5.
Senza fermarsi in anticamera, passò nella stanza da letto, tenendo addosso la pelliccia. Le finestre affacciavano sul giardino. Ora, di notte, i cumuli di ombre davanti alla finestra, e quelli fuori in giardino, erano quasi gli stessi. La massa afflosciata delle tende era simile a quella degli alberi nudi e neri, dalle linee confuse. Il color nero violaceo della primavera agli inizi, che filtra dalla terra, riscaldava il buio taffetà della notte di fine inverno. Due elementi consimili intervenivano a comporre l’atmosfera della stanza: il fervore viola scuro della festa imminente raddolciva e alleggeriva la polverosa sensazione di chiuso delle cortine mal battute. Nell’icona la Madonna slanciava dal suo mantello d’argento le strette palme olivastre rivolte verso l’alto. In ciascuna teneva le due lettere greche, iniziali e finali, del proprio appellativo bizantino: “mether theou”, madre di Dio. Inserito in un portalampada d’oro, un lume di cristallo color granata, scuro come un calamaio, gettava sul tappeto un riflesso a forma di stella, sminuzzato dalle sfaccettature del vetro.
Togliendosi il fazzoletto e la pelliccia, la Galuzin fece un falso movimento e avvertì di nuovo una fitta nel fianco e un senso di peso alla scapola. Spaventata, cacciò un grido e, balbettando: «Grande protettrice degli afflitti, Vergine pura, pronto aiuto, protezione del mondo», si mise a piangere. Poi, quando il dolore diminuì, cominciò a spogliarsi. I ganci di dietro, sul colletto e lungo la schiena le sfuggivano di mano e si impigliavano nelle grinze del tessuto color fumo. A stento riusciva ad afferrarli.
Entrò Ksjugsh, la figlia adottiva, svegliata dal suo arrivo.
«Perché così al buio, mammina? Volete una lampada?»
«Non importa. Ci vedo anche così.»
«Mammina Ol’ga Nìlovna, lasciate fare a me, non vi tormentate.»
«Le dita non mi obbediscono, mi viene da piangere. Ma quel giudeo di sarto mica ci ha pensato ad attaccare i ganci in un modo meno bestiale, gallinaccio cieco che non è altro. Quasi quasi li scucirei tutti per andarglieli a sbattere sul muso.»
«Cantavano bene in chiesa. E’ una notte tranquilla, si sentiva fin da qui.»
Sì, sì, cantavano benissimo, ma io, accidenti, non sto bene. Di nuovo mi sento una fitta qui e qui. Dappertutto. E’ un guaio. Non so che fare.»
«L’omeopata Stydobskij vi curava bene.»
«Sempre i tuoi consigli impossibili. Il tuo omeopata è un veterinario. Prima cosa, non è buono a nulla, e, in secondo luogo, è partito. Partito, partito. E non lui solo. Alla vigilia della festa, tutti hanno abbandonato la città, come se dovesse esserci un terremoto.»
«Sì, ma di quel dottore ungherese prigioniero eravate contenta.»
«Altra sciocchezza. Ti dico che non c’è nessuno, se la sono svignata tutti. Kereny Layos e gli altri ungheresi sono rimasti oltre la linea di demarcazione. L’hanno costretto a entrare in servizio. L’hanno preso nell’Esercito Rosso.»
«Voi però vi preoccupate per nulla. E’ una nevrosi cardiaca. La suggestione in questi casi fa miracoli. Ricordate quella moglie d’un soldato che vi faceva gli incantesimi? Vi toglieva tutto il male con un segno della mano. Non so più come si chiama, quella donna. Ho dimenticato il nome.»
«Si vede che mi consideri proprio una stupida ignorante. Ancora un po’ e mi canterai dietro le spalle la storia di Sentetjuricha.»
«Per amor di Dio! Non dite queste cose, mammina. Cercate piuttosto di ricordarvi come si chiama quella donna. Ce l’ho sulla punta della lingua. Non starò tranquilla finché non mi verrà in mente.»
«Ma quella ha più nomi che sottane! Non so qual è il nome che cerchi tu. La chiamano Kubarìcha, o Medvedicha o Zlidàricha. E con un’altra decina di soprannomi. Ma nemmeno lei è più da queste parti. La recita è finita e cerca un po’ il vento nel campo. L’hanno messa dentro, nella prigione di Kezma. Per procurato aborto e per certe polverine. Ma lei, capisci, invece che ammuffire in prigione, se l’è svignata chissà dove nell’E stremo Oriente! Te l’ho detto che sono spariti tutti. Vlas Pachomych, Terësha, quel cuore tenero della zia Polja. Di donne oneste siamo rimaste solo noi due sceme, in tutta la città, non credere che scherzi. E nessuna assistenza medica. Se succede qualcosa, è finita, non puoi chiamare nessuno. Dicevano che a Jurjatin c’era una celebrità di Mosca, un professore, figlio di un commerciante siberiano che si è suicidato. Mentre pensavo se mandarlo a chiamare, hanno messo venti cordoni di soldati rossi sulla strada, non puoi più nemmeno starnutire. Ma parliamo d’altro. Vai a letto e io proverò a dormire. Lo studente Blazein ti fa girare la testa. Perché vuoi negare? Tanto non puoi nasconderlo, sei diventata rossa come un gambero. Quel tuo studente disgraziato fatica sulle fotografie anche nella notte santa, sempre a sviluppare e a stampare quelle fotografie. Quelli non dormono e non lasciano dormire gli altri. Il loro Tomik guaisce che tutta la città lo sente. E quella carogna d’una cornacchia s’è messa a gracchiare sul nostro melo. Vedo già che non potrò chiuder occhio tutta la notte. Ma che cos’hai da offenderti, permalosa che non sei altro! Gli studenti ci sono apposta per piacere alle ragazze.»