7.

Il lavoro presso i Kologrivov non le aveva impedito di terminare il ginnasio, di iscriversi ai corsi superiori, di seguirli con successo e di avvicinarsi, ormai, alla licenza, che avrebbe dato l’anno seguente, il 1912.

Nella primavera dell’11, la sua allieva Lìpochka aveva finito il ginnasio. La fanciulla s’era fidanzata col giovane ingegnere Friesendank che apparteneva a una buona famiglia, di agiate condizioni. I genitori approvavano la sua scelta, ma non volevano che affrontasse il matrimonio così presto e le consigliavano di aspettare. Ne scaturivano dei drammi, Lipochka, irriflessiva e viziata, beniamina della famiglia, gridava contro il padre e la madre, piangeva e pestava i piedi.

Nella ricca casa, dove Lara era considerata una parente, nessuno pensava al debito da lei fatto per Rodja e nessuno glielo ricordava.

Da tempo, del resto, avrebbe restituito quella somma se non avesse avuto continue spese, che teneva nascoste.

All’insaputa di Pasha, mandava denari al padre di lui, il deportato Antipov, e aiutava la madre, una donna malata e inasprita. Oltre a ciò, con ancora maggior segretezza, aiutava nelle spese lo stesso Pasha, integrando, sempre a sua insaputa, la somma che pagava ai padroni di casa per il vitto e l’alloggio.

Pasha, di poco più giovane di lei, l’amava perdutamente, e la obbediva in tutto. Per le insistenze di Lara, dopo aver terminato l’istituto, si era iscritto ai corsi supplementari di latino e di greco, in modo da potersi iscrivere alla facoltà di filologia. E Lara sognava di sposarlo l’anno successivo, dopo aver dato entrambi l’esame di stato, e di partire poi per qualche capoluogo di provincia degli Urali come insegnanti di ginnasio, rispettivamente maschile e femminile.

Pasha viveva in una stanza che Lara aveva cercato e preso in affitto per lui, presso gente tranquilla, in una casa nuova sul Kamergerskij, in prossimità del Teatro d’Arte.

Nell’estate dell’11, Lara andò per l’ultima volta a Dupljanka con i Kologrivov. Amava immensamente quel luogo, più di quanto lo amassero gli stessi proprietari. Non era un segreto e, in occasione di quei viaggi estivi, s’era stabilita con Lara una tacita convenzione. Quando, appena scesi, il treno arroventato e fuligginoso ripartiva e, in mezzo allo sconfinato silenzio stupefatto e pieno d’odori, Lara ammutoliva per l’emozione, lasciavano che andasse a piedi sola fino alla tenuta, mentre dalla stazioncina si trasportavano i bagagli e si mettevano su un carro, e il cocchiere di Dupljanka, con la casacca da postiglione da cui sbucavano le maniche della camicia rossa, raccontava ai signori in carrozza le novità locali della stagione trascorsa.

Lara camminava lungo il terrapieno per un sentiero tracciato da vagabondi e da pellegrini e quindi svoltava per il viottolo che, attraverso un prato, portava al bosco. Qui si fermava e, con gli occhi socchiusi, aspirava l’aria densa dei confusi profumi della vastità che la circondava. Era un’aria più cara del padre e della madre, più tenera dell’uomo amato, più illuminante di un libro. Per un istante a Lara si rivelava di nuovo il senso dell’esistenza. Era lì, sentiva, per cercar di capire la frenetica bellezza dei mondo, per dare un nome alle cose e, se le sue forze non fossero bastate, per generare dei figli che l’avrebbero fatto in sua vece.

Quell’estate, era arrivata in campagna esaurita dalle eccessive fatiche che si era addossata. Le accadeva di abbattersi con facilità, di cedere alla diffidenza, che fin allora le era stata assolutamente sconosciuta. Questo rendeva scontroso il suo carattere, prima così aperto e privo di meschinerie.

I Kologrivov non volevano che li lasciasse e la circondavano dell’affetto d’un tempo. Ma, da quando Lipa si era fatta una vita sua, Lara si considerava inutile e non avrebbe voluto stipendio. Ma fu costretta ad accettarlo per le loro insistenze e anche perché sarebbe stato imbarazzante e praticamente impossibile lavorare per conto proprio, restando loro ospite.

Ma quella posizione le sembrava falsa e intollerabile. Le pareva che tutti fossero stanchi di lei e solo non volessero mostrarlo. Era di peso perfino a se stessa. Avrebbe voluto fuggire chissà dove, lontano da sé e dai Kologrivov, ma si sentiva obbligata prima a restituire il denaro avuto in prestito e, per il momento, non avrebbe saputo dove prenderlo. Si considerava un ostaggio per colpa della leggerezza di Rodja e non sapeva sottrarsi alla sensazione di sdegno impotente che l’assaliva.

In ogni cosa le pareva di scorgere segni di scarsa considerazione. Se i conoscenti che venivano a trovare i Kologrivov le dimostravano un’attenzione particolare, ne deduceva che la consideravano un’indifesa «pupilla», una facile preda. Se la lasciavano in pace, era perché non le davano importanza e nemmeno si accorgevano di lei.

Queste crisi di tetraggine non le impedivano però di partecipare ai divertimenti della numerosa società ospite di Dupljanka. Come tutti gli altri, faceva i bagni e nuotava, andava in barca, partecipava ai pic-nic notturni oltre il fiume, lanciava fuochi artificiali e ballava. Recitava negli spettacoli di dilettanti e, con particolare entusiasmo, si cimentava nel tiro a segno con corti fucili Mauser, ai quali però preferiva la leggera rivoltella di Rodja. Con questa sapeva sparare con gran precisione e scherzando si lamentava di esser donna e di non poter seguire la carriera della duellista. Ma quanto più si divertiva, tanto peggio stava. Non sapeva nemmeno lei che cosa volesse.

Peggio ancora fu quando tornarono in città. Qui, alle altre contrarietà, si aggiunsero lievi dissapori con Pasha (cercava di non litigare seriamente con lui, che considerava la sua ancora di salvezza). Negli ultimi tempi Pasha aveva cominciato a ostentare una certa sicurezza e il tono cattedratico che a volte assumeva nel conversare la faceva ridere e l’addolorava insieme.

Pasha, Lipa, i Kologrivov, il denaro: tutto faceva ridda nella sua testa. La vita le era venuta a noia. Le pareva d’impazzire: avrebbe voluto gettare a mare tutto quello che aveva provato e conosciuto per intraprendere qualcosa di nuovo. In questo stato d’animo, nel Natale dell’11, prese una decisione fatale. Decise di congedarsi subito dai Kologrivoy, e di organizzarsi comunque una vita autonoma, chiedendo a Komarovskij il denaro di cui avrebbe avuto bisogno. Pensava che, dopo tutto quello che era successo e dopo quegli anni di libertà conquistata, egli avrebbe dovuto aiutarla cavallerescamente, senza chiederle spiegazioni, in modo onesto e disinteressato.

Così, la sera del 27 dicembre, si diresse verso le Petrovskie linii e, uscendo, mise nel manicotto la rivoltella di Rodja carica e senza la sicura, decisa a sparare contro Viktor Ippolìtovich se lui le avesse risposto con un rifiuto, l’avesse fraintesa o comunque umiliata.

Camminava per le vie festanti, in preda a un profondo turbamento, senza accorgersi di nulla intorno a sé. Nella sua testa già era echeggiato il colpo di pistola, non importava contro chi. Quello sparo era l’unica cosa di cui fosse cosciente. Seguitò a sentirlo per tutto il tragitto: era diretto contro Komarovskij, contro se stessa, contro il proprio destino, contro la quercia di Dupljanka, nella radura, col bersaglio intagliato nel tronco.

Il dottor Zivago
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