31.
«Zivago, Zivago,» continuava a ripetere fra sé Strèl’nikov, nel vagone, dove erano entrati insieme. «E’ un nome di commercianti. O di nobili. Già, medico di Mosca. Diretto a Varykino. Strano. Da Mosca andarsi a cacciare in un buco simile.»
«Proprio per questo. In cerca di pace. Un angolo sperduto, verso l’ignoto.»
«Senti un po’ che poesia. Varykino? Conosco bene la zona. Le ex officine Krueger. Non sareste per caso cari parenti? Eredi?»
«Perché fate dell’ironia? Che c’entrano gli ‘eredi’? Benché mia moglie, effettivamente…»
«Ah, vedete! Vi è venuta la nostalgia dei bianchi? Vi deluderò subito. Arrivate in ritardo. La regione è stata ripulita.»
«Continuate a beffeggiarmi?»
«E per di più dottore. Militare. E siamo in tempo di guerra. Questa è già una cosa che mi riguarda direttamente. Disertore. Anche i ‘verdi’49 si nascondono nei boschi, cercano pace, pure loro. Allora, le vostre ragioni?
«Due volte ferito ed esonerato perché inabile.»
«Ora mi esibirete un attestato del Commissario del popolo all’istruzione o del Commissario della sanità, che vi presenta come ‘elemento perfettamente sovietico’ o ‘simpatizzante’, e che testimonia della vostra ‘lealtà’. Oggi, egregio signore, sulla terra è il giorno del giudizio: creature dell’Apocalisse, armate di spada, e mostri alati, altro che dottori leali e simpatizzanti! D’altronde, vi ho detto che siete libero e non mi rimangio la parola. Ma solo per questa volta. Ho il presentimento che ci rivedremo, e allora sarà tutto un altro discorso, vi avviso.»
La minaccia e la sfida non turbarono Jurij Andrèevich, che rispose:
«So quello che pensate di me. Dal vostro punto di vista, avete perfettamente ragione. Ma la discussione in cui volete trascinarmi, è tutta la vita che mentalmente la porto avanti con un immaginario accusatore, e ormai sarà pure giunta a una conclusione. Non è cosa da dire in due parole. Permettetemi di allontanarmi senza spiegazioni, se effettivamente sono libero, e, se non lo sono, disponete pure di me. Non ho nulla di cui debba giustificarmi di fronte a voi.»
Il trillo del telefono li interruppe. Il collegamento era stato ristabilito.
«Grazie, Gur’jàn,» disse Strèl’nikov, dopo aver sollevato il ricevitore e avervi soffiato dentro più volte. «Vi prego, mio caro, mandate qualcuno per scortare il compagno Zivago. Che non succeda di nuovo qualcosa. E datemi, per favore, Razvil’e, la direzione trasporti, la Cekà.»
Rimasto solo, chiamò la stazione:
«Hanno portato lì da voi un ragazzo: si calca continuamente il berretto sulla testa bendata, è una vergogna. Sì. Dategli assistenza medica, se serve. Sì, come la pupilla dell’occhio, ne rispondete personalmente a me. Anche le razioni, se occorre. Si. E ora gli affari. Sto parlando! Non ho finito. Ah, diavolo, chi è che interloquisce? Gur’jàn, Gur’jàn. Hanno tolto la comunicazione.»
«Forse è un mio allievo,» pensò, smettendo per un momento di cercare la comunicazione. «E’ cresciuto e si rivolta contro di noi.» Sommò mentalmente gli anni d’insegnamento e di prigionia, per vedere se il conto corrispondeva all’età del ragazzo. Poi, attraverso il finestrino, prese a cercare con gli occhi, nel panorama che si scorgeva all’orizzonte, il sobborgo sul fiume, appena fuori Jurjatin, dov’era un tempo la sua casa. E se sua moglie e la bambina fossero ancora là? Andarci subito! Subito, in quel momento! Già, ma era possibile? Tutto ciò apparteneva a un’altra vita. E ora di vita c’era questa nuova da finire prima di poter tornare all’altra, interrotta. Un giorno sarebbe successo, un giorno. Sì, ma quando, quando?