono d’ambiente militare e non m’intendo di gradi. Sono insegnante di storia. Già, così dunque, Zivago, ne ho aiutati molti. Andavo da lui. Vi ricordavamo. Con tutti i governi, vedete, ho avuto rapporti e protettori e con ogni sistema ho sofferto e perduto qualcosa. Solo nei libri mediocri gli uomini sono divisi in due campi e non vengono in contatto. Ma, nella realtà, tutto è così intrecciato! Che assoluta nullità si dev’essere per sostenere nella vita una parte sola, per occupare un posto solo nella società, per significare sempre la medesima cosa! Ah, sei qui?»
Era entrata una bambina di otto anni, con le treccine annodate strette. Gli occhi tagliati a mandorla le conferivano un aspetto arguto e birichino. Quando rideva sollevava le sopracciglia. Già fuori della porta si era accorta che con la mamma c’era un ospite, ma, affacciandosi alla soglia, aveva ritenuto di dover fingere un’ingenua sorpresa. Fece la riverenza e fissò sul dottore lo sguardo fermo e senza timore dei bambini cresciuti soli che hanno cominciato presto a pensare.
«Mia figlia Kàten’ka. Vi prego di volerle bene.»
«A Meljuzeev me ne avevate mostrato la fotografia. Com’è cresciuta e com’è cambiata!»
«Allora eri in casa! Credevo che fossi a passeggio. Non ti ho sentita entrare.»
«Quando ho preso la chiave nel buco, è saltato fuori un topaccio grande così! Ho strillato e mi sono buttata da una parte! Credevo di morire dalla paura.»
Kàten’ka parlando faceva delle smorfie graziose; spalancava gli occhi furbi e arrotondava la boccuccia come un pesce tirato fuori dall’acqua.
«Be’, vai nella tua stanza. Ora dirò allo zio di restare a pranzo, toglierò la “kasha”64 dal fuoco e ti chiamerò.»
«Grazie, ma non posso accettare. A causa dei miei viaggi in città, s’è presa l’abitudine di pranzare alle sei. Cerco di non arrivare mai in ritardo e ci sono più di tre ore di strada, se non quattro. Per questo, sono venuto da voi così presto; anzi scusatemi, tra poco dovrò andare.»
«Fermatevi ancora una mezz’ora.»
«Volentieri.»