14.

Non appena il morto venne trasportato nella casa dove aveva abitato ultimamente, al Kamergèrskij, gli amici, sconvolti dalla notizia, erano accorsi nell’appartamento insieme a Marina, che al terribile annuncio era quasi impazzita. Per lungo tempo rimase fuori di sé, si trascinò sul pavimento, battendo la testa contro la lunga cassapanca con lo schienale, che stava come sedile nell’anticamera e sulla quale avevano deposto la salma in attesa che arrivasse la bara, e la stanza accanto, ancora non rifatta, fosse riordinata. Marina si scioglieva in lacrime, sussurrava e gridava con parole mozze che per una buona metà le uscivano suo malgrado in urla e lamenti da prefica. Farneticava come in un lamento popolare, senza accorgersi, né vergognarsi di nessuno. Si avvinghiava alla salma e non si riusciva ad allontanarla per trasportare il cadavere nella stanza riordinata e liberata dei mobili superflui, ove si doveva lavarlo e comporlo nella bara che ormai era giunta. Tutto questo era accaduto il giorno prima. Ora la furia del suo dolore si era placata, lasciando il posto a un’ottusa depressione: continuava a esser fuori di sé, a non dir nulla, a ignorare quel che le accadeva intorno.

Aveva passato lì l’ultima parte del giorno precedente e tutta la notte, senza mai allontanarsi. Le avevano portato Klasha da allattare, e Kapka con la giovanissima bambinaia, che poi erano state ricondotte via.

La attorniavano gli intimi, Dudorov e Gordon, che soffrivano con lei. Le stava seduto accanto, su uno sgabello, il padre, Markèl, che singhiozzava sommesso e si soffiava il naso fragorosamente. Erano venute a visitarla anche la madre e le sorelle in lacrime.

C’erano due persone, in mezzo alla gente, un uomo e una donna, che si distinguevano da tutti. Non protestavano sugli altri una maggiore intimità col morto. Non volevano competere col dolore di Marina, delle figlie e degli amici del defunto, anzi lasciavano loro ogni precedenza. Non avanzavano nessuna pretesa, ma sembravano avere certi loro diritti, del tutto particolari, sul morto. E nessuno contestava, nessuno discuteva quei diritti, inesplicabili e sottintesi, di cui entrambi in certo qual modo apparivano investiti. Erano loro, evidentemente, che s’erano assunte fin dal principio la cura e l’organizzazione dei funerali e ne disponevano con una così serena tranquillità che sembrava quasi ne provassero soddisfazione. Questa loro nobiltà spirituale saltava agli occhi di tutti e produceva una strana impressione. Pareva che fossero partecipi non soltanto dei funerali, ma anche di quella morte, non come responsabili o cause indirette, bensì come se avessero dato il loro consenso a quell’avvenimento e vi si rassegnassero, non attribuendogli eccessiva importanza. Qualcuno li conosceva, altri intuivano chi fossero, altri ancora, ed erano la maggioranza, non ne avevano idea.

Ma quando l’uomo con gli stretti occhi chirghisi scrutatori, che eccitavano la curiosità, e la donna, bella senza ricercatezza, entravano nella stanza in cui era stata posta la bara, tutti coloro che vi si trovavano, compresa Marina, senza obiezioni, come per un tacito accordo, si facevano in disparte, si alzavano dalle sedie e dagli sgabelli disposti lungo le pareti e, affollandosi, uscivano nel corridoio e nell’anticamera. L’uomo e la donna rimanevano soli dietro la porta chiusa, come due iniziati, chiamati a compiere in silenzio, senza impedimenti e disturbi di sorta, qualcosa di importante, di essenziale, direttamente connesso con il seppellimento. Così era avvenuto anche ora. Una volta soli, si sedettero su due sgabelli accanto al muro e cominciarono a parlare.

«Cosa avete saputo, Evgràf Andrèevich?»

«La cremazione si farà stasera. Fra mezz’ora manderanno a prendere la salma dal sindacato dei medici e la porteranno nel Club del sindacato. Per le quattro è fissato il funerale civile. Nessuna delle sue carte era in ordine. Il libretto di lavoro era scaduto, la vecchia tessera del sindacato non rinnovata; da molti anni non versava le quote. Si è dovuto sistemare tutto. Di qui le lungaggini e il ritardo. Prima che lo portino via - anzi, il momento s’avvicina, bisogna prepararci - vi lascerò sola, come mi avete chiesto. Scusate. Sentite? Il telefono. Un momento.»

Evgràf Zivago uscì nel corridoio pieno di sconosciuti colleghi del dottore, di suoi compagni di scuola, di impiegati d’ordine dell’ospedale e di operai tipografi. C’erano anche Marina e le bambine. Circondandole con le braccia e coprendole coi lembi del paltò (la giornata era fredda e dal portone d’ingresso veniva un’aria gelata), era seduta sull’orlo di uno sgabello, in attesa che riaprissero la porta, come la moglie d’un detenuto che aspetta che la guardia la introduca nel parlatorio del carcere. La porta che dava sulla scala era aperta e una quantità di persone passeggiava e fumava tra l’anticamera e il pianerottolo. Sulla scala conversavano tanto più forte e liberamente, quanto più la strada era vicina. Cercando di sentire nonostante il brusio della gente, Evgràf, con voce soffocata, come richiedevano le convenienze, e coprendo col palmo della mano il ricevitore, dava risposte relative alla preparazione del funerale e alle circostanze della morte dei dottore. Poi tornò nella stanza. La conversazione riprese.

«Dopo la cremazione non sparite, ve ne prego, Larisa Fëdorovna. Ho una preghiera da rivolgervi. Non so nemmeno dove alloggiate. Non lasciatemi nell’impossibilità di ritrovarvi. Al più presto, domani o dopodomani, vorrei mettermi a ordinare le carte di mio fratello. Avrò bisogno del vostro aiuto. Voi sapete una quantità di cose, più di tutti, probabilmente. Avete accennato che siete arrivata solo due giorni fa da Irkùtsk per un breve soggiorno a Mosca, e che eravate venuta in questa casa per un altro motivo, per caso, senza sapere che mio fratello ci aveva vissuto negli ultimi mesi e all’oscuro di cosa fosse successo. Una parte delle vostre parole non l’ho capita, e non chiedo spiegazioni; ma non sparite, io non so il vostro indirizzo. La cosa migliore sarebbe che questi pochi giorni che dedicheremo a riordinare i manoscritti, li passassimo nella stessa casa, o comunque non lontano, o magari anche qui, in due di queste stanze. E’ una cosa che si può fare. Conosco l’amministratore.»

«Dite che non mi avete capito. Cos’è che non è chiaro? Sono arrivata a Mosca, ho lasciato i bagagli al deposito, e mi sono messa a camminare per la vecchia Mosca, senza quasi riconoscerla. L’avevo dimenticata. Cammino e cammino, discendo da ponte Kuzneckij, risalgo per il vicolo Kuzneckij, quando all’improvviso mi imbatto in qualcosa di straordinariamente, terribilmente familiare: il Kamergèrskij. Qui Antipov, il mio povero marito che è stato fucilato, aveva preso in affitto una stanza, quand’era studente, anzi proprio questa stanza. Ho pensato di farmi vedere. Forse poteva darsi che fossero ancora vivi i vecchi padroni di casa. Che di loro non si era saputo più nulla e che qui tutto era cambiato, l’ho appreso poi, il giorno dopo e oggi, chiedendo via via. Ma eravate presente anche voi, perché raccontarvelo? Sono rimasta come fulminata: il portone d’ingresso aperto, nella stanza tanta gente, una bara, nella bara un morto. Chi sarà? Entro, mi avvicino, e credevo d’essere impazzita, di sognare. Ma di tutto questo voi siete stato testimone, non è vero? Perché ve lo racconto?»

«Aspettate, Larisa Fëdorovna, vi devo interrompere. Vi ho già detto che io e mio fratello non sospettavamo lontanamente a quante sorprendenti memorie fosse legata questa stanza; che, per esempio, un tempo vi abitasse Antipov. Ma ancora più sorprendente è l’espressione che vi è sfuggita poco fa, inavvertitamente. Vi dirò quale, scusate. Di Antipov, per un certo tempo, al principio della guerra civile, io sapevo molte cose, ne sentivo parlare spesso sotto il nome di Strèl’nikov, il suo nome di battaglia. E l’ho anche incontrato personalmente, due o tre volte, senza prevedere quanto da vicino mi avrebbe un giorno interessato, per ragioni familiari. Scusatemi, posso aver sentito male, ma mi è parso che voi abbiate detto ‘mio marito che è stato fucilato’. E’ certo un lapsus. Non sapete che si è ucciso?»

«Gira anche questa versione, lo so, ma non ci credo. Pavel Pàvlovich non era uomo da uccidersi.»

«Ma è la verità. Antipov si è ucciso nella stessa casa da cui, secondo quel che m’ha raccontato mio fratello, voi siete partita per Jurjatin, diretta a Vladivostòk. E’ successo poco dopo la vostra partenza. Mio fratello ha raccolto il suo cadavere e l’ha seppellito. Possibile che non vi siano mai giunte queste notizie?»

«No. Avevo altre informazioni. Allora è vero? Molti lo dicevano, ma io non ci credevo; e proprio in quella casa. Incredibile! E’ straordinario quello che mi avete detto! Scusate, non sapete se lui e Zivago si sono incontrati? Se hanno parlato?»

«Secondo quanto mi ha detto il povero Jurij, ebbero un lungo colloquio.»

«Davvero? Dio sia lodato. Meglio così. (Si fece lentamente il segno della croce.) Che stupefacente concorso di circostanze, voluto dall’alto! Mi permetterete di tornare ancora una volta su questo argomento e di domandarvi ogni particolare? Anche il più piccolo dettaglio m’è caro. Ma ora non posso, non è vero? Sono troppo agitata. Starò un po’ in silenzio, mi riposerò, riordinerò i miei pensieri. Non è vero?»

«Oh, certo, certo, prego.»

«Non è vero?»

«Si capisce.»

«Ah quasi me ne dimenticavo. Mi avete chiesto di non andarmene dopo la cremazione. Bene, ve lo prometto. Non sparirò. Ritornerò qui con voi, mi fermerò dove mi indicherete e quanto sarà necessario. Esamineremo tutti i manoscritti di Jurij. Vi aiuterò. Davvero, forse potrò esservi utile. E per me sarà una tale consolazione! Col sangue del mio cuore, con ogni vena io sento tutti i segni della sua scrittura. E poi ho una cosa da chiedervi, avrò bisogno di voi, non è vero? Mi sembra che voi siate un uomo di legge, o, in ogni caso, che conosciate bene le leggi, quelle di ieri come quelle d’oggi. Oltre tutto, è così importante sapere a quali autorità bisogna rivolgersi per ogni informazione! Non tutti lo sanno, non è vero? Ho bisogno del vostro consiglio per una questione terribile, che mi angoscia. Si tratta di una bambina. Ma di questo parleremo poi, dopo la cremazione. Sempre nella mia vita mi tocca cercare qualcuno, non è vero? Dite, se, supponiamo, occorresse cercare le tracce di un bambino, dato da allevare a estranei, c’è qualche archivio generale, di tutta l’URSS, degli asili d’infanzia? Lo Stato ha mai fatto un censimento generale o una registrazione dei “besprizòrnye”?94 Ma non rispondetemi ora, vi supplico. Poi, poi. Oh, com’è terribile, terribile! Che cosa terribile è la vita! Non so che farò in seguito, quando mi raggiungerà mia figlia, ma per ora posso rimanere qui. Katen’ka ha rivelato straordinarie attitudini drammatiche e musicali, imita tutti magnificamente e recita intere scene di sua invenzione, e canta a orecchio brani di opere, è una bambina straordinaria, non è vero? Vorrei farle frequentare i corsi preparatori di un istituto teatrale o del Conservatorio, se l’accetteranno, e iscriverla come interna. Sono venuta a Mosca, per il momento senza di lei, per sistemare ogni cosa, poi partirò. Come si fa a raccontare tutto, non è vero? Ma di questo vi dirò poi. Adesso vedrò di calmarmi, starò zitta, metterò ordine nella mia mente, cercando di non pensare alle cose che mi spaventano. E poi abbiamo fatto terribilmente aspettare gli amici di Jurij nel corridoio. Già due volte mi è sembrato che bussassero alla porta. E si sente movimento, rumore. Forse sono arrivati quelli delle pompe funebri. Mentre io resto qui e rifletto, aprite la porta e lasciate entrare la gente. E’ ora, non è vero? No, aspettate, aspettate. Bisogna mettere uno sgabello vicino alla bara, altrimenti non arriveranno a toccarlo. Ho provato ad alzarmi in punta di piedi, ma è troppo alto, non ci si arriva. Ci vorrà lo sgabello, specialmente per Marina Markèlovna e per le bambine. E poi, lo richiede il rito: ‘E baciatemi con l’ultimo bacio.’ Oh, non posso, non ne posso più. Come fa male, non è vero?»

«Adesso farò entrare la gente. Ma prima sentite. Avete detto tante cose enigmatiche e accennato a tante questioni, che evidentemente vi tormentano, che mi è difficile rispondervi. Voglio però che sappiate una cosa. Volentieri, di tutto cuore vi offro il mio aiuto per tutto quello che vi preoccupa. E ricordate: mai, in nessun caso, bisogna disperarsi. Sperare e agire, questo si deve fare nelle sventure. La disperazione passiva significa dimenticare, tradire il nostro dovere. Ora farò entrare gli altri.

Quanto allo sgabello, avete ragione: lo procuro subito e lo metto al suo posto.»

Ma Lara non lo ascoltava già più. Non senti che Evgràf Zivago apriva la porta della stanza e che una folla di gente irrompeva dal corridoio; non sentì le sue trattative con gli organizzatori del funerale e con gli intimi; non sentì il calpestio della gente, i singhiozzi di Marina, i colpi di tosse degli uomini, il pianto e le grida delle donne.

Un vortice di suoni indistinti la cullava e le dava un malessere. Doveva farsi forza per non svenire. Il cuore le si spezzava, si sentiva la testa dolorante. Chinando il capo, s’immerse in pensieri, supposizioni e ricordi. Vi si smarrì, vi affondò, come se provvisoriamente, per qualche ora, si trasferisse in un’età futura, un’età a cui non sapeva se sarebbe giunta, con in più tante decine d’anni a renderla proprio una vecchia signora. Sprofondata nelle sue riflessioni, come se toccasse il fondo dell’infelicità, pensava:

«Nessuno è rimasto. Uno è morto, l’altro si è ucciso. E’ rimasto vivo solo colui che bisognava uccidere, che lei aveva tentato di uccidere fallendo il colpo, quell’essere estraneo, inutile, che aveva fatto della sua vita una catena di colpe a lei stessa incomprensibili. Quel mostro di mediocrità andava e veniva per i recessi mitici dell’Asia, noti soltanto ai collezionisti di francobolli, e nessuna delle persone a lei care e necessarie era rimasta.

«Ah, era stato proprio a Natale! Prima che tentasse di uccidere quel mostro di volgarità, aveva avuto un colloquio con Pasha adolescente proprio in quella stanza, e Jura, al quale ora davano l’ultimo addio, non era ancora entrato nella sua vita.»

Cominciò a sforzare la memoria per ricostruire quel colloquio con Pashenka, ma non riusciva a ricordare nulla, eccetto la piccola candela che bruciava sul davanzale e il cerchio che essa aveva formato, sciogliendo la crosta di ghiaccio sul vetro della finestra.

Poteva mai pensare che il morto disteso lì, nella bara, aveva visto quel piccolo occhio, passando nella via, e fatto attenzione alla candela? Che da quella piccola fiamma vista dall’esterno - «Una candela ardeva sul tavolo, una candela ardeva» - aveva avuto inizio la predestinazione della vita di lui?

I suoi pensieri si sbandarono. Pensò: «Peccato però che non gli facciano i funerali religiosi! li rito funebre è così grandioso e solenne! La maggior parte dei morti non ne è degna. E Jùrochka, invece, ne sarebbe stato un così nobile pretesto! E’ così degno di quel rito e avrebbe talmente ripagato e giustificato quel ‘singhiozzo funebre che si fa canto d’alleluja’, l’avrebbe talmente ripagato e giustificato!»

Sentì un’ondata di orgoglio e di sollievo, come sempre le accadeva quando pensava a Jurij e a quei brevi periodi in cui gli era vissuta accanto. Il senso di libertà e di naturalezza che si sprigionava continuamente da lui, anche questa volta la prese. Si alzò d’impeto dallo sgabello. Le avveniva qualcosa che non capiva bene. Avrebbe voluto, anche solo per poco, uscire col suo aiuto all’aperto, all’aria fresca, sottraendosi a quel gorgo di sofferenza che l’avviluppava, per riprovare, come un tempo, la felicità della liberazione. Pensava e sognava che tale felicità potesse consistere nel dargli l’estremo addio, nell’occasione e nel diritto di piangerlo da sola, a sazietà, liberamente. Con la foga della passione girò sulla folla uno sguardo incrinato dal dolore; gli occhi non vedevano più, pieni di lacrime, come quando un oculista vi istilla gocce brucianti. Tutti si mossero, chi si soffiò il naso, chi si fece da parte e presero a uscire dalla stanza, lasciando Lara finalmente sola, dietro la porta chiusa. Rapidamente segnandosi, Lara si accostò alla bara, salì sullo sgabello messo da Evgràf, fece sul cadavere tre lenti, ampi segni di croce e baciò la fredda fronte e le mani. Passò oltre la sensazione che la fronte gelida si fosse rimpicciolita, come un pugno chiuso. Le riuscì di non accorgersene. Stette immobile per alcuni istanti e non parlava, né pensava, né piangeva, solo coprendo parte della bara, dei fiori e del cadavere con tutta se stessa, con la testa, col petto, con l’anima e con le braccia, grandi come l’anima.

Il dottor Zivago
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