4.

«Per lui, no? la mamma è la sua… come si dice. Lui è… quello della mamma… Sono brutte parole, non voglio ripeterle. Ma allora perché mi guarda con quegli occhi? Sono la figlia, no?»

Lara aveva poco più di sedici anni, ma era una ragazza già sviluppata, che ne dimostrava diciotto e anche di più. Aveva un’intelligenza limpida, un carattere mite. Ed era molto graziosa.

Lei e Rodja comprendevano che avrebbero dovuto farsi strada fidando solo nelle proprie forze. Contrariamente ai giovani ricchi e oziosi, non avevano modo di abbandonarsi anzitempo a fantasticare e almanaccare sulle cose che ancora non li riguardavano. Solo il superfluo è sudicio. Lara era l’essere più puro al mondo.

Fratello e sorella conoscevano il valore delle cose e sapevano apprezzare i risultati che raggiungevano. Per riuscire bisognava essere stimati. Lara studiava molto, non per un astratto desiderio di sapere, ma perché, per aver l’esonero dalle tasse scolastiche, doveva essere una brava allieva. Così come studiava, senza sforzo lavava i piatti, aiutava in laboratorio e faceva le commissioni per la mamma. Si muoveva silenziosamente, con grazia: tutto, in lei era armonioso: la inavvertibile rapidità dei movimenti, la figura, la voce, gli occhi grigi e il biondo dei capelli.

Era domenica, a metà luglio. Nei giorni di festa si poteva restare a poltrire un po’ a letto la mattina. Lara giaceva supina, le braccia incrociate dietro la testa.

Nel laboratorio c’era un silenzio insolito. La finestra sulla strada era aperta. Sentì lontano il rotolio di una carrozza, che dal selciato della strada svoltò sulla carreggiata a binari per cavalli; al violento frastuono succedette il dolce, silenzioso scivolare delle ruote, come sul velluto. «Bisogna che dorma ancora un po’,» pensò. Il ronzio della città assopiva come una ninna nanna.

Ora avvertiva le dimensioni e la posizione del proprio corpo nel letto, da due punti: dalla sporgenza della spalla sinistra e dall’alluce del piede destro. Non erano che la spalla e il piede, mentre invece tutto il resto era più o meno lei stessa, l’anima o la sostanza di lei, armoniosamente composta nella sua figura sensibile e fiduciosamente protesa verso l’avvenire.

«Bisogna che dorma,» pensava e le tornavano in mente la zona soleggiata del corso Karetnyj a quell’ora, i negozi di carrozze, con gli enormi equipaggi in mostra su pavimenti ben spazzati, il vetro sfaccettato dei fanali, gli orsi impagliati, la gran vita. E poco più in basso - vedeva nei suoi pensieri - le esercitazioni dei dragoni nel cortile delle caserme Znàmenskij, le moine leziose dei cavalli che trottavano in cerchio, gli esercizi di volteggio, i passaggi d’andatura al trotto, al galoppo. Ai cancelli del cortile si affollavano a grappoli bambinaie e balie a bocca aperta.

E ancora più giù - pensava - via Petrovka, le Petrovskie linii5. «Ma che dite, Lara! Che vi viene in testa! Voglio soltanto mostrarvi il mio appartamento. Tanto più che è qui a due passi.»

Al Karetnyj, in casa di conoscenti, si festeggiava l’onomastico della piccola Ol’ga. Per l’occasione gli adulti bevevano champagne e ballavano. Lui aveva invitato la mamma, ma la mamma non poteva, non stava bene e gli aveva detto: «Prendete Lara. Mi avvertite sempre: ‘Amàlija, abbiate cura di Lara.’ Bene, abbiatene cura voi.» E lui ne aveva proprio avuto cura, niente da dire! Ah-ah-ah!

Che follia il valzer! Si gira, si gira, senza pensare a nulla. Mentre la musica suona passa un’eternità, come una vita nei romanzi; ma appena cessa, una sensazione di rivolta, come se ti buttassero addosso acqua fredda o ti sorprendessero nuda. E poi, le libertà che permetti agli altri, solo per darti arie e far vedere che sei già grande!

Non avrebbe mai supposto che egli ballasse così bene. Che mani intelligenti aveva, con quanta sicurezza la teneva alla vita! Ma, d’ora in poi, a nessuno avrebbe più permesso di baciarla così. Mai avrebbe pensato che sulle labbra degli altri potesse concentrarsi tanta impudicizia, quando le premono così a lungo sulle tue.

Basta con queste sciocchezze. Una volta per sempre. Non posare all’ingenua, non fare la turbata, non abbassare pudicamente gli occhi. Una volta o l’altra finirà male. E’ un impercettibile, spaventoso confine. Un passo di più e si cade nel precipizio. Finirla coi balli. E’ là tutto il male. Non temere di rifiutare. Inventare che non so ballare o che mi sono rotta una gamba.

Il dottor Zivago
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