13.
«Ah, Emma Ernéstovna, mia cara, non importa. Ne ho abbastanza.»
Gettava sul tappeto e sul divano vari oggetti, pettini, polsini; apriva e chiudeva i cassetti del comò senza sapere quel che cercava.
Sentiva un estremo bisogno di lei, ma quella domenica non c’era modo di vederla: si agitava come una belva in gabbia, senza trovar pace.
Una creatura ineguagliabile, nella sua grazia tutta spirituale. Le sue mani stupivano, come può stupire un pensiero elevato. Sulle tappezzerie della camera d’albergo, l’ombra di lei sembrava l’immagine della sua purezza. La camicia le stringeva il petto con la naturalezza di un canovaccio teso sul telaio da ricamo.
Komarovskij tambureggiava sul vetro della finestra, al ritmo degli zoccoli dei cavalli che risuonavano cadenzati sull’asfalto della via. «Lara,» mormorava, e chiudendo gli occhi, rivedeva fra le braccia la testa di lei addormentata, con le ciglia chiuse, ignara che qualcuno, insonne, la guardasse da ore ininterrottamente. Il casco dei suoi capelli sparsi in disordine sul cuscino, col fumo della loro bellezza, gli bruciava gli occhi e penetrava nell’anima.
Nemmeno la passeggiata domenicale lo aveva calmato. Dopo solo pochi passi sul marciapiede in compagnia di Jack, si era fermato. Aveva immaginato il Kuzneckij, gli scherzi di Satanidi, la folla dei conoscenti che avrebbe incontrato. No, era troppo per le sue forze! Come tutto gli era diventato odioso! Tornò indietro. Il cane, sorpreso, alzò su di lui uno sguardo di disapprovazione e lo seguì di malavoglia.
«Che ossessione!» pensava. «Cosa significa tutto ciò? Che cos’è, il risveglio della coscienza, un sentimento di pietà o di rimorso? O inquietudine?» No, sapeva che lei era a casa, al sicuro. E allora perché non gli riusciva di allontanarsene col pensiero?
Entrò nel portone, attraversò l’atrio, raggiunse la scala e cominciò a salire. Sul pianerottolo, una finestra veneziana, con stemmi ornamentali agli angoli del vetro, faceva piovere sul pavimento e sul davanzale riflessi multicolori. A metà della seconda rampa si fermò.
«Non devo cedere all’angoscia che mi tormenta, che mi consuma!» Non era un ragazzo, doveva capire che cosa sarebbe avvenuto di lui se quella fanciulla, figlia di un suo amico morto, quella bambina, da strumento di svago fosse divenuta oggetto della sua follia. Rientrare in sé! Essere fedele a se stesso, non mutare le proprie abitudini. Altrimenti sarebbe la fine di tutto.
Strinse fino a sentir male la larga balaustra, chiuse per un istante gli occhi e, voltandosi di scatto, prese a scendere. Sul pianerottolo pieno di riflessi, colse lo sguardo d’adorazione del bulldog, che lo guardava dal basso, con la testa in su, come un vecchio nano bavoso dalle guance cascanti.
Il cane non amava la ragazza, le strappava le calze, le ringhiava contro, mostrandole i denti. Era geloso: quasi temesse che con lei il padrone si contaminasse di qualcosa di umano.
«Ah, è così allora! Vuoi che tutto sia come prima: i Satanidi, l’abiezione, le barzellette! Prendi allora, to’, to’, to’!»
Si mise a picchiare il cane col bastone da passeggio e lo prese a calci. Jack scappò via guaendo e urlando e, col di dietro tremante, arrancò su per la scala a raspare alla porta e a lagnarsi con Emma Ernéstovna.
Passarono i giorni e le settimane.