10.

Alla stazione ritenevano che la colpa indiretta delle agitazioni dei soldati ricadesse su Kolja Frolenko, il telegrafista di Birjuci.

Kolja era figlio di un noto orologiaio di Meljuzeev, lo conoscevano da quando era in fasce. Da bambino era stato ospite presso una delle persone di servizio di Razdòl’noe e, sotto la sorveglianza di mademoiselle, aveva giocato con le figlie della contessa. Mademoiselle conosceva bene Kolja, che già allora aveva cominciato a capire un po’ di francese.

A Meljuzeev erano abituati a veder Kolja correre in bicicletta, sempre, con qualsiasi tempo, in abiti leggeri, senza cappello e con le scarpe di tela. Senza reggere il manubrio, buttato all’indietro con le braccia incrociate sul petto, pedalava lungo la strada maestra e attraverso la città osservando i pali telegrafici e i fili, controllando le condizioni della rete.

Alcune case della città erano collegate alla stazione da una diramazione della linea telefonica della ferrovia. La centrale era presso il telegrafo della stazione e Kolja ne aveva la responsabilità.

Qui aveva da fare fin sopra i capelli: il telegrafo, il telefono e talvolta, in qualche momento di assenza del capostazione Povarichin, anche i segnali ai treni, i cui comandi si trovavano nella sala del telegrafo.

La necessità di seguire a un tempo il funzionamento di vari meccanismi lo aveva portato a un particolare modo di esprimersi oscuro, frammentario, enigmatico. Kolja se ne serviva volentieri tutte le volte che non aveva voglia di rispondere o di conversare con qualcuno. Si diceva che il giorno dei disordini avesse abusato di questa sua laconicità.

Con i suoi silenzi, effettivamente, aveva reso vane tutte le buone intenzioni di Galiullin che telefonava dalla città, e, forse senza volerlo, aveva dato un fatale andamento agli avvenimenti che seguirono.

Galiullin, infatti, aveva chiesto all’apparecchio il commissario, il quale si trovava in qualche punto della stazione o nelle vicinanze, per dirgli che si accingeva a raggiungerlo nella zona disboscata e chiedergli di aspettarlo e di non prendere alcuna iniziativa senza di lui. Kolja si era rifiutato di chiamare Ginz col pretesto che aveva la linea occupata per trasmettere i segnali al treno in arrivo a Birjuci, mentre intanto, con espedienti d’ogni genere tratteneva allo scambio più vicino quello stesso treno che trasportava a Birjuci i cosacchi.

Quando tuttavia la tradotta arrivò, Kolja non seppe nascondere il suo disappunto. La locomotiva scivolò lentamente sotto l’oscura pensilina e si fermò proprio davanti all’enorme finestra della sala del telegrafo. Kolja aprì la pesante tenda di panno blu sul bordo della quale era intessuto l’emblema della ferrovia. Sul davanzale di pietra stava un grande vassoio con una pesante caraffa piena d’acqua e un bicchiere di grosso vetro sfaccettato. Versò l’acqua nel bicchiere, ne ingoiò alcuni sorsi e guardò fuori.

Il macchinista notò Kolja e dalla cabina gli fece un cenno amichevole con la testa. «Uh, canaglia puzzolente, cimice da legna!» pensò Kolja con odio e, tirata fuori la lingua, lo minacciò col pugno. Il macchinista comprese la mimica di Kolja, e a gesti, stringendosi nelle spalle e indicando con la testa i vagoni, gli fece intendere: «Che vuoi farci? Provati tu. La forza ce l’hanno loro.» «Non importa, sei una canaglia lo stesso,» gli rispose Kolja, sempre a gesti.

Cominciarono a far scendere dai vagoni i cavalli: opponevano resistenza, non volevano muoversi. Il sordo frastuono degli zoccoli sulla passerella di legno in discesa si alternava al tintinnio dei ferri sulle pietre della banchina. I cavalli, che si impennavano, furono condotti attraverso vari binari, in fondo ai quali erano due file di vagoni di scarto, fermi su rotaie arrugginite e ricoperte d’erba. Il deterioramento del legname, da cui le piogge avevano cancellato la vernice e che i tarli e l’umidità avevano corroso, restituiva ai vagoni sfasciati la loro originaria affinità con la verde foresta che cominciava subito al di là dei convogli, colla pietra fungaia di cui si ammalano le betulle, con le nuvole che si accatastavano su di loro.

Giunti ai margini del bosco, all’echeggiare del comando, i cosacchi balzarono in sella e partirono al galoppo verso la zona della tagliata.

I ribelli del 212esimo furono circondati. In mezzo agli alberi, gli uomini a cavallo sembravano più alti e più imponenti che non allo scoperto, e sgomentarono i soldati, benché anch’essi avessero i fucili nelle loro capanne di terra. I cosacchi avevano sguainato le sciabole.

All’interno dell’anello formato dalla cavalleria, Ginz balzò su una catasta di legna e rivolse un discorso agli uomini accerchiati.

Di nuovo, secondo la sua abitudine, parlò del dovere militare, del significato della patria e di molte altre cose elevate. Concetti che qui non fecero breccia. L’adunanza era troppo numerosa e gli uomini che ne avevano passate tante durante la guerra, erano inselvatichiti e stanchi. Le parole di Ginz erano da tempo ostiche ai loro orecchi. I continui tentativi di, ingraziarseli, fatti dalla destra e dalla sinistra, avevano corrotto quella folla. Gente semplice, erano per di più maldisposti dal cognome non russo dell’oratore e dal suo accento baltico.

Ginz si rendeva conto di parlar troppo ed era indispettito con se stesso, ma riteneva di doverlo fare per essere meglio capito dagli ascoltatori, i quali, invece di essergli grati, lo ripagavano con un’espressione ostile di indifferenza e di noia. Sempre più irritato, decise di usare un linguaggio più duro e di ricorrere alle minacce. Senza badare al mormorio che si levava, rammentò che i tribunali militari rivoluzionari erano ormai istituiti e funzionavano, e, minacciando la pena di morte, chiese che deponessero le armi e consegnassero gli istigatori. Se non lo avessero fatto, aggiunse, avrebbero dimostrato di essere vili traditori, canaglia incosciente, plebaglia presuntuosa. A un tono simile quegli uomini non erano più abituati.

Si levò un urlo da centinaia di bocche. «Ha parlato abbastanza. Basta. D’accordo,» gridavano alcuni con voci profonde, quasi senza rancore. Ma si levarono anche altre grida isteriche, di voci acute, cariche d’odio. Furono ascoltate, gridavano:

«Avete sentito, compagni, come ci tratta? All’antica! Mica l’hanno piantata con queste maniere da ufficiali! E così, saremmo traditori! E tu, chi saresti, vostra nobiltà? Ma perché volete perdere tempo con lui? Non vedi che è un tedesco, mandato qui apposta? Ehi, tu, mostra i tuoi documenti, sangue blu! E voi, cosa ve ne state lì a bocca aperta, repressori? Su, legateci, mangiateci!»

Ma anche ai cosacchi l’infelice discorso di Ginz era piaciuto sempre meno. «Tutti canaglie e porci, che signorino!» sussurravano fra loro. Dapprima qualcuno, poi sempre in maggior numero cominciarono a ringuainare le sciabole. Uno dopo l’altro balzarono giù dai cavalli. Quando furono in molti mossero disordinatamente verso il centro della radura incontro al 212esimo. Si mescolarono, fraternizzando.

«Dovreste andarvene via senza farvi notare,» dissero a Ginz gli ufficiali dei cosacchi, allarmati. «Alla stazione c’è la vostra macchina. Manderemo a dire che la facciano avvicinare. Andatevene subito.»

E Ginz fece così, ma, siccome fuggire alla chetichella gli sembrava indegno, si avviò quasi apertamente, senza la necessaria prudenza, verso la stazione. Era in preda a una terribile ansia, ma per orgoglio si costrinse a camminare tranquillamente, senza fretta.

La stazione, ai margini del bosco, era già vicina. Da lì, quando già si scorgevano i binari, per la prima volta sì voltò indietro. Soldati armati di fucili lo seguivano. «Che cosa vorranno?» pensò Ginz e accelerò il passo.

Lo stesso fecero i suoi inseguitori. La distanza fra loro non diminuì. Dinanzi apparve la doppia parete dei vagoni abbandonati. Appena li ebbe sorpassati, si buttò a correre. Il treno che aveva trasportato i cosacchi era stato deviato nel parco ferroviario. I binari erano liberi. Ginz li attraversò di corsa.

Nello slancio si trovò d’un balzo sull’altra banchina. Nel frattempo i soldati che gli davano la caccia uscirono di corsa da dietro i vagoni di scarto. Povarichin e Kolja gridavano qualcosa a Ginz e gli facevano segno di entrare dentro la stazione, dove lo avrebbero messo in salvo.

Ma di nuovo il senso dell’onore, educato attraverso generazioni, quel senso dell’onore tipicamente cittadino, portato al sacrificio, e qui così fuor di luogo, gli sbarrò la via della salvezza. Con uno sforzo sovrumano della volontà cercò di calmare il tremito del cuore in tumulto. Pensò: «Bisognerebbe gridargli: ‘Fratelli, tornate in voi, come volete che sia una spia!’ Qualcosa di sincero, capace di svelenirli, di fermarli.»

Negli ultimi mesi, l’idea dell’atto eroico, del grido dell’anima, era per lui inconsciamente connessa alle tribune, ai podii, alle sedie, da dove si poteva lanciare un appello alla folla, parole che la infiammassero.

Davanti all’ingresso della stazione, sotto la campana, si trovava un’alta botte antincendi chiusa da un coperchio. Ginz vi balzò sopra e rivolse ai soldati che si avvicinavano alcune parole, sconvolgenti, fuori dell’umano, sconnesse.

Il folle ardire del suo appello, a due passi dalle porte spalancate della stazione, dove avrebbe potuto facilmente rifugiarsi, sbigottì e inchiodò sul posto gli inseguitori. I soldati abbassarono i fucili.

Ma Ginz si spostò sull’orlo del coperchio della botte e lo ribaltò. Una gamba gli scivolò nell’acqua, l’altra rimase penzoloni fuori della botte. Si trovò seduto a cavalcioni sul bordo.

I soldati accolsero la sua goffa caduta con uno scroscio di risate: il primo lo colpì al collo, uccidendolo. Gli altri gli si gettarono sopra per, trafiggere il morto a baionettate.

Il dottor Zivago
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