15.
«E ora: sincerità per sincerità. Lo Strèl’nikov di cui mi avete raccontato è mio marito Pasha, Pavel Pàvlovich Antipov, che io ero andata a cercare al fronte e alla cui morte così giustamente mi ero rifiutata di credere.»
«Non mi sorprende, c’ero preparato. Ho sentito anch’io questa voce ma la ritenevo assurda. E’ per questo che mi sono permesso di parlarvi di lui liberamente, senza cautele, come se questa voce non esistesse. E’ assurdo. Io ho visto quell’uomo. Come è possibile mettervi in relazione con lui? Cosa c’è di comune tra voi?»
«Eppure è così, Jurij Andrèevich. Strèl’nikov è Antipov, mio marito. Io condivido l’opinione generale. Anche Kàten’ka lo sa, ed è orgogliosa di suo padre. Strèl’nikov è un nome fittizio, il suo pseudonimo, come l’hanno tutti i rivoluzionari. Ci sarà qualche motivo che lo fa vivere e agire sotto altro nome. Vedete, ha conquistato Jurjatin, ci ha tempestato di obici, sapeva che noi eravamo qui, eppure, per non compromettere il suo segreto, non s’è informato nemmeno una volta se eravamo salve o no. Ha dovuto agire così, si capisce, e se ci avesse chiesto come comportarsi, noi stesse glielo avremmo consigliato. Voi direte che la mia sicurezza, la relativa comodità della casa che il soviet mi ha messo a disposizione e altre cose, sono prove indirette del suo interesse per noi. Non riuscirete a persuadermene. Essere qui a due passi, e resistere al desiderio di vederci! E’ al di sopra della mia comprensione, il mio cervello non riesce a capacitarsene. E’ una cosa per me inaccessibile: non è la vita ma una specie di virtù romana, una delle follie d’oggi. Ma mi accorgo che sto cadendo sotto la vostra influenza e comincio a ripetere quello che dite voi. E non vorrei: noi due non la pensiamo allo stesso modo. C’intendiamo su certe cose inafferrabili, facoltative; ma nelle cose veramente importanti, nell’interpretazione della vita, preferisco considerarci avversari.
«Ma torniamo a Strèl’nikov. Ora è in Siberia, e voi avete ragione: anche a me è giunta notizia della riprovazione che lo circonda e mi si gela il cuore. E’ in Siberia, in uno dei settori più avanzati e sta sconfiggendo il suo amico d’infanzia e compagno d’armi Galiullin, per il quale il nome di lui non è un segreto, né è un segreto che io sia sua moglie. Eppure, con finezza d’animo ammirevole, non me l’ha mai fatto capire, benché solo a sentir nominare Strèl’nikov monti su tutte le furie e vada in bestia. Sì, così ora Strèl’nikov è in Siberia. Quando era qui (e c’è stato a lungo, abitando tutto il tempo nel treno dove voi l’avete visto), ho sempre cercato d’incontrarmi con lui con qualsiasi mezzo, per caso, in modo imprevisto. Talvolta lui andava allo Stato Maggiore che stava dove prima aveva sede la direzione militare del Komuch, le truppe dell’Assemblea Costituente. E pensate lo strano scherzo del destino. L’ingresso agli uffici dello Stato Maggiore era nella stessa ala del fabbricato dove un tempo mi aveva ricevuto Galiullin, quando andavo da lui in cerca d’aiuto. Per esempio, c’era stata la storia del corpo dei cadetti che aveva fatto scalpore. I cadetti avevano cominciato ad arrestare e a fucilare gli istruttori più invisi, col pretesto che erano bolscevichi. O quando cominciarono a perseguitare e a massacrare gli ebrei. Naturalmente per noi vissuti in città e che facciamo un lavoro intellettuale, la metà dei conoscenti sono ebrei. E in periodi di pogrom, dinanzi agli orrori e alle infamie, oltre allo sdegno, alla vergogna e alla pietà, ci assilla una sensazione penosa di doppiezza, come se la nostra commiserazione sia in parte voluta e spiacevolmente insincera. Coloro che un tempo hanno liberato l’umanità dal giogo dell’idolatria e che oggi in così gran numero si consacrano alla sua emancipazione sociale, sono impotenti a liberarsi da se stessi, dalla fedeltà a un appellativo anacronistico, e che ha perso ogni significato. Non possono elevarsi al di sopra di se stessi, mescolarsi, senza lasciar traccia, a tutti gli altri che proprio da loro hanno ricevuto i fondamenti della propria religione e che gli potrebbero essere tanto più vicini se solo li conoscessero meglio. Certamente, le persecuzioni e i martiri li costringono a questo atteggiamento inutile e fatale; a questa schiva solitudine, piena d’abnegazione, e che arreca solo sciagure; ma in questo c’è anche una decrepitezza interiore, una secolare stanchezza storica. Non amo il loro ironico farsi animo, la loro monotona povertà d’idee, l’immaginazione così poco ardita. Sono irritanti, come i discorsi dei vecchi sulla morte e dei malati sulla malattia. Siete d’accordo?»
«Non ci ho pensato. Ho un amico, un certo Gordon, che ha le stesse opinioni.»
«E così andavo là ad appostare Pasha. Sperando che arrivasse o uscisse dall’edificio. Una volta in quell’ala c’era l’ufficio del governatore generale. Ora sulla porta c’è un cartello: ‘Ufficio reclami’. Forse l’avete visto. E’ il punto più bello della città. La piazza, davanti alla porta, è lastricata e, più avanti, c’è il giardino pubblico: viburno, aceri, biancospino. Mi mettevo sul marciapiede, nella fila dei postulanti, e aspettavo. Certo, non insistevo per essere ricevuta, non dicevo ch’ero sua moglie. Tanto, i cognomi sono differenti. Ma credete che conti la voce del cuore? Loro hanno altri principi. Suo padre, per esempio, Pavel Ferapòntovich Antipov, operaio ed ex deportato politico, lavora in un tribunale, nelle vicinanze, nella stessa località dove un tempo era deportato. E anche il suo amico Tiverzin. Sono membri del tribunale rivoluzionario. Ebbene, lo credereste? Il figlio non si rivela neppure al padre, che la considera una cosa normale, e non se ne offende. Suo figlio è in incognito, quindi non si può. Non sono uomini, sono rocce. Principi, disciplina. E poi, anche se avessi potuto dimostrare che ero sua moglie, credete che avrebbe avuto importanza? Era forse il momento di occuparsi delle mogli? Erano tempi per queste cose? Proletariato mondiale, trasformazione dell’universo, questo è un altro discorso, questo sì che va bene! Ma un singolo bipede come una qualsiasi moglie, che volete, puah, è l’ultima delle pulci, un pidocchio. L’aiutante girava fra la gente, interrogava, lasciava entrare qualcuno. Io non facevo il mio nome, e quando mi chiedeva che cosa volessi rispondevo che si trattava di una questione personale. Era come dare partita vinta, essere certi di un rifiuto. L’aiutante si stringeva nelle spalle, mi esaminava sospettoso. E così non l’ho visto nemmeno una volta. Ma credete che lui s’infischi di noi, che non ci voglia più bene, non ci ricordi? E’ tutto il contrario! Lo conosco così bene, io! E’ per un eccesso di sentimento, che ha voluto così! Ha bisogno di deporre ai nostri piedi tutti i suoi allori di guerra, per non tornare a mani vuote, ma pieno di gloria, vincitore! Per abbagliarci! Come un bambino!
Entrò di nuovo Kàten’ka. Larisa Fëdorovna prese per le braccia la bambina stupita, cominciò a dondolarla, a farle il solletico, a baciarla, a soffocarla di abbracci.