21.

Nonostante il corso normale della vita, ormai rientrata nei suoi binari, passato dicembre ancora si sparava, qua e là, e i nuovi incendi che scoppiavano di continuo sembravano i residui di quelli precedenti che finivano di bruciare.

Non erano mai andati così lontano in slitta e così a lungo come quella notte. In realtà era vicinissimo: lo Smolenskij, il Novinskij e metà della Sadovaja. Ma il gelo feroce, accompagnato dalla nebbia, divideva lo spazio in tanti frammenti che se ne smarriva il senso, come se dappertutto non fosse lo stesso. Il fumo denso e sfilacciato dei falò, lo scricchiolio dei passi e lo stridore dei pattini aumentavano l’impressione di viaggiare da chissà quanto tempo e di essersi spinti in lontananze senza fine.

Davanti all’albergo un cavallo coperto di una gualdrappa, con i pasturali fasciati, era attaccato a una slitta tutta snella ed elegante. Al posto dei passeggeri sedeva il vetturino che, per riscaldarsi, si stringeva fra le mani guantate la testa incappucciata.

Nel vestibolo era caldo e, dietro la ringhiera che separava lo spogliatoio dall’ingresso, dormiva il portiere russando tanto rumorosamente che di tanto in tanto si svegliava da sé, per riprendere poi a sonnecchiare, cullato dal ronzio del ventilatore, dall’ansito della stufa che bruciava e dal sibilo del samovar in ebollizione.

A sinistra del vestibolo, davanti a uno specchio, stava una signora truccata, col viso paffuto farinoso di cipria, e indosso una giacca di pelle troppo leggera per il freddo di quei giorni. Aspettava qualcuno che dove va scendere e, volgendo la schiena allo specchio, guardava, ora al di sopra della spalla destra., ora della sinistra, l’effetto della sua figura vista da dietro.

Si affacciò alla porta di strada il vetturino intirizzito. Per la forma del suo caffettano ricordava la ciambella d’una insegna di fornaio, e il vapore che a volute emanava da lui rendeva ancor più evidente la somiglianza.

«Dovrebbero sbrigarsi, “mamzell”,» disse alla signora davanti allo specchio. «A impegnarsi con voialtri non si ricava altro che far gelare il cavallo.»

L’incidente alla camera ventiquattro era un’inezia in confronto all’abituale, rabbiosa esasperazione in mezzo a cui il personale viveva tutto il giorno. Ogni momento squillavano i campanelli, e, sul quadro della parete, scattavano i numeri che indicavano in quale stanza qualcuno stava perdendo la testa e tormentava i camerieri di servizio senza sapere neppure cosa volesse.

Ora era quella vecchia pazza della Guichard, al ventiquattro: le davano un emetico e le risciacquavano gli intestini e lo stomaco. La cameriera Glasha s’era rotta la schiena a lavare il pavimento della camera e a portare avanti e indietro secchi d’acqua sporca e pulita. Ma la tempesta che infuriava adesso nell’“office” era cominciata assai prima, quando ancora non si prevedeva nulla del genere e Terëshka non era stato ancora mandato con un vetturino di piazza a chiamare un dottore e quel povero strimpellatore; quando non era ancora giunto Komarovskij e nel corridoio davanti alla porta non si affollava tanta gente, buona solo a ingombrare il passaggio.

Ecco cosa aveva acceso la miccia: nel pomeriggio, qualcuno aveva infilato maldestramente lo stretto passaggio della caffetteria urtando senza volerlo il cameriere Sysòj, proprio nel momento in cui questi si piegava in avanti e prendeva lo slancio dalla porta verso il corridoio col vassoio carico sulla mano destra sollevata in alto. Sysòj aveva lasciato cadere il vassoio, rovesciato la minestra e rotto le stoviglie: tre fondine e un piatto.

Il cameriere sosteneva che era stata la sguattera, e che doveva lei rispondere dei danni. Ora era notte, le undici; metà del personale di lì a poco avrebbe dovuto lasciare il lavoro e fra loro continuava ancora il battibecco.

«Mani e gambe che gli tremano, non ha altro pensiero in testa che star abbracciato giorno e notte al suo mezzo litro, come fosse sua moglie, e col naso rosso come il becco d’un’oca, e poi dice che l’hanno urtato, gli hanno rotto i piatti, che s’è versata la zuppa dì pesce! Ma chi ti ha dato uno spintone, brutto demonio, diavolo maledetto? Chi è che ti ha dato uno spintone, ernia d’Astrachàn, facciatosta?»

«Ve l’ho già detto, Matrëna Stepànovna, misurate le parole.»

«Ne valesse almeno la pena di far tanto chiasso e di rompere i piatti; ma per un tipo simile, una ‘madame Prodàm’17, una smorfiosa da marciapiede, che ha preso l’arsenico, tanto le andavano bene le cose. Innocenza messa in soffitta! Ne abbiamo dovuti vedere, qui in albergo, di cani e cagne in fregola!»

Misha e Jura passeggiavano lungo il corridoio davanti alla porta della camera. Non era andata affatto come Aleksàndr Aleksàndrovich aveva immaginato. Un violoncellista, s’era detto, una tragedia, qualcosa di decoroso e pulito. E invece, chissà di che diavolo si trattava. Sudicerie, qualcosa di scandaloso, di assolutamente inadatto a dei bambini.

I ragazzi seguitavano ad andar su e giù per il corridoio.

«Entrate pure dalla zia, signorini.» Per la seconda volta cercava di persuaderli con voce lenta e sommessa un cameriere che si era avvicinato. «Entrate pure, non abbiate paura. Non sta mica male, rassicuratevi. Adesso tutto è a posto. Ma qui non si può stare. Qui proprio adesso è successo un disastro, hanno rotto dei piatti molto costosi. Vedete bene che dobbiamo lavorare, correre, ed è stretto. Su, entrate.»

I ragazzi obbedirono.

Nella camera la lampada a petrolio, che pendeva sul tavolo da pranzo, era stata tolta dal suo sostegno e collocata dall’altra parte del tramezzo di legno, fetido di cimici, che divideva in due l’ambiente.

Qui si trovava l’angolo per il letto, isolato dal resto della stanza e dagli sguardi estranei da una polverosa tenda a pieghe. Nel trambusto, avevano dimenticato di abbassarla e un lembo era gettato sull’orlo superiore del tramezzo. La lampada a petrolio era posata su uno sgabello e l’angolo risultava violentemente illuminato dal basso come dalla luce di una ribalta.

Il veleno usato era iodio, non arsenico, come erroneamente aveva malignato la sguattera. Nella camera regnava un odore acre e allapposo di noce dal guscio verde ancora morbido, che annerisce a toccarlo.

Al di là del tramezzo una ragazza lavava il pavimento; e, in un pianto rumoroso, spenzolando sopra una catinella la testa con ciocche di capelli incollate, giaceva sul letto, tutta inzuppata d’acqua, di sudore e di lacrime, una donna seminuda. I fanciulli distolsero subito da lei lo sguardo, turbati dallo spettacolo sconveniente. Ma Jura aveva fatto in tempo a notare con meraviglia come la donna, in certi atteggiamenti scomodi e scomposti, a causa di un’emozione o di uno sforzo, cessi di essere quella che la scultura rappresenta, e diventi simile a un lottatore spogliato, con i muscoli rilevati e i calzoncini corti, pronto per l’incontro.

Finalmente, dall’altra parte del tramezzo, ebbero l’idea di abbassare la cortina.

«Fadèj Kazìmirovich, caro, dov’è la vostra mano? Datemi la vostra mano,» diceva la donna con voce soffocata dalle lacrime e dalla nausea. «Ah, è terribile quello che ho patito! Avevo tali sospetti! Fadèj Kazimirovich… Mi ero immaginata… Ma per fortuna ho capito che erano tutte sciocchezze, la mia immaginazione squilibrata. Fadèj Kazìmirovich, voi capite che sollievo! E il risultato… ecco… ecco: sono viva.»

«Calmatevi, Amàlija Kàrlovna, vi supplico, calmatevi. Com’è imbarazzante tutto questo, parola d’onore, davvero imbarazzante…»

«Ora andiamo a casa,» bofonchiò Aleksàndr Aleksàndrovich, rivolgendosi ai ragazzi. Smarriti e a disagio, essi erano rimasti nel vestibolo buio sulla soglia, al di qua del tramezzo e non sapendo dove posare gli occhi, guardavano nella penombra, là dove era stata tolta la lampada. Le pareti erano coperte di fotografie, c’era un’“étagère” con degli spartiti, la scrivania ingombra di carte e di album, mentre dalla parte opposta dei tavolo da pranzo coperto da una tovaglia lavorata a maglia, una ragazza dormiva in una poltrona, abbracciata allo schienale, sul quale aveva appoggiato la guancia. Doveva essere stanca morta, se il rumore e il trapestio non le impedivano di dormire.

Venire era stata un’idea assurda e trovarsi lì ora, una sconvenienza. «Adesso andiamo,» ripeté ancora una volta Aleksàndr Aleksàndrovich. «Appena esce Fadèj Kazìmirovich. Voglio salutarlo.»

Ma, invece di Fadèj Kazìmirovich, dal tramezzo uscì un’altra persona: un uomo vigoroso, ben rasato, prestante e sicuro di sé. Teneva la lampada alta, oltre la testa: si avvicinò al tavolo, dietro cui dormiva la ragazza e rimise la lampada a posto. La luce destò la ragazza, che gli sorrise, e si stirò socchiudendo gli occhi.

Alla vista dello sconosciuto, Misha ebbe un sussulto e non riusciva a staccargli gli occhi di dosso: poi tirò Jura per la manica, tentando di dirgli qualcosa.

«Non ti vergogni di parlarmi all’orecchio in casa di altri? Cosa penseranno di te?» lo rimproverò Jura e non volle ascoltarlo.

Intanto, fra l’uomo e la ragazza si svolgeva una scena muta. Non s’erano detti una parola, limitandosi a scambiarsi alcune occhiate. Ma tra loro c’era un’intesa così portentosa da far quasi paura, come se lui fosse il burattinaio e lei la marionetta, docile ai movimenti della sua mano.

Il sorriso di stanchezza, apparso sul viso della ragazza, ne lasciava appena semiaperte le labbra e ne socchiudeva gli occhi. Ma agli sguardi ironici dell’uomo, lei rispondeva con un ammiccare pieno di maliziosa complicità. Erano entrambi contenti che tutto si fosse concluso così felicemente, che il loro segreto non fosse trapelato e la donna che aveva tentato di avvelenarsi si fosse salvata.

Jura li divorava con gli occhi. Dalla penombra dove nessuno poteva scorgerlo, fissava senza distogliere lo sguardo la scena illuminata dalla lampada. Lo spettacolo di quella ragazza così assoggettata era qualcosa di incredibilmente misterioso e allo stesso tempo d’impudicamente esplicito. Sentimenti contraddittori gli si affollavano nell’anima, mentre una forza sconosciuta gli serrava il cuore.

Era ciò di cui avevano discusso, accalorandosi, lui e Misha e Tonja, e ciò che loro intendevano dire con quel nome astratto e privo di senso, «volgarità», ma una cosa che spaventava e insieme attraeva, e che così facile era sistemare a parole standone a riguardosa distanza: ed eccola ora lì, quella forza, sotto i suoi occhi, a due passi, da poterla toccare con mano, eppure stranamente confusa, come in un sogno, qualcosa di spietatamente distruttivo e che nello stesso tempo gemeva, implorava aiuto. Dove era andata a finire la loro infantile filosofia e che poteva fare ora lui, Jura?

«Sai chi è quell’uomo?» domandò Misha quando uscirono in strada. Jura era immerso nei suoi pensieri e non rispose.

«E’ quello che ha fatto di tuo padre un alcolizzato e l’ha rovinato. Ti ricordi? In treno. Te l’ho raccontato.»

Jura pensava alla ragazza e all’avvenire, non a suo padre e al passato. In un primo momento neppure comprese che cosa Misha gli dicesse. Nel gelo era difficile parlare.

«Ti sei gelato, Semën?» chiese Aleksàndr Aleksàndrovich al cocchiere. E ripartirono.

Il dottor Zivago
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