9.

Il primo incontro dei nuovi arrivati coi padroni di casa ebbe luogo nel cortile dell’alloggio del direttore. Fu una scena penosa, che in un primo tempo si svolse in silenzio, poi divenne rumorosamente caotica.

Elena Pròklovna era tornata dalla passeggiata serale nel bosco, rientrando dal cortile. Gli ultimi raggi del sole, quasi dello stesso colore dei suoi capelli dorati, avevano seguito i suoi passi attraverso tutto il bosco, d’albero in albero. Vestiva abiti leggeri da estate. Era accaldata e si asciugava col fazzoletto il viso tutto acceso dalla passeggiata. Il suo collo scoperto era attraversato dall’elastico di un cappello di paglia che le pendeva dietro le spalle.

Incontro a lei, risalendo dal burrone col fucile e diretto verso casa, veniva il marito: pensava di mettersi a pulire le canne del fucile, sporche, come aveva capito da certe irregolarità mentre sparava.

A un tratto, piombato da chissà dove, rimbalzando sull’acciottolato, Vakch irruppe baldanzoso nel cortile col suo bel regalo.

Aleksàndr Aleksàndrovich scese dal carro insieme agli altri e diede, frettoloso ed esitante, le prime spiegazioni, ora levandosi ora rimettendosi il cappello.

Per alcuni istanti vi fu solo l’autentico stupore, e neanche dissimulato, dei padroni di casa messi con le spalle al muro, e l’altrettanto genuino e sincero disagio degli infelici ospiti che arrossivano per l’imbarazzo. Non c’era nessun bisogno di spiegazioni, la situazione era chiara non solo ai protagonisti, ma pure a Vakch, a Njusha e Sùrochka. Il disagio si trasmise anche alla cavalla e al puledro, ai raggi dorati del sole e ai moscerini che ronzavano intorno a Elena Pròklovna e le si posavano sul viso e sul collo.

«Non capisco,» ruppe finalmente il silenzio Averkij Stepànovich. «Non capisco, non capisco nulla e non capirò mai. E’ forse il sud, qui? Ci sono i bianchi? E’ una provincia granaria, questa? Perché avete scelto proprio noi, come v’è saltato in mente di venir proprio qui, da noi?»

«Scusate la curiosità, ma avete pensato almeno che responsabilità è per Averkij Stepànovich?»

«Lenochka, tu non c’entri. Già appunto. Mia moglie ha ragione. Avete pensato che peso sarebbe per me?»

«Be’ non ci avete capiti. Si tratta di una piccolezza, di una cosa da nulla, senza nessuna noia per voi, per la vostra tranquillità. Ci basta un qualsiasi angoletto nella casa abbandonata. Un cantuccio che non serve a nessuno e un po’ di terreno inutilizzato, per farci un orto. E poter andare a prendere un po’ di legna nel bosco, quando nessuno vede. Possibile che vi sembri tanto, che vi sembri così rischioso?»

«No, ma il mondo è grande. Che c’entriamo noi? Perché avete fatto questo onore proprio a noi e non a qualche altro?»

«Perché sapevamo chi eravate, e speravamo che anche voi aveste sentito parlare di noialtri. Non siamo degli estranei per voi, e neanche voi lo siete per la nostra famiglia.»

«Ah, allora si tratta di Krueger, del fatto che siete suoi parenti? Ma come potete farvi scappare di bocca cose simili, di questi tempi?»

Averkij Stepànovich era un uomo dai lineamenti regolari, coi capelli pettinati all’indietro, che si muoveva a lunghi passi falcati: d’estate indossava la camicia russa, stretta alla vita da un cordoncino con le nappe.

Una volta, gli uomini come lui andavano con gli Ushkùjniki57: nei tempi moderni costituivano il tipo dell’eterno studente, del sognatore che vive fra i libri.

Aveva consacrato la giovinezza al movimento di liberazione, alla rivoluzione, col solo timore di morire prima del suo avvento, e che una volta scoppiata, si rivelasse troppo moderata per soddisfare le sue aspirazioni radicali e sanguinarie. Ed ecco, la rivoluzione era venuta, travolgendo tutte le tue più ardite congetture, e lui che era sempre stato per natura amico degli operai, uno dei primi a fondare al «Svjatogòr-Bogatyr» il comitato di fabbrica e a istituirvi il controllo operaio, s’era trovato con un pugno di mosche, sperduto nel paese abbandonato, da cui gli operai, qui in parte seguaci dei menscevichi, se n’erano fuggiti chissà dove. E adesso, anche questa storia assurda, questi avanzi di Krueger, questi ospiti indesiderabili, proprio una beffa del destino, un tiro fatto a bella posta per colmare la misura della sua sopportazione.

«No, è roba da matti, davvero. Inconcepibile. Ma non capite quale pericolo siete per me, in quale posizione mi mettete? Sarò diventato matto, ma non capisco, non capisco e non capirò mai.»

«Scusate la curiosità, ma vi rendete conto su quale vulcano siamo già qui, anche senza di voi?»

«Aspetta, Lènochka. Mia moglie ha perfettamente ragione. Anche senza di voi non è semplice. Una vita da cani, un manicomio. Sempre fra due fuochi, senza via d’uscita. Da una parte mi danno addosso perché mio figlio è un rosso, un bolscevico, un beniamino del popolo. Agli altri non va a genio che io sia stato eletto all’Assemblea Costituente. Non contenti nessuno, per quanto ti dia da fare. E, per di più, ecco ora anche voi. Bel divertimento finire fucilati per colpa vostra.»

«Ma che dite? Tornate in voi! Dio non voglia!»

Dopo un po’, passando a un tono più mansueto, Mìkùlicyn riprese:

«Be’, qui fuori abbiamo ringhiato abbastanza. Ora possiamo continuare in casa. Certo, non vedo nulla di buono per l’avvenire, le nuvole sono nere all’orizzonte, e i segni piuttosto oscuri. Comunque non siamo né giannizzeri, né turchi. Non vi cacceremo nella foresta, in pasto a Michajlo Potapych58. Mi sembra, Lenòk, che la cosa migliore sia sistemarli nella sala delle palme, di fianco allo studio. Discuteremo poi dove si potrebbero stabilire: penso che potremmo metterli nel parco. Favorite in casa, vi prego. Porta dentro le cose, Vakch. Aiuta gli ospiti.»

Ed, eseguendo, Vakch non faceva altro che sospirare:

«Madre dei cieli! Hanno meno roba di un pellegrino! Solo fagotti. Neanche una valigia!»

Il dottor Zivago
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