14.
L’ospedale evacuato sorgeva in una delle cittadine della zona occidentale, lungo la linea ferroviaria, nelle vicinanze dello Stato Maggiore. Era la fine di febbraio con le sue tiepide giornate. Nel padiglione convalescenti del reparto ufficiali, Jurij Andrèevich aveva chiesto che gli fosse aperta la finestra vicino alla branda.
Si avvicinava l’ora dei pranzo. I malati cercavano di ingannare ciascuno a suo modo l’attesa. Avevano saputo che era arrivata una nuova infermiera e che quel giorno sarebbe stata di turno per la prima volta. Galiullin, che giaceva di fronte a Jurij Andrèevich, guardava i giornali appena ricevuti, il “Rece”, il “Rùsskoe Slovo”, e si indignava dei vuoti lasciati dalla censura. Jurij Andrèevich leggeva le lettere di Tonja, recapitategli tutte insieme dalla posta del campo. Il vento muoveva le pagine delle lettere e dei giornali. Si udirono dei passi leggeri. Jurij Andrèevich sollevò gli occhi. Era entrata Lara.
Jurij Andrèevich e il tenente, ciascuno per proprio conto, nulla sapendo l’uno dell’altro, la riconobbero. Lei non conosceva nessuno dei due. Disse:
«Buongiorno. Perché la finestra è aperta? Non avete freddo?» e si avvicinò a Galiullin. «Che cosa avete?» domandò e gli prese la mano per sentire il polso, ma la lasciò subito e sedette su una sedia accanto alla branda, turbata.
«Che sorpresa, Larisa Fëdorovna», aveva detto Galiullin. «Ero nello stesso reggimento di vostro marito e conoscevo Pavel Pàvlovich. Ho conservato le sue cose per voi.»
«Non può essere, non può essere,» ripeteva Lara. «Che straordinaria coincidenza. E così, lo conoscevate? Ditemi, ditemi come è successo? E’ morto, non è vero? Soffocato sotto la terra. Non nascondetemi nulla, non temete, so già tutto.»
A Galiullin mancò il coraggio di confermarle quelle notizie attinte dalle voci che correvano, e preferì mentire per calmarla.
«Antipov è prigioniero,» disse. «Si era inoltrato troppo con la sua unità durante l’avanzata ed è rimasto isolato. Lo hanno circondato ed è stato costretto ad arrendersi.»
Ma Lara non gli credette. La sorpresa di quell’incontro l’aveva sbigottita e sconvolta. Non poteva parlare perché si sentiva salire le lacrime e non voleva piangere di fronte a un estraneo. Si alzò in fretta e uscì nel corridoio per cercare di dominarsi.
Poco dopo rientrò apparentemente calma. Cercava di non guardare dalla parte di Galiullin per non scoppiare di nuovo in lacrime. S’avvicinò alla branda di Jurij Andrèevich, e disse con tono distratto e ufficiale:
«Buongiorno. Che cosa avete?»
Jurij Andrèevich si accorse della sua agitazione e notò che aveva pianto: avrebbe voluto chiederle che aveva, dirle che già due volte nella sua vita l’aveva vista, quando era studente di ginnasio e poi d’università, ma pensò ch’era prendersi un’eccessiva confidenza, col rischio, anche, di venire frainteso. Poi, a un tratto ricordò Anna Ivànovna morta nella bara e le grida di Tonja, nella casa del vicolo Sivcev, si dominò e disse soltanto:
«Grazie. Sono medico anch’io e mi curo da me. Non ho bisogno di nulla.»
«Perché si è offeso?» pensò Lara e guardò meravigliata quello sconosciuto dal naso camuso, un tipo come tanti altri.
Per vari giorni il tempo fu instabile e alterno, con un vento tiepido e frusciante durante le notti che odoravano di terra umida.
E in tutti quei giorni, dallo Stato Maggiore giungevano ambigue informazioni, e dai parenti, dall’interno del paese, voci allarmanti. Il collegamento telegrafico con Pietroburgo era interrotto. Dappertutto, in ogni angolo, si accendevano discussioni politiche.
Durante i suoi turni, la crocerossina Antipov faceva due giri, la mattina e la sera, e scambiava ovvie osservazioni coi malati degli altri reparti, con Galiullin, con Jurij Andrèevich. Che strano, curioso tipo, pensava. Giovane e cortese. Col naso camuso, tutt’altro che bello. Solo intelligente nel senso migliore della parola, di una intelligenza viva, attraente. Ma che sto a pensare? Devo al più presto cercare di farmi trasferire a Mosca, vicino a Kàten’ka. E, a Mosca, chiedere di essere esonerata da questo lavoro, tornare a casa, a Jurjatin, e riprendere a insegnare al ginnasio. Per il povero Patulechka, è chiaro, nessuna speranza, perciò non c’è più scopo di restare fra le eroine dei fronte. L’avevo fatto solo per ritrovarlo. Cosa ne sarà di Kàten’ka? (A questo punto le veniva voglia di piangere.) Che bruschi e radicali cambiamenti negli ultimi tempi! Fino a poco fa il dovere di fronte alla Patria, il valore in guerra, gli elevati sentimenti sociali erano sacri. Ora che la guerra è perduta, questa è la sciagura più grande e tutto il resto ne è la conseguenza, e tutto ha perso d’importanza, niente più è sacro. D’un colpo, ogni cosa è cambiata, il tono, l’aria, non si sa che pensare, chi ascoltare. Quasi che per tutta la vita ti avessero condotto per mano come una bambina e, a un tratto, ti avessero lasciato: impara a camminare da sola. E non c’è nessuno intorno, né amici né autorità costituite. Allora ci si vorrebbe poter affidare all’essenziale, alla forza della vita o alla bellezza o alla verità, perché esse, e non le autorità umane ormai travolte, ti dirigano in modo sicuro e senza riserve più di quanto non avvenisse nella solita vita di sempre, ora tramontata e lontana. Nel suo caso - si riprendeva in tempo - il suo scopo e il suo dovere incondizionato sarebbe stata Kàten’ka. Adesso, senza più Patulechka, lei era soltanto una madre e avrebbe dedicato tutta se stessa a Kàten’ka, povera orfanella.
Jurij Andrèevich aveva avuto notizie da Mosca. Gordon e Dudorov avevano pubblicato di loro iniziativa il suo libro: era stato lodato e, gli era stato pronosticato un grande avvenire letterario. A Mosca c’era una strana, inquietante atmosfera; si sentiva crescere la sorda irritazione popolare; si era alla vigilia di qualcosa di importante; seri avvenimenti politici si andavano avvicinando.
Era notte inoltrata. Una pesante sonnolenza s’impadronì di Jurij Andrèevich. Sonnecchiava a intervalli e pensava che per le emozioni della giornata non avrebbe potuto addormentarsi, non avrebbe dormito. Fuori della finestra sbadigliava e si agitava un vento stanco, dal sonnolento respiro. Il vento quasi piangendo mormorava: «Tonja, Shashen’ka, che nostalgia ho di voi, come ho voglia di tornare a casa, al mio lavoro!» E, sotto il brontolio del vento, Jurij Andrèevich dormiva, si svegliava e si riaddormentava, in un rapido alternarsi di serenità e di angoscia, fugaci e ansiose, come quel tempo instabile e l’incerta notte.
Lara pensava: «E’ stato così premuroso, a conservare i suoi ricordi, le povere cose di Pàtulechka e io, è proprio una vergogna, non gli ho nemmeno domandato chi sia e di dove venga.»
Durante il giro del mattino seguente, volle fare quello che aveva trascurato e cancellare ogni ombra d’ingratitudine: interrogò Galiullin, fra continue esclamazioni di meraviglia.
Santa volontà di Dio! Via Brèstkaja 28, i Tiverzin, l’inverno della rivoluzione del 1905! Jusupka? No. Jusupka non l’aveva conosciuto, oppure non se lo ricordava, scusate, ma quell’anno, quell’anno e il cortile! Perché, questo è vero, c’era stato davvero quel cortile e quell’anno! Oh, come le sembrava di rivivere quelle cose! E la sparatoria d’allora e (com’era, fammi ricordare!) “Il pensiero di Cristo”! Che intensità, che penetrazione hanno quelle sensazioni dell’infanzia, le prime! «Scusate, scusate, come vi chiamate, tenente? Sì, sì, me l’avete già detto. Grazie, oh come vi ringrazio, Osip Gimazètdinovich, quali ricordi, quali pensieri mi avete ridestato!»
Per tutta la giornata ebbe nell’anima «quel cortile» e non fece che meravigliarsi. Pensava quasi ad alta voce.
Via Brèstkaja 28! Ed ecco di nuovo la sparatoria, ma quanto più terribile! Non sono più «i fanciulli che sparano». I fanciulli sono cresciuti e sono tutti qui, fra i soldati, tutto il popolo semplice di quei cortili e di villaggi come quei cortili. Straordinario! Straordinario!
Entrarono nella stanza, battendo il pavimento coi bastoni e le stampelle, accorsero e zoppicarono gli invalidi e i malati dei reparti vicini, e tutti insieme gridavano:
«Avvenimenti importanti, eccezionali. A Pietroburgo, tumulti per le strade. Le truppe della guarnigione di Pietroburgo sono passate dalla parte degli insorti. E’ la rivoluzione.»